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No ad autonomia differenziata. LEP e questione meridionale temi centrali della mobilitazione

Sono ormai più di trent’anni da quando la Lega Nord cominciò ad agitare il tema della secessione delle regioni settentrionali, adornato anche con racconti e riti mitologici – le fonti del Po, Pontida ecc. –, e se esso ha segnato un’intera fase politica lo si deve a forze economico-sociali che hanno solidi interessi nel perseguire una differenziazione nella gestione della cosa pubblica.

Lo ha rilevato Alfonso Gianni nel suo intervento, e lo ha scritto anche su il manifesto: il sistema capitalistico, in particolar modo quello dell’Unione Europea (UE), va analizzato non più secondo dimensioni nazionali bensì per unità regionali, seguendo la teorizzazione di Kenichi Ohmae.

Nell’UE l’industria tedesca è al centro di un sistema che estende le sue catene produttive a Nord, verso l’Olanda e la Polonia, a Est soprattutto verso la Repubblica Ceca Ungheria e Romania, e a Sud verso Lombardia, Veneto ed Emilia Romagna,  e, al contempo, si sono creati distretti con industrie di eccellenza, spesso leader mondiali nel loro ambito merceologico.

Per avere un quadro di questa geografia produttiva e dei settori di eccellenza basta leggere i Rapporti della  Fondazione Edison o gli articoli di Marco Fortis su Il Sole 24 Ore. In uno di questi, del 3 gennaio 2023, scrive che ‘tre regioni italiane figurano tra le prime dieci in Europa per livello di valore aggiunto industriale: Lombardia, Veneto ed Emilia Romagna … la Lombardia è, di fatto, la prima regione industriale in base alla classificazione NUTS 2 dell’UE … davanti alle due regioni tedesche di Stoccarda e dell’Oberbayern … il Veneto è al sesto posto, mentre l’Emilia Romagna è all’ottavo’.

Il nuovo triangolo industriale è lo stesso che guida il treno dell’autonomia differenziata, perché ha la necessità di non avere a livello nazionale ‘pesi morti’ nella gara sui mercati mondiali, o perché le loro imprese fanno parte delle catene di valore sovranazionali o perché, essendo ‘multinazionali tascabili’, vogliono rimanere leader mondiali. In concreto, gli imprenditori del nuovo triangolo industriale hanno necessità di procedere a ulteriori forme di integrazione sovranazionale e per questo spingono in modo indefesso per differenziare il sistema istituzionale.

Nell’Ottava Relazione sulla coesione economica, sociale e territoriale dell’UE, dal titolo La coesione in Europa in vista del 2050, si trova una mappa in cui le aree più sviluppate, in transizione e meno sviluppate delineano una sorta di imbuto.

La parte in alto interna dell’imbuto rappresenta le aree più sviluppate e maggiormente integrate a livello europeo, mentre ciò che ad esso esterno rappresenta o regioni in transizione o meno sviluppate.

La parte bassa e stretta dell’imbuto, quella meno sviluppata, rappresenta il Meridione d’Italia, completamente fuori dai processi di integrazione. Non si dica che richiamare questi fatti per motivare la spinta verso l’autonomia differenziata è segno di determinismo economico, mentre è la sola possibile spiegazione di una tendenza alla differenziazione territoriale persistente nel tempo, e che ha condizionato l’evoluzione politica, istituzionale e costituzionale del nostro paese negli ultimi 30 anni.

Prima di affrontare i temi dei LEP e del Sud, mi preme avanzare una prima proposta al Centro per la Riforma dello Stato (CRS), quella di organizzare una ricerca, con relativi seminari, sulle tendenze sovranazionali del capitalismo italiano, che senza scimmiottare quello del ‘Gramsci’ del 1962, esamini i processi di innovazione del capitalismo italiano nel quadro dell’integrazione dell’UE.

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Con la revisione del Titolo V della Costituzione del 2001, i governi D’Alema e Amato cercarono di fermare l’ascesa leghista e la vittoria elettorale del centrodestra – tentativo fallito, con il risultato grave di utilizzare la Costituzione per risolvere conflitti squisitamente politici e di capovolgere, con la revisione, la gerarchia delle fonti come stabilita nella Carta del 1948.

Con la legge 3 del 2001 di revisione costituzionale, si è lasciato allo Stato la competenze esclusiva nelle materie enumerate nell’articolo 117, secondo comma, predisponendo al terzo comma un confuso elenco di materie a competenza concorrente che negli anni ha alimentato ricorsi a non finire alla Corte costituzionale per conflitti di attribuzione, si è attribuita la competenza legislativa residua alle Regioni; con il terzo comma dell’art. 116 si è prevista la possibilità di ulteriori forme e condizioni particolari di autonomia in ben 23 materie (di cui tre di competenza esclusiva statale); si è introdotto all’articolo 118 il principio di sussidiarietà orizzontale legittimando a livello costituzionale i processi di privatizzazione dei servizi pubblici funzionali alla fruizione dei diritti sociali; si è infine cancellato il terzo comma dell’art. 119 della Carta del 1948.

Questo stabiliva che, al fine di ‘provvedere a scopi determinati, e particolarmente per valorizzare il Mezzogiorno e le Isole, lo Stato assegna per legge a singole Regioni contributi speciali’, invece con la revisione del  Titolo V la ‘questione meridionale’ è stata cancellata, anche se già prima, in contrasto con quella disposizione costituzionale allora ancora in vigore, il Parlamento, con la legge 19 dicembre 1992 n. 488, soppresse l’intervento speciale estendendo gli incentivi alle aree depresse a tutto il territorio nazionale.

La storia dell’articolo 119 non terminò con la revisione del 2001 perché, ventun anni dopo nella XVIII legislatura, il Parlamento ha introdotto un comma con cui la ‘Repubblica riconosce le peculiarità delle Isole e promuove le misure necessarie a rimuovere gli svantaggi derivanti dall’insularità’.

La formulazione del nuovo comma è assolutamente da condividere, tuttavia inspiegabili sono i motivi per cui non si è estesa questa disposizione all’intero Meridione, visto che l’ISTAT, non guidato certo da un progressista meridionalista, ha constatato in un Report del 25 gennaio 2023 che  i divari tra Nord e Sud – sulla base di ben 10 parametri che vanno dal PIL alla sanità all’istruzione – si vanno viepiù aggravando.

In sintesi: con la revisione del Titolo V si è data la possibilità di dar vita a forme di autonomia differenziata, si è lasciato senza copertura costituzionale la mai risolta ‘questione meridionale’, si sono incentivate le privatizzazioni dei servizi pubblici, si è assunto come criterio di erogazione dei servizi pubblici relativi ai diritti sociali e civili i Livelli Essenziali delle  Prestazioni (LEP), che sono la negazione dei principi di uguaglianza sostanziale (art. 3 Cost.) e di solidarietà (art. 2 Cost.).

Il ministro Calderoli, come è ben noto, non perde tempo, infatti, mentre è in corso di definizione il ddl sull’autonomia differenziata, ha fatto varare, con la legge di bilancio 2023, norme procedurali per la determinazione dei LEP. Dapprima un interrogativo sul ddl Calderoli.

Può una legge di rango non costituzionale disporre la devoluzione di competenze legislative del Parlamento? Sia chiaro, i Comitati contro ogni autonomia differenziata sono per l’abrogazione, con legge costituzionale, del terzo comma del 116, ma, rimanendo alla normativa vigente, si può utilizzare una legge, modificabile a seconda della maggioranza del momento, per alterare le competenze legislative del Parlamento? Siamo di fronte a forzature della Costituzione da parte della maggioranza di governo, che vanno bloccate.

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Venendo alle disposizioni della legge di Bilancio 2023 (n. 197/2022), relative alla determinazione dei LEP, da denunciare è innanzitutto la cancellazione del Parlamento nella procedura della loro determinazione, rilevata perfino dagli uffici studi di Camera e Senato e dall’Ufficio parlamentare di bilancio – quello istituito su prescrizione del Fiscal Compact ! –, che rileva come manchi, nei commi 791-805 dell’articolo 1 della legge di Bilancio, ‘una chiara distinzione fra l’ambito tecnico, che riguarda la ricognizione dell’esistente, e la scelta eminentemente politica di fissazione dei LEP’.

A prescindere dal fatto che i Comitati contro l’AD denunciano i LEP quale via per depotenziare, se non proprio annullare, i diritti sociali, voglio rilevare che l’UPB mette in luce un vulnus costituzionale nelle procedure previste dalla Legge di Bilancio ai commi 791-806, perché non è il Parlamento, organo di responsabilità politica che risponde almeno alle scadenze elettorali ai cittadini, a fissare i LEP ma il governo coadiuvato da organismi tecnici.

Avendo redatto l’intervento nei giorni successivi all’incontro del CRS, ho potuto leggere, un articolo di Giovanna De Minico, professoressa di diritto costituzionale alla Federico II di Napoli, dove si chiarisce come spetti ‘al Parlamento, per la sua derivazione popolare, comporre il bagaglio dei diritti sociali, avvalendosi della legge’, mentre la normativa varata con il Bilancio 2023 prevede l’emanazione di DPCM, lasciando ai margini il Parlamento (Il Sole 24 Ore , 1° marzo 2023, p. 14).

Questo dei LEP è un tema di mobilitazione fondamentale che unisce cittadini/e del Nord e del Sud del paese, perché essi provocheranno un abbassamento dei livelli delle prestazioni,  dando inoltre ancor più spazio a forme di previdenza privata e di welfare aziendale con il risultato di indurre ancor più accentuate differenziazioni sociali.

Se poi si pone mente all’articolo 4, comma 1, dell’attuale versione del ddl Calderoli, che prevede l’invarianza della spesa pubblica nel finanziamento dei LEP, è evidente il ‘gioco delle tre carte’ sulla pelle dei cittadini, infatti se la spesa pubblica non deve variare allora delle due l’una: o i livelli delle prestazioni si abbasseranno, e si abbasseranno sia al Sud che al Nord, oppure la spesa pubblica dovrà subire tagli nei comparti non LEP.

Occorre rovesciare l’impostazione e fare una campagna contro i LEP perché si varino norme per garantire efficaci prestazioni per la fruizione dei diritti sociali, colmando eventuali ‘lacune legislative’ (come più volte spiegato Luigi Ferrajoli). Altro che LEP! Si deve, al contrario, far valere il principio del secondo comma dell’art. 3 Cost., per cui la Repubblica ha il compito di rimuovere gli ‘ostacoli di ordine economico e sociale, che, limitando di fatto la libertà e l’uguaglianza dei cittadini, impediscono il pieno sviluppo della persona umana …’.

I LEP, invece, individuano livelli essenziali, per altro minimi, uguali per tutti e tutte, mentre la Costituzione prescrive che i livelli delle prestazioni devono essere articolati a secondo dell condizione reale di ogni  persona perché ne sia reso possibile il suo sviluppo. Ha scritto Fulvio Cortese che l’autonomia differenziata lede l’art. 3 Cost. perché questo, prendendo atto delle diversità dei e delle cittadini/e –  essendo cioè ‘uguali come persone, diversi come individui’ (Ferrajoli) –, prevede una differenziazione delle azioni positive e non la loro parificazione, al ribasso per di più (v. La differenziazione nella Repubblica delle autonomie, a cura di Daniele Coduti,Torino 2022, pp.70-71).

Sui LEP dobbiamo, con i sindaci le associazioni i sindacati, chiedere e praticare forme di democrazia deliberativa che trovino sbocco in decisioni politiche, dopo che cittadini e istituzioni territoriali abbiano dibattuto non se bensì  solo sul modo più efficace di garantire i diritti sociali.

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Alcune considerazioni sul Sud, pur essendo il tema fin troppo chiaro nella sua drammaticità. La ‘questione meridionale’, come ho ricordato, è stata costituzionalmente e politicamente cancellata, e purtroppo sono rimaste poche persone e organizzazioni a risollevarla, tra queste la SVIMEZ. Le classi dirigenti stanno progettando nuove servitù del Sud. Non c’è studio, rapporto, articolo in cui non si denunci l’aggravarsi dei divari tra Nord e Sud, divari che l’autonomia differenziata esaspererà in tutti gli ambiti della vita quotidiana.

Le classi dirigenti sono solite indicare le cause del persistere di questi divari nella scarsità del ‘capitale umano’ e nella debolezza istituzionale, debolezza della governance (come si ama dire). Ebbene, può mai svilupparsi il cd capitale umano,  e detto fuori da questo linguaggio utilitaristico si possono formare persone dotate di capacità cognitive e culturali, se le istituzioni scolastiche sono sottodimensionate, subordinate agli interessi imprenditoriali come dimostra la vicenda degli ITS, con docenti mal retribuiti, e le infrastrutture decrepite?

Nel Sud il 66% degli alunni delle scuole primarie non dispone di strutture per l’attività sportiva, con la conseguenza che al Sud un ragazzino su 3 è obeso, mentre al Centro-Nord uno su 5; tra il 2015 e il 2020 si sono persi 250000 studenti dalle scuole per l’infanzia alle superiori, al Centro-Nord 75000; un bambino del Sud frequenta la scuola primaria per 200 ore in meno rispetto a quello del Centro-Nord; al Sud solo il 18 % degli studenti ha accesso al tempo pieno, rispetto al 48% del Centro-Nord; al Sud il 79% degli studenti non usufruisce della mensa, al Centro-Nord il 49%.

Infine, tra il 2008 e il 2020, le risorse si sono ridotte in termini reali del 19,5% al Sud, al Centro-Nord del 11%, e la spesa per alunno  al Sud è di 100 euro inferiore rispetto al resto del paese (5080 euro rispetto ai 5185). Sono tutti dati SVIMEZ, contenuti nel documento Un Paese, due scuole, diffuso in un incontro a Napoli lo scorso 10 febbraio.  

A loro volta, i dati ISTAT contenuti nel rapporto I divari territoriali nel PNRR – dieci obiettivi per il Mezzogiorno, dicono che, al 2020, il 32,8% dei  cittadini meridionali nella fascia d’età 25-49 anni ha concluso al più la terza media – livello che si abbassa al 24,5% nel Centro-Nord –, mentre solo il 22,6% ha un titolo terziario, livello che al Centro-Nord si innalza al 27,6%.

Nella fascia d’età 25-34 anni dal 2000 ad oggi nel Mezzogiorno si hanno 3 occupati in meno ogni 10 rispetto al Centro-Nord, con tassi di occupazione giovanile al di sotto della media nazionale, e ciò spiega perché nel 2020, Sud e Isole abbiano perso 42 giovani residenti (fascia d’età 25-34 anni) ogni cento movimenti anagrafici extra-regionali, mentre nel Centro-Nord si registra un aumento del 22%.

Ė impossibile ‘trattenere’ i giovani nel Sud se mancano sbocchi occupazionali ‘per lavori decenti’, quasi mai rispondenti ai livelli di competenza pur acquisiti in ‘questa scuola’ e in ‘questa università’.

Minsky, che pure non sosteneva la garanzia universale del reddito preferendo quella dell’occupazione, affermava tuttavia che non è la persona a dover inseguire il lavoro, ma il lavoro la persona, intendendo che servono tipi di occupazione adatte alle persone per quello che sono, senza ipocritamente attribuire la disoccupazione al mismatch tra offerta e domanda di lavoro.

Se le prospettive sono quelle della gig economy, allora le persone in cerca di lavoro rifiutano precarietà e bassi salari, andando a ingrossare le fila dei NEET. In ogni caso, a smentire che le persone  si rifiutano di lavorare – e avrebbero ragioni da vendere! – sono i concorsi dello scorso anno per le assunzioni di ASIA, l’azienda napoletana della raccolta dei rifiuti, che hanno visto la maggioranza dei concorrenti e dei vincitori essere laureati.

A proposito della seconda causa dei divari territoriali, quella della debolezza della governance,  ha da tempo fatto notare Federico Pica che i sociologi parlano di una cd legge Wildavsky, per mettere in relazione la scarsità dei mezzi finanziari delle istituzioni locali con la loro fragilità e impreparazione amministrative poiché devono scegliere tra fornire servizi alla cittadinanza o investire risorse nell’amministrazione, preferendo ovviamente offrire servizi piuttosto che potenziare gli uffici (Il federalismo fiscale. Quaderno SVIMEZ, a cura di Federico Pica, Roma 2009 p. 18).

Alla base c’è sempre il problema della scarsità di risorse, e in Italia da decenni si tagliano i fondi per le assunzioni nelle, e per il funzionamento delle, pubbliche amministrazioni, che sono tutte, letteralmente tutte sottodimensionate.

Dai dati della Commissione UE risulta che la spesa per il personale della Pubblica amministrazione, il famoso capitale umano, in Italia è il 9.5%, in Danimarca arriva al 14,7%, in Belgio al 13%, in Francia al 12,3%, e in Germania si ferma al 7,7% ma in termini assoluti è molto alta dato che il suo PIL è doppio di quello dell’Italia (si veda la tabella pubblicata da Il Sole 24 Ore dell’8 febbraio 2023, pag. 2).

Si spiegano così le cifre messe in fila dalla Corte dei Conti, nella delibera 19/2022, da cui risulta che in Italia la spesa sanitaria pro capite sia di 2.851 dollari l’anno, 2637 euro, la metà, precisamente il 51,7%, di quella tedesca.

Dunque tutte le mancanze di personale strutture e apparati, venute drammaticamente alla luce con il COVID, sono risalenti nel tempo e dovute al definanziamento della sanità e alla sua privatizzazione. In Italia la spesa sanitaria è il 7,1% del PIL, in Spagna il 7,8%, in Francia il 10,3%, in Germania il 10,9%.

A queste ‘tare’ su scala nazionale si devono aggiungere gli squilibri tra le regioni, messe in luce sempre dalla Corte dei Conti: nella classifica dei LEA, i livelli di assistenza sanitaria, valutati secondo 22 indicatori, la Calabria si ferma a 125 punti, il Veneto e la Toscana sono a 222, l’Emilia Romagna a 221 e la Lombardia a 215 punti.

Ci si può stupire allora del ‘turismo sanitario’, che costringe le persone ad andare dal Sud a Milano o a Bologna per curarsi?

L’ISTAT, nel rapporto prima richiamato su I divari territoriali nel PNRR – dieci obiettivi per il Mezzogiorno, ha documentato come il Meridione d’Italia sia il territorio della zona euro più esteso per arretratezza, e, pur essendo un indice aggregato che non utilizza parametri relativi alla qualità della vita,  è grave che il PIL procapite del Mezzogiorno da un ventennio sia fermo al 55-58% di quello del Centro-Nord: nel 2021 era di 18000, mentre quello del Centro-Nord raggiungeva i 33000 euro. Il reddito pro capite della Calabria, ultima in questa classifica, era il 39,5% del Trentino Alto-Adige.

Senza ricorrere ad analisti collocati nello schieramento contro l’autonomia differenziata, come Marco Esposito, basta leggere Maurizio Ferrera per scoprire che  i servizi sociali –  per anziani, minori, famiglie con disabili … – conoscono ‘un’enorme variazione territoriale nei livelli di spesa pro capite’: nelle regioni a statuto speciale ‘si va dai 583 euro annui di Bolzano ai 53 euro di Messina; nelle regioni ordinarie ‘si va dai 246 euro di Bologna ai 6 euro di Vibo Valentia’.

In termini di servizi erogati si va dalle 6 prestazioni per ogni 100 residenti a Napoli contro i 30 di Piacenza e in ‘alcuni comuni della Calabria la cifra si avvicina allo zero: nessun servizio’ La conclusione di Ferrera è che la ‘famosa differenza fra cittadini di serie A e di serie B non è uno scenario futuro da paventare, è l’iniqua realtà di oggi’.

E aggiunge una chiosa, che riecheggia la favola di Esopo sulla volpe e l’uva e ripresa in epoca contemporanea da John Elster: ‘la maggioranza dei cittadini del Sud non si lamenta perché forse nemmeno sa che si potrebbe prendere di più’ (Corriere della Sera, 5 febbraio 2023, pag. 22). Ho richiamato il John Elster di Sour Grapes (Cambridge 1983) per sottolineare che le persone svantaggiate, deprivate, povere spesso si assuefanno alla loro condizione e sviluppano preferenze adattive – si adattano alla miseria, come la volpe di Esopo che, non potendo raggiungere il grappolo d’uva, si consola giudicandola non matura.

Potrei continuare con le statistiche, tutte ufficiali dunque non viziate da distorsioni partigiane, ma basta a questo punto richiamare le conclusioni del rapporto ISTAT già citato: davanti a noi è squadernata la ‘questione meridionale’, per altro mai superata, se non nella narrazione delle classi dirigenti, che hanno cancellato la questione meridionale dalla Costituzione, soppresso gli strumenti del’intervento speciale, dirottato da sempre le risorse delle politiche di coesione dell’UE verso il Nord, da ultimo durante la pandemia COVID.

Tuttavia voglio di citare un ultimo dato ufficiale, quello del Ministero delle Imprese e del made in Italy, che, nel suo Rapporto al Parlamento sugli interventi di sostegno alle attività produttive, scrive che nel 2021, per contenere la crisi economica indotta dal COVID, dei 25,1 miliardi di incentivi concessi, il 165% in più rispetto al 2020,  ben 22 miliardi sono andati alle imprese del Centro-Nord e 3 miliardi a quelle del Mezzogiorno, in calo addirittura del 10% rispetto al 2020, quando le industrie del Centro-Nord avevano usufruito di 5,9 miliardi e quelle del Sud di 3,4 miliardi di incentivi. Le classi dirigenti scientemente hanno privilegiato il sostegno alle industrie del Centro-Nord per sostenerle nella competizione sui mercati internazionali.

Oggi il disegno per il Mezzogiorno delle classi dirigenti, sul quale non si riscontrano divergenze tra il governo Draghi e quello della Meloni, è di crearvi nuove servitù a beneficio delle industrie del Centro-Nord e Centro-Europa. Negli decenni passati il Sud è stato il serbatoio di manodopera, successivamente luogo delle produzioni di base dell’acciaio e del petrochimico – la famose ‘cattedrali nel deserto’ –, poi la narrazione dello sviluppo a macchia di leopardo delle regioni meridionali ha giustificato nel 1992 la cancellazione dell’intervento speciale, ora si prospetta per il Sud il destino di hub di energia e di grande area per i servizi della logistica.

I paesi africani produrranno l’energia che transiterà nei gasdotti del Sud d’Italia per alimentare le industrie del Nord: è il nuovo scambio ineguale – l’Africa e il Sud d’Italia forniranno energia a prezzi più bassi possibili, affinché l’industria del Nord possa vendere a prezzi competitivi le merci, non più nel mercato interno, ma nei mercati internazionali.

Ė una prospettiva che potrà dar vita a qualche isola di sviluppo capitalistico, ma distruggerà le vocazioni economiche meridionali che richiederebbero la riqualificazione del territorio, comprese le zone interne, e del tessuto urbano, con lo sviluppo di produzioni ecosostenibili, a partire dall’agricoltura, dall’energia, dai servizi turistici, dai centri di ricerca universitari.

Per questo avanzo una seconda proposta al CRS: si rilanci la questione meridionale, per contribuire alla rinascita di un movimento meridionalista all’altezza delle trasformazioni che le crisi ambientali ed energetica richiedono.

In conclusione, LEP e questione meridionale sono, a mio avviso, gli assi della mobilitazione contro i disegni di autonomia differenziata.

 * Contributo portato al seminario del Centro per la Riforma dello Stato

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