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Salario minimo, i lavoratori lo pretendono

La proposta di istituire per legge un salario minimo, come esiste in molti paesi del mondo occidentale, è molto popolare.

Lo “scopre” il solito sondaggio – questa volta di Swg – secondo cui ben l’86% dei cittadini intervistati si dichiara favorevole. Curiosamente, o forse no, questa percentuale corrisponde quasi esattamente alla fascia sociale che una volta veniva chiamata da tutti proletariato. Il resto, in un paese come questo, è piccola e media borghesia (gli ultraricchi sono una frazione infinitesima, sul piano numerico, anche se dominante).

Naturalmente l’idea generica di salario minimo è associata alla necessità di difendere il potere d’acquisto dei lavoratori dipendenti, specie in una fase di forte ripresa dell’inflazione, che si mangia una percentuale del salario già al momento di intascarlo.

Si potrebbe anche dire che il salario minimo diventa popolare nel momento di massima debolezza del movimento dei lavoratori, costretti a sperare che lo Stato li tuteli almeno un po’. Nei momenti di “alta conflittualità” il problema nemmeno esisteva – in Italia – perché la classe sapeva mettere in piazza una forza tale da costringere la controparte (Confindustria, Confcommercio, ecc) a “concedere” o meglio accettare aumenti salariali ben al di sopra della soglia minima vitale.

Perché di questo ormai stiamo parlando. Il fenomeno dei “lavoratori poveri” è caratteristico di una fase dello sviluppo capitalistico occidentale che ha ridotto il salario al di sotto del livello necsesario alla sopravvivenza del lavoratore e della sua famiglia.

Lo dimostrano, involontariamente. Anche i piagnistei di certi imprenditori da strapazzo che lamentano di non trovare manodopera a causa del “reddito di cittadinanza”. Ossia di una misura neanche universale, che assicura in media 580 euro al mese. Chiaro che se un “imprenditore” offre una cifra del genere per una quantità di lavoro spesso indeterminata (e ben sopra le otto ore al giorno) ben difficilmente può trovare qualcuno disposto ad accettarla. Pagate di più e vedrete quanta gente si presenta in azienda…

I sindacati “complici” – Cgil, Cisl e Uil – da decenni hanno smesso anche di chiedere aumenti salariali. Ma “difendono” una normativa, o meglio una prassi, secondo cui gli aumenti si ottengono con la lotta. Cosa se sarebbe sacrosanta se la lotta non venisse sistematicamente accantonata o boicottata…

La loro contrarietà al salario minimo, dunque, non è quella degli anni ‘70 (“possiamo ottenere di più con lo sciopero o il blocco della produzione”), ma un fiancheggiare le imprese nel tener chiuso il portafoglio.

E infatti una percentuale agghiaccinate di lavoratori – “intervistati”, nel linguaggio di Swg – boccia senza appello la posizione di CgilCislUil sul salario minimo: l’80%. Ma naturalmente la “triade” se ne fotte…

E dire che quasi la metà dei lavoratori ritiene insufficiente la propria retribuzione, alla pari con la parte che la ritiene sufficiente per campare. Ovvio che pesa, in questa bipartizione, il fatto che ci siano ancora molti lavoratori contrattualizzati cone le regole precedenti a leggi infami come la “legge 30”, il “pacchetto Treu” e il “Jobs Act”.

Ma si tratta naturalmente di lavoratori ormai in là con gli anni, e che si vanno perciò avvicinando alla pensione. Dietro di loro un esercito compatto di working poor di cui nessuno – se non il sindacalismo di base – si occupa.

Inutile dire, infine, che sono come sempre le donne a soffrire di più sia sul piano dell’occupazione che della retribuzione. Bel l’11% in più, rispettto ai maschi, sono le lavoratrici che considerano troppo basso il proprio salario.

Ce ne sarebbe abbastanza per mettere in moto un movimento di lotta per forti aumenti salariali. Il difficile è individuare il varco e il momento di una lotta vincente che faccia da “format” replicabile. Poi diventerebbe probabilmente inarrestabile.

Ma la rabbia sociale, per quanto sorda, cresce…

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