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La Chambre de l’Instruction di Parigi spiega il no alle estradizioni

Processi in contumacia, nessuna certezza che al rientro in Italia avrebbero un nuovo “equo” processo e un intervallo di tempo troppo lungo, 40 anni, durante il quale è stata data loro la possibilità di ricostruirsi una vita, una famiglia.

Queste alcune delle motivazioni – del tutto ragionevoli – che hanno determinato qualche giorno fa la decisione de la Chambre de l’Instruction della Corte di Appello di Parigi, di respingere la richiesta di estradizione di 10 esuli italiani accolti in Francia sulla base della dottrina Mitterand negli anni ’70, e richiesti l’anno scordo dal governo italiano che voleva mostrsre i muscoli ai danni di persone che 50 anni dopo i fatti di cui sono accusati, in ogni caso, non sono più le stesse, come hanno spiegato in sentenza la presidente Belin e i consiglieri Berthe e Kenette.

Il dispositivo sottolinea, fra l’altro, che le sentenze di condanna in Italia sono state rese quando gli imputati erano “latitanti e contumaci” e che sono stati “condannati al termine di una procedura alla quale non erano presenti”.

Alcune decisioni sono state prese “in assenza” e in diversi dei casi in questione “le autorità italiane non sono state in grado di indicare” se gli imputati “fossero stati assistiti da un avvocato scelto effettivamente” dagli stessi interessati.

Quanto alla possibilità che i processi vengano riaperti in Italia al rientro dei latitanti, in seguito alla “evoluzione” della legge italiana sulla contumacia, i giudici osservano che “le spiegazioni” richieste “non contengono alcuna affermazione del diritto” degli imputati di beneficiare di un nuovo processo.

In conclusione, per i giudici francesi “nessuna versione dell’articolo 175 del codice penale italiano (che organizza il diritto al ricorso contro il processo in contumacia) dà al condannato in assenza la facoltà incondizionata di esercitare un ricorso e di essere nuovamente giudicato”.

I giudici tirano più volte in ballo, come ha sottolineato la presidente del tribunale mercoledì annunciando la decisione sfavorevole all’estradizione, l’art. 6 della Convenzione europea dei diritti dell’uomo sulla necessità di un “processo equo”.

L’altra motivazione che ha spinto i giudici a negare l’estradizione, come già preannunciato dalla presidente, è contenuta nell’articolo 8 della stessa convenzione, che tutela la vita privata e familiare. E per i giudici “la passività delle autorità italiane, durata 30 anni prima di riformulare una richiesta di estradizione, ha contribuito alla costruzione di una vita privata e familiare sul suolo francese”.

E aggiungono che le persone perseguite, durante la loro permanenza in Francia, “non hanno commesso più atti illegali”.

Segue l’elenco delle professioni e delle cariche ricoperte in Francia, i nomi delle persone che sono state mogli, mariti. i figli, avuti in Francia, per qualcuno i nipoti: “I problemi causati all’ordine pubblico dai fatti commessi deve essere considerato alla luce della loro gravità – ammettono i giudici – ma anche del lungo tempo trascorso. Senza sottovalutare la gravità eccezionale dei fatti contestati, in un contesto di violenze estreme e ripetute che nessuna rivendicazione politica può legittimare, bisogna riconoscere che si tratta di fatti molto remoti, avvenuti 40anni fa”.

Infine, rilevano i giudici, gli imputati “si sono integrati nella società fin dal loro arrivo in Francia, vivendo nella legalità e provvedendo ai bisogni loro e delle loro famiglie”.

Luciano Vasapollo, militante politico e docente universitario, commenta la sentenza che respinge l’estradizione ricordando che “nella maggior parte dei casi gli esuli furono condannati a pene enormi per reati associativi, quindi senza specifici reati addebitabili ai soggetti, cioè con un uso veramente spropositato e abnorme della cosddetta ‘associazione sovversiva’ così come si parlava negli atti di concorso ideologico e concorso morale, qualcosa di veramente straordinario che significava ritenere una persona responsabile solo perché partecipa a un gruppo e non per quello che in effetti ha fatto. Inoltre ci sono le confessioni dei pentiti favorite da una legislazione premiale che spingeva ad accuse non fondate pur di avere un vantaggio.

Infine c’è il capitolo – che non fa onore al nostro paese – delle torture utilizzate per estorcere confessioni e chiamate in correo: si tratta purtroppo di episodi provati e oggetto anche di inchieste giudiziarie e giornalistiche, peraltro raccontati anche nella serie tv sul caso Dozier trasmessa da Sky in questi giorni”.

In proposito, l’allora commissario di polizia Savatore Genova, nel 2012, confermò l’uso delle torture nella lotta al “terrorismo rosso”: “Ero tra i responsabili, e ricevemmo il via libera per torture e sevizie. Sì, sono anche io responsabile di quelle torture. Ho usato le maniere forti con i detenuti, ho usato violenza a persone affidate alla mia custodia. E, inoltre, non ho fatto quello che sarebbe stato giusto fare. Arrestare i miei colleghi che le compivano. Dovevamo arrestarci l’un con l’altro, questo dovevamo fare”.

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