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Centenario dell’URSS: il “grande incubo” di un liberale

C’è un livornese – non è l’incipit dell’ultimo Vernacoliere – “politico e storico” (Wikipedia) ex allievo dei salesiani, ex Italianieuropei, Italia Futura, ex deputato di Scelta civica, ex renziano del PD, che nel 2022 terminava molti degli interventi alla Camera col saluto banderista caro ai nazional-nazisti ucraini di “Slava Ukraini”.

Detto livornese, di professione “Docente universitario” (Wikipedia) non rieletto alle politiche del settembre scorso, si è prontamente riciclato a infiorettare le pagine “culturali” di Repubblica con il proprio dalemismo “blairiano e liberale” (Wikipedia), concentrando le proprie cantiche sulla «democrazia ucraina».

E, dall’altare della docenza storica, non poteva non riversare sui lettori la propria omelia sul centenario della formazione dell’URSS, presentato come «il grande sogno della Madre Russia»: un accadimento, assicura il prof. Andrea Romano, mal nascondendo una lacrima per l’amata Ucraina “oppressa da Mosca”, «in cui si ritrovano i segni di una storia che non è mai finita. Quella dei rapporti di parità o subordinazione tra Mosca e le altre nazionalità dello spazio geografico della vecchia Unione sovietica».

Ora, a dire il vero, il modo in cui il prof. Romano rievoca le vicende che accompagnarono la proclamazione dell’URSS, non ha un granché di “propria omelia”, e mentre sembra attingere a piene mani da Moše Levin, da lui citato, ripropone la stantia vulgata della contrapposizione tra le visioni di Lenin e di Stalin a proposito della strada da seguire per unificare le diverse Repubbliche sovietiche formatesi sulla scia della Rivoluzione d’Ottobre e della proclamazione della RSFSR.

Va da sé che il “blairiano e liberale” si scomoda a rievocare la data del 30 dicembre 2022 solo perché si tratta di «una data che merita di essere ricordata alla luce dell’aggressione russa alla democrazia ucraina», nel quadro più generale di una storia «che per alcuni decenni si è intrecciata alle diverse stagioni della vicenda sovietica illudendo molti (anche in Occidente) che l’ideologia comunista avesse esercitato un miracoloso effetto di diluizione sulla vocazione imperiale del nazionalismo russo.

Un’illusione smentita più volte già in epoca sovietica, attraverso le varie tappe della progressiva russificazione dell’Urss, e oggi sepolta dalla violenza coloniale della guerra di Putin».

Ora, è chiaro che non si pretende dal “blairiano e liberale” prof. Andrea Romano una determinazione classista, storica, non astratta, della democrazia, né tantomeno l’adesione a quella ideologia comunista così lontana dal suo “Italeuropeismo”.

Ma, anche semplicemente dal punto di vista formale-liberale, ci vuole del coraggio a parlare di «democrazia ucraina» in riferimento a un apparato terroristico che, scaturito da un colpo di stato messo a segno con la sceneggiatura CIA e il ricorso a squadristi addestrati in terre NATO, ha perpetrato e sta perpetrando stragi, sequestri, attentati terroristici, torture in prigioni sotto controllo di SBU e CIA.

I lettori di questo e altri giornali che non dal 24 febbraio 2022 tentano di fare informazione oggettiva su quanto avviene in Ucraina, quantomeno dal febbraio 2014, non hanno bisogno che ci si dilunghi sulle “delizie” della «democrazia ucraina» osannata dai Pittella, dalle Boldrini e oggi dai Calenda, dai Romano, ecc.

I lettori si ricordano perfettamente degli omicidi di giornalisti, dei deputati di opposizione zittiti alla Rada e bastonati in strada, dei comunisti messi fuori legge, torturati e assassinati, dei gruppi interi di civili rapiti e massacrati dai nazisti in Donbass e sepolti in fosse comuni, ecc.

Limitiamoci dunque qui a una singola nota, di fonte non sospetta. Esattamente un anno fa – poi ovviamente, spinta dalle armi europeiste, la «democrazia ucraina» non ha potuto che elevarsi a livelli degni di Bruxelles – non certo Xinhua o teleSUR, ma nient’altri che Economist Intelligence stimava il cosiddetto “indice di democrazia” in Ucraina per il 2021 in 5,57 punti su 10 totali, ponendola al 86° posto su 167 (un autentico spasso, guardare la versione Wikipedia di tale classifica!) e qualificandola come “regime ibrido”, cioè non di “piena democrazia” come Canada o USA (!) e non “autoritario” come Cina o Russia.

I criteri su cui Economist Intelligence basa la propria stima e piazzava l’Ucraina all’ultimo posto tra i quattro paesi est europei definiti “regimi ibridi” sono quelli tipici della democrazia formale borghese: processo elettorale e pluralismo, funzionamento governativo e partecipazione politica, cultura politica, libertà civili. Proprio nulla di leninista; e nonostante ciò, 86° posto su 167!

Ma il punto centrale della rievocazione “storica” del prof. Romano non è questo. L’accenno alla «democrazia ucraina» non è che un corollario portato in dono dall’esimio docente, tra le giaculatorie sulla “efferatezza” russa nei confronti di quelle che l’ex onorevole, con un qual certo disgusto “blairiano e liberale”, definisce le «altre repubbliche rosse».

Una efferatezza, par di capire, insita nella stessa anima russa e dunque immune da qualsivoglia «miracoloso effetto di diluizione sulla vocazione imperiale del nazionalismo russo» esercitato dalle idee comuniste. Dalle parti del “blairismo liberale” questo si chiama razzismo, o sbaglio?

Tra l’altro, nemmeno lo schema descrittivo adottato dal docente ha alcunché di originale. Stalin era “un tiranno”, per definizione: sciovinista nei confronti delle «altre repubbliche rosse»; “paranoico” nello scatenare «il terrore degli anni Trenta, che avrebbe duramente colpito le minoranze nazionali»; “delirante” per «la sacralizzazione staliniana della vittoria nella seconda guerra mondiale come trionfo soprattutto russo – che avrebbe accompagnato la trasformazione neo-imperiale dell’Urss».

Un despota, insomma: un dato che solo gli storici comunisti osano mettere in discussione.

Al contrario, in Vladimir Lenin, «si avvertiva l’eco dello spirito con cui il socialismo europeo della Seconda Internazionale aveva dibattuto il tema della nazione… spazio di libertà e autonomia dei popoli perfettamente compatibile con il futuro orizzonte socialista (secondo l’accentuazione che era venuta soprattutto da Otto Bauer)».

Oggi, con «l’aggressione russa alla democrazia ucraina», Mosca ha dimostrato di aver largamente ereditato, se non altro “ideologicamente”, «un processo di progressiva russificazione», tratta largamente da «un serbatoio di “sciovinismo grande-russo” che Putin si sarebbe incaricato di utilizzare come cemento del regime e strumento di guerra. Quello stesso Putin che non ha mai nascosto la propria ostilità verso la memoria di Lenin».

Dunque: Putin dedito a una «violenza coloniale» sulle orme dello «sciovinista grande-russo» Stalin. In Lenin, di contro, (questa è forse l’unica cosa originale, o bizzarra, detta dal chiarissimo docente) si avverte l’eco della II Internazionale e addirittura di Otto Bauer; di quel Bauer, cioè, le cui teorie sulla cosiddetta “autonomia culturale-nazionale” erano state attaccate, prima che da Stalin, proprio da Lenin come borghesi-nazionaliste e la cui ostilità alla Rivoluzione d’Ottobre veniva bollata da Lenin come tentativo di imporre ai bolscevichi di tornare indietro e fermarsi alla rivoluzione borghese.

Così, abbiamo uno Stalin, il cui dispotismo paranoico è un assioma della fede; un Putin che si dimostra sempre più «accogliente verso il culto di Stalin» e un Lenin che (si scopre oggi, grazie al prof. Romano) smette i panni bolscevichi e si muove nel solco della II Internazionale anti-bolscevica.

C’è da rompersi la testa.

Nella “rievocazione” del prof. Romano c’è l’intero ventaglio delle “interpretazioni storiche” di stampo, quello sì, secondinternazionalista. Dal “biglietto” recapitato da Kamenev al Politbjuro, fino al «terrore degli anni Trenta che avrebbe duramente colpito le minoranze nazionali» e che discenderebbe in linea retta dallo «sciovinismo grande-russo» di Stalin e che non poteva non portare a «un processo di progressiva russificazione».

Ora, secondo una statistica riassunta nell’agosto del 1995 da Andrej Timofeev, sulla base dell’indagine storica di Viktor Zemskov, risulta che su un campione di 1.090 casi esaminati di persone epurate, il 60% era composto da russi, il 12% da ebrei, il 7% da persone dell’Europa occidentale e il 5% di varie nazioni slave, mentre il 12% erano cittadini di altre nazionalità dell’URSS.

Per quanto riguarda poi il “famoso” biglietto in cui sarebbe stato trascritto un messaggio dettato (non scritto) da Lenin e recapitato da Kamenev al Politbjuro, lo storico Evgenij Spitsyn sottolinea come negli archivi non esista alcuna prova di tale “dettato” di Lenin: «si tratta solo delle parole di Kamenev», dice Spitsyn, perché non esiste nessun documento.

Da parte sua, lo storico Valentin Sakharov, nel suo monumentale Il “testamento politico” di Lenin – realtà storica e miti della politica, con argomentazioni basate sui diari delle segretarie di Lenin e dei medici che lo stavano curando, dell’analisi politico-filologica dei testi, sin dal 2003 aveva messo in dubbio l’autenticità di molti dei testi e dei messaggi del periodo tra l’autunno del 1922 e il marzo del 1923, attribuiti a Lenin dopo il 1956.

In ogni caso, ricorda ancora Spitsyn, tra maggio e settembre 1922 proseguirono aspre discussioni in tutto il Partito, già cominciate al X Congresso del marzo 1921, a proposito delle forme da dare all’Unione: federazione libera o autonomia federale.

A metà settembre 1922, rimessosi dall’ictus, Lenin chiese a Stalin di venire a trovarlo a Gorki per discutere il tema. Il 24 settembre viene approvato il progetto di Stalin sull’autonomizzazione, con l’appoggio di RSFSR, Armenia, Bielorussia, Azerbajdžan; contrari Georgia (l’allora presidente del Soviet unitario della Federazione sovietica caucasica, Polikarp Mdivani non voleva che la Georgia entrasse nell’Unione come parte della Confederazione Caucasica).

E Ucraina, il cui presidente del Consiglio Khristian Rakovskij aveva in mente non una Federazione, ma una Confederazione (un aspro scontro si avrà nell’aprile successivo, al XII Congresso del partito, a URSS già proclamata; allora, Rakovskij pretendeva anche che la futura Costituzione dell’URSS fosse definita semplicemente Trattato) lasciando al Centro solo poteri per Politica estera e Difesa.

Gli storici sono oggi abbastanza concordi nell’affermare che una spinta decisiva verso la formazione di uno Stato unitario era venuta dalla Conferenza di Genova dell’aprile-maggio 1922, per la quale le prime 7 Repubbliche che sarebbero entrate a far parte dell’URSS avevano conferito alla RSFSR la facoltà di firmare accordi a nome di tutte.

Sta di fatto che, posto di considerare autentici i “biglietti” o i “dettati” di Lenin al Politbjuro, con ogni probabilità proprio l’irrigidimento di Georgia e Ucraina influì non poco sulla sua mutata posizione: ancora a gennaio, Lenin era d’accordo con la proposta di Stalin sulla “autonomizzazione” come base per l’unificazione delle repubbliche sovietiche.

Se non ci fosse stata la fronda di Mdivani-Rakovskij, per cui Lenin temeva la contrarietà delle due Repubbliche a entrare nell’Unione, dice ancora Evgenij Spitsyn, quasi certamente sarebbe stata approvata la variante di Stalin.

Non a caso, come scriveva Valentin Sakharov, sin dall’inizio i bolscevichi si erano concentrati sulla formula di “uno stato socialista unitario per la RSFSR”, con diritti di autonomia locale ai popoli che vi risiedevano compatti.

Lenin guardava al federalismo solo come tappa necessaria verso uno Stato socialista unitario, al pari di Stalin; ed è noto che, in larga misura, l’assetto della RSFSR veniva preso a modello per la futura Unione.

A parere dello storico Vitalij Zakharov, un’altra circostanza che spinse Lenin a decidere per la Federazione e non per l’autonomizzazione all’interno della RSFSR, furono probabilmente le speranze, forti in tutta la leadership bolscevica ancora nel 1922, in vittorie rivoluzionarie in tutta una serie di paesi europei.

La federalizzazione avrebbe consentito a quelli di entrare a far parte della nuova formazione sovranazionale su un piano di parità e non come autonomie all’interno della RSFSR.

Per concludere, ricordiamo che Vladimir Putin, non da ora, imputa a Lenin di aver piazzato «una mina sotto l’edificio chiamato Russia», perché il 26° e ultimo articolo del Trattato dell’Unione (in sostanza, la 1° Costituzione dell’URSS: il Trattato cessò di esistere a luglio 1923, quando venne adottata la nuova Costituzione, ratificata a gennaio 1924) stabiliva proprio la libertà di uscita dalla Federazione. Questo, da una parte.

Dall’altra, il prof. Andrea Romano attacca formalmente Vladimir Putin, che «non ha mai nascosto la propria ostilità verso la memoria di Lenin, mostrandosi al contrario molto accogliente verso il culto di Stalin».

Ma è lontana, da l’uno e dall’altro, una visione di classe del processo storico, quella visione che orientava sia Lenin che Stalin, anche nella questione dei rapporti tra nazioni e popoli. Dal momento che è soltanto «una parte della questione generale della trasformazione del sistema esistente» diceva Stalin, «la questione nazionale è interamente determinata dalle condizioni della situazione sociale, dal carattere del potere»: proletario, o al contrario borghese.

Quella visione è estranea sia a Romano che a Putin, perché entrambi esprimono un punto di vista che è quello della classe che si autoproclama unica portatrice del “bene della nazione”: la borghesia.

L’uno e l’altro parlano di una Russia “immutata nei secoli”, sia che fosse tenuta a catena dagli zar o che avesse conosciuto un settantennio di potere sovietico. Uno impreca contro i bolscevichi che avrebbero distrutto «la Russia che abbiamo perduto»: quella dei contadini senza terra, incatenati al latifondo (con gli zar, cui oggi si alzano monumenti, primi tra i grandi latifondisti).

L’altro vede nella Russia sovietica, peggio che in quella degli zar (di cui non fa parola) l’avvio della «progressiva russificazione dell’Urss» che metteva fine a una «illusione smentita più volte già in epoca sovietica… oggi sepolta dalla violenza coloniale della guerra di Putin».

Nessuno dei due ricorda che quando Stalin parla di “liberalismo nazionale”, lo fa essenzialmente in riferimento al nazionalismo locale, che rappresenta l’altra faccia, contrapposta, dello “sciovinismo grande russo”: in tutti e due i casi, si tratta di sopravvivenze del dominio borghese e le due opposte facce rispondono agli interessi delle vecchie élite borghesi che tentano di riconquistare le posizioni perdute con la Rivoluzione d’Ottobre.

Quella Rivoluzione aborrita tanto dai salesiani, quanto dalle borghesie post-sovietiche.

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1 Commento


  • pierluigi

    Questo articolo preciso non spiega come oggi abbiamo Putin;risposta.la degenerazione social imperialista URSS,la continua visione solo euro occidentale della lotta di classe..In particolare l’invasioene di Praga e la guerra in Afghanistan e la concezione colonialista dell’est europeo e di Cuba sono i padri dellattuale capo russo,se continuiamo a combattere sul campo del nemico (Sun-Zu)abbiamo perso non solo ma siamo disarmati,come sta accadendo ed è ancora peggio;come asseriva Musto siamo solo occidentali e ci guardiamo l’ombelico..tra l’altro già Marx e lenin avevano una visione GLOBALE del mondo e degli sviluppi delle lotte nel mondo ante litteram

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