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Unione popolare, i perché di un voto utile

L’appuntamento elettorale del 25 settembre è stato preparato su un palcoscenico ideologico, edificato dai partiti di maggior peso, che descrive la sfida delle urne come una lotta epocale, una sorta di scontro di civiltà tra due mondi inconciliabili.

Da un lato il blocco del centro-sinistra egemonizzato dal Partito Democratico agita il pericolo di un’involuzione autoritaria da parte di una destra populista amica degli autocrati del mondo e si fa paladino della democrazia liberale e della Costituzione.

Dall’altro la triplice intesa di destra evoca l’avvento di un nuovo mondo e il rilancio dell’Italia finalmente liberata da troppe tasse e da troppi immigrati. Nel mezzo, il duo Renzi-Calenda, che dà lezioni di liberismo, filo-europeismo e amore per l’austerità.

A latere i Cinque Stelle che cercando di rioccupare uno spazio da troppi anni vuoto propugnano qualche vago tema sociale immersi nelle loro insanabili contraddizioni e pronti ad essere risucchiati nel vortice delle alleanze del palazzo semmai le circostanze lo richiedessero.

È evidente che si tratta dell’ennesima edizione di uno spettacolo teatrale purtroppo visto e rivisto.

Le parti in causa, al netto di differenze di costume, di tono, di linguaggio e qualche inezia di contenuto, condividono non soltanto la stessa identica visione dell’economia e dei rapporti economici, ma la stessa visione del mondo nella stragrande maggioranza degli aspetti che contano nel determinare il destino della vita di milioni di persone.

Stessa visione dei rapporti tra Stato e mercato, stessa visione del ruolo del lavoro nell’economia, stesso allineamento atlantista in politica estera, stessa adesione ai trattati dell’Unione europea e ai suoi soffocanti vincoli di bilancio.

Certo, delle piccolissime differenze tra i blocchi egemoni, anche sui temi economici, ci sono. Ad esempio, in tema di politica fiscale, tema cruciale e rivelatore.

Il blocco di destra enfatizza, come da sua tradizione secolare, il tema della riduzione delle tasse ed agita nuovamente l’arma ideologica della flat tax. Allo stesso tempo ostenta fedele adesione ai vincoli di bilancio, pur con qualche insulso gioco di ruolo tra Meloni e Salvini.

Il centro-sinistra, dal canto suo, straparla di mantenimento di progressività del sistema tributario (dopo averla praticamente azzerata in piena convergenza con il centro-destra negli ultimi trent’anni) mentre appare ossessionato fanaticamente dalla priorità dei vincoli di finanza pubblica.

Questo teatro dell’assurdo su un tema così cruciale non è certo casuale. La politica di bilancio è il cuore della politica economica, da cui tutto il resto inevitabilmente dipende.

Ebbene, al netto delle priorità sull’una o sull’altra leva della politica di bilancio, destra, centro-sinistra e centristi gareggiano a chi con più veemenza difende una politica di bilancio ostentatamente disegnata contro i lavoratori, contro i poveri e contro quel “ceto medio” che tutti raccontano a parole di voler rappresentare.

Vediamo bene in che modo, analizzando gli effetti delle diverse armi affilate rivolte dalla parte della lama contro il 95% degli italiani.

Con la flat tax o simili surrogati agitati in campagna elettorale, la destra vorrebbe semplicemente portare a compimento quel disastroso processo che ha pressoché azzerato, dagli anni ’70 ad oggi, la progressività del sistema tributario italiano.

Meloni, Salvini e Berlusconi, corteggiando le piccole imprese e il ceto medio, parlano della riduzione delle tasse come viatico per aumentare il benessere del “ceto produttivo”. Nascondono ancora una volta, però, il semplicissimo fatto che azzerare la progressività, già ridotta in frantumi, significa continuare a regalare montagne di soldi a chi ne ha già tantissimi e allo stesso tempo tagliare servizi sociali a tutti. Altro che difesa del ceto medio!

Il centro-sinistra e persino Calenda e Renzi attaccano la flat tax presentandosi come difensori della progressività sancita dalla Costituzione. Del resto a parole la difendeva anche Draghi. C’è da chiedersi però dove fossero costoro negli ultimi tre decenni quando tutti i governi prendevano a picconate quel sistema nato dalla riforma fiscale del 1974 che, sebbene con alcuni difetti, imponeva con i suoi 32 scaglioni ai ricchissimi di pagare molto e a poveri e ceto medio di sopportare un peso fiscale meno gravoso.

Dove erano quando i redditi da capitale e le rendite venivano sottratti del tutto alla progressività e beneficiavano di flat tax ben prima che Salvini e la sua cricca sdoganassero il termine? Dov’erano pochi mesi fa, quando Draghi riduceva, per l’ennesima volta, l’estensione della scala dei redditi su cui la progressività agisce?

La risposta a queste domande è molto semplice, perché erano sostanzialmente sempre al Governo, a farsi portavoce e difensori degli interessi materiali di pochi privilegiati, sulle spalle della stragrande maggioranza della popolazione.

Dall’altro lato della sfera della politica fiscale vi è la seconda arma affilata: quella della spesa pubblica.

Fare a gara in televisione a chi rispetterà con più attenzione i vincoli di bilancio è la più eclatante prova della profonda convergenza sul progetto politico di chi si appresta a governare l’Italia. Lo stanno semplicemente dicendo ad alta voce, ma nessuno sembra voler sentire. 

Ci stanno dicendo a chiare lettere che non ci sarà alcuno spazio per spendere, che l’austerità proseguirà ed anzi dopo gli anni di parziale eccezione della pandemia, riprenderà vigore.

Ci stanno dicendo che dobbiamo tenerci alti livelli di disoccupazione (strettamente legati alla dinamica della domanda aggregata) e che non ci sono soldi per spese infrastrutturali, per il dissesto idrogeologico del territorio, per la sanità ridotta a brandelli, per una scuola dove ad ottobre mancheranno in cattedra ancora centinaia di migliaia di docenti, per interventi che favoriscano una riconversione energetica di cui tanto si blatera e per tutto ciò che servirebbe per rendere la vita delle persone migliore.

In questo panorama desolante e di generale convergenza di idee e di progetti, resta un’unica alternativa possibile: votare Unione Popolare. Votare, cioè, un programma che mette coerentemente in radicale discussione i fondamenti strutturali da cui la crisi economica, la disoccupazione, lo sfruttamento del lavoro, il precariato, la carenza di servizi pubblici e lo smantellamento dello stato sociale dipendono.

Votare chi vuole prendere i soldi da chi questi soldi li ha accumulati senza vergogne anno dopo anno, decennio dopo decennio, mentre a reti unificate il centro-destra-sinistra ci invitava a fare sacrifici e magari a farcelo pure piacere.

Votare chi vuole redistribuire reddito e ricchezza da chi ha molto a chi ha poco, votare perché, per una volta, non sono tutti uguali.

* Coniare Rivolta è un collettivo di economisti – https://coniarerivolta.org/

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1 Commento


  • Dino

    E fermare la guerra?

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