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Governo Meloni: più guerra e meno istruzione

È difficile immaginare dei ministri più svergognati di quelli del governo Meloni, che tra l’altro agiscono con uno sciagurato sincronismo.

Mentre in parlamento il ministro della Difesa Crosetto proponeva di stralciare le spese militari dal pareggio di bilancio per consentire di ripristinare le dotazioni dell’esercito, falcidiate dagli “aiuti” peraltro segreti, mandati in Ucraina, quello dell’”Istruzione e del Merito”, Valditara, diceva che per mandare avanti la scuola sono necessari finanziamenti privati.

Insomma, soldi solo per la guerra ma non per l’istruzione.

Tuttavia, la posizione di Valditara va esaminata più in profondità, poiché rappresenta un’ulteriore accelerazione del processo di privatizzazione e di sottomissione alle aziende iniziato già da anni. Ora Valditara immagina che i privati debbano finanziare direttamente le scuole, soprattutto professionali e tecniche, evidentemente acquisendo voce in capitolo sui percorsi e le modalità della formazione.

Sappiamo bene come da anni le scuole versino in uno stato d’abbandono finanziario, abbiano problemi didattici, di attrezzature e di spazi. La fragilità della scuola, non casuale, ma programmata razionalmente da parte dei diversi governi rende evidentemente appetibile un aiuto dei privati.

Un sostegno però molto negativo in termini di formazione che sarebbe tutta orientata verso l’addestramento di mano d’opera per le aziende e non certo verso l’acquisizione dei saperi fondamentali per il cittadino.

Non potrebbe essere che così, i privati investono per avere un guadagno, non per beneficenza.

Il presidente dell’Associazione Nazionale Presidi sezione del Lazio, Mario Rusconi, si è dimostrato entusiasta dell’idea del Ministro, anzi l’ha in qualche modo superata, sostenendo che le scuole dovrebbero avere lo statuto di Fondazione, per essere più celeri nell’azione e diminuire i costi.

Non siamo certi che il preside Rusconi si riferisse a tutte le scuole (abbastanza improbabile trasformare una scuola elementare in Fondazione), ma sicuramente il modello che egli ha in mente è quello già sperimentato a proposito degli Istituti Tecnici Superiori (ribattezzati ITS Academy, un po’ di inglese fa sempre figo) che sono appunto gestiti da Fondazioni.

Questo modello vede affiancati gli enti pubblici, tra cui quelli locali, come le Regioni, le aziende del territorio e altre istituzioni private. Il risultato è che tali istituti sono rigidamente sottomessi alle esigenze delle aziende del territorio in cui si trova la scuola e le imprese si garantiscono il controllo sulla didattica mandandovi a insegnare propri quadri che costituiscono il 50% circa del corpo docente.

In Lombardia, dove gli ITS scuola-fondazione sono in rapida espansione (già 25 istituti) si immaginano già percorsi formativi specifici per le Olimpiadi invernali del 2026, ripetendo le esperienze di sfruttamento già vissute con Expo 2015.

Questo obbrobrio aziendalista il preside Rusconi lo vorrebbe generalizzare a tutto il sistema scolastico che a quel punto non avrebbe più nulla né di pubblico né di unitario a livello nazionale, poiché sarebbe semplicemente costituito da Fondazioni senza nulla in comune tra loro, destinate solo a formare forza lavoro più o meno qualificata in base alle esigenze delle imprese del territorio in cui si trovano.

È evidente che ciò provocherebbe un ulteriore divario di risorse tra le scuole che si trovano in territori produttivamente sviluppati che potrebbero trovare partner privati e altre che invece non ce la farebbero.

La disparità territoriale non sembra preoccupare questi grandi sostenitori della “Nazione” (termine caduto in disuso dal linguaggio politico e rispolverato da Meloni). Infatti, intorno alla discussione sui capitali privati nella scuola, è emersa anche l’idea di differenziare i salari dei lavoratori della scuola in base al costo della vita nella sede di lavoro.

In pratica, una reintroduzione delle gabbie salariali abolite a furor di lotte operaie tra il 1969 e il 1972 in virtù delle quali i lavoratori che svolgevano uguali mansioni percepivano salari diversi in base alla città dove lavoravano.

Secondo Valditara, evidentemente, non è nemmeno necessario attendere che Calderoli termini il suo lavoro di demolizione della repubblica: gli stipendi differenziati si possono applicare subito.

Naturalmente Valditara ha voluto precisare che non intende mettere in discussione l’esistenza del contratto nazionale né pensa a veri e propri salari differenziati. Si tratta “solo di un adeguamento al costo della vita”. Ma in concreto, alcune buste paga potrebbero essere più leggere di altre. Ciò che rimarrà condiviso, sarà la miseria generale.

Quanto all’abolizione del contratto nazionale, non ci fidiamo affatto ed è il caso di vigilare attentamente. Non riusciamo a immaginare un contratto che preveda retribuzioni diverse per lo stesso lavoro.

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