“La Pubblica Amministrazione sarà più attrattiva. Ai giovani il posto fisso non basta”. Questa fu la celebre frase con cui il Ministro Zangrillo inaugurò la stagione del “posto figo”, e purtroppo è stato di parola.
Il triste regalo di Natale del Ministro è infatti il Decreto Ministeriale (DM) del 26 dicembre con cui apre le porte all’uso dell’apprendistato nella pubblica amministrazione, a cominciare dal personale dell’università.
Il Decreto prevede che fino al 10% delle nuove assunzioni (addirittura fino al 20% per Comuni, Province e Città Metropolitane) possa avvenire attraverso un contratto di apprendistato fino a tre anni che poi – previa una “valutazione positiva del servizio prestato, accompagnata da una relazione motivata concernente il servizio prestato, le attività svolte e la performance conseguita” – si trasforma nell’agognato (per i lavoratori, non per il Ministro) tempo indeterminato.
Le Pubbliche Amministrazioni potranno utilizzare questa modalità di assunzione fino al 2026, scadenza non a caso coincidente con la conclusione del PNRR, e infatti questa possibilità di assunzione viene presentata come uno degli elementi della strategia per sbloccare gli investimenti finora frenati dalle carenze di organico specialmente a livello locale, dove i “bandi PNRR” di ricerca del personale finora emanati erano tutti o quasi a tempo determinato senza nessuna garanzia di successiva assunzione a tempo indeterminato, col risultato di andare spesso deserti a causa dei bassi stipendi offerti e degli alti costi che i lavoratori si trovavano a dover affrontare in particolare in caso di trasferimento nelle grandi città.
In realtà, visto l’andazzo, c’è da temere fortemente che dal 2026 ci ritroveremo comunque con pochi investimenti fatti, ma con l’ennesimo colpo ai diritti dei lavoratori anche nella pubblica amministrazione, non solo con il proliferare di forme di inquadramento anomale, ma anche con criteri di selezione sempre più discutibili.
Il nesso con il PNRR, del resto, è tirato in ballo in maniera strumentale dal decreto, usato di fatto come leva per introdurre l’apprendistato.
Le pubbliche amministrazioni, da qui al 2026, dovranno gestire non solo l’ordinario ma pure i 200 miliardi di euro di investimenti PNRR, e per questo hanno bisogno di personale anche a tempo, o comunque non automaticamente rinnovabile.
Tuttavia, proprio in virtù di questo, avrebbero potuto, se questo fosse stato l’obiettivo, limitare il ricorso all’apprendistato a quelle amministrazioni, e al loro interno a quegli uffici, che sono direttamente impegnati nell’attuazione degli investimenti e delle riforme del Piano.
Ciò avrebbe limitato di molto la possibilità di ricorrere all’apprendistato, circoscrivendolo alle mansioni connesse al lavoro straordinario derivante dal PNRR.
Invece, il PNRR si cita solo retoricamente, mentre gli apprendisti saranno impiegati soprattutto nelle attività ordinarie delle amministrazioni. Prova di ciò sta nel fatto che il comma 3 dell’art. 1 del Decreto Ministeriale prevede la deroga all’art. 36 del DL 165/2001, ovverosia la deroga al principio secondo cui le pubbliche amministrazioni possono assumere con contratti precari “soltanto per comprovate esigenze di carattere esclusivamente temporaneo o eccezionale”.
Nella sostanza il DM è una piccola galleria degli orrori: questa tipologia di assunzione è riservata a giovani di età inferiore ai 24 anni, neolaureati o che hanno completato gli esami previsti dal proprio ciclo di studio se l’Università ha in essere una convenzione con qualche pubblica amministrazione.
Si sposa in pieno quindi l’idea che chi è giovane deve prima “farsi le spalle” e sottostare a condizioni peggiorative per entrare nel mondo del lavoro, salvo poi ricordarsi (art. 5) che costituisce elemento di valutazione, fra gli altri, “la rilevanza e la pertinenza delle esperienze professionali documentate con il profilo da ricoprire, nonché la durata delle medesime, ove attinenti”: insomma, per essere assunto devi prima esserti formato (non solo sui libri, ma anche professionalmente), ma poi da me Stato sempre da apprendista sarai trattato.
Fra i titoli di studio sono oggetto di valutazione anche “la media ponderata dei voti conseguiti nei singoli esami” e “la regolarità dello svolgimento del percorso di studi”, misure penalizzanti per gli studenti-lavoratori, o semplicemente per chi nel proprio percorso di studi ha incontrato qualche difficoltà (ma magari criteri ad hoc per favorire le università-esamifici, a partire da quelle private).
E si badi bene, in nome dell’immancabile “ottica di valorizzazione del merito” (art. 6), la media ponderata degli esami vale almeno per il 25% della valutazione complessiva ai fini dell’assunzione.
Insomma, e per espressa ammissione dei Ministri (non a caso il Decreto è cofirmato dalla Ministra dell’Università Bernini), “ad aprire la strada all’apprendistato sono le convenzioni con le Università per individuare gli studenti da assumere”, un ulteriore svilimento delle Università stesse sempre più trasformate da enti educativi e di ricerca a una sottospecie di centri di avviamento al lavoro (povero).
L’articolo 4 infine, in maniera criptica, introduce un ambiguo principio di “Territorialità del reclutamento” che – insieme all’articolo 7 che disciplina le Convenzioni che le amministrazioni devono stipulare prioritariamente con le Università più vicine – paradossalmente finisce per costituire addirittura un freno alla mobilità delle persone (peraltro una delle contestazioni mossa più frequentemente ai giovani in maniera sprezzante definiti troppo choosy).
Tutte queste potrebbero alla fin fine sembrare solo note di colore, alchimie contabili con cui lo Stato si prende in giro da solo per aggirare parzialmente i vincoli auto-imposti con le politiche economiche di austerità, che rendono difficoltosa la spesa pubblica (peggio che mai quella “corrente”, costituita in parte maggioritaria dalle spese per il personale).
Tuttavia, a parte il fatto che occorrerà vigilare su come i vari istituti contrattuali (a partire da quelli economici) verranno applicate a questa tipologia di lavoratori, la nostra idea invece è che queste misure vanno contrastate a partire dalla loro funzione disciplinante: un neoassunto giovane, probabilmente alla prima esperienza lavorativa, la cui conferma dipende dalla valutazione del proprio dirigente, è verosimilmente un lavoratore facilmente ricattabile (o almeno più facilmente condizionabile), a cui “sconsigliare” scioperi o attività sindacale, o imporre obiettivi e carichi di lavoro spropositati; si crea un’ulteriore segmentazione del lavoro negli uffici, con il proliferare di gerarchie e interessi divergenti, cercando di mettere i lavoratori stessi gli uni contro gli altri.
La verità è che nella pubblica amministrazione di flessibilità ce n’è fin troppa, e lo Stato-datore di lavoro è ormai da anni diventato uno dei principali produttori di precarietà, con la conseguenza non solo di impoverire i propri lavoratori, ma anche di offrire alla cittadinanza servizi sempre meno validi dal punto di vista qualitativo.
Il caso della scuola è esemplare, con un numero di supplenti (soprattutto quelli annuali) in continua crescita, un fabbisogno facilmente programmabile (oggi possiamo già sapere con certezza quante classi dovremmo formare – e quindi di quanti docenti abbiamo bisogno – in un orizzonte medio-lungo).
Ma nonostante ciò ad ogni inizio anno scolastico si ripetono le scene del caos organizzativo dovuto alle nuove nomine temporanee, con conseguente ansia dei supplenti stessi che scoprono da una sera all’altra in quale scuola (e a volte addirittura quale provincia o regione) sono assegnati, e alunni costretti a cambiare ogni anno il proprio docente e iniziare i programmi in ritardo.
Sorvolando sul disastro pedagogico di questa situazione (evidentemente non rilevante né per questo Governo né per quelli che lo hanno preceduto), osserviamo che si tratta di un fenomeno numericamente ben noto alla Ragioneria Generale dello Stato, che nel proprio osservatorio sul pubblico impiego fornisce un quadro sconfortante: il numero di insegnanti precari (“Altro personale”) è in crescita costante da oltre 10 anni, fino ad aver superato nel 2021 il precedente record (negativo) del 2006.
Università e sanità sono altri due esempi in cui la precarietà sta creando danni enormi, con contratti a termine rinnovati all’infinito (quando va bene) e conseguenti disservizi.
Apprendistato e altre forme di flessibilità insomma, nel pubblico come nel privato, non servono affatto per “formare” un nuovo dipendente (che, vale la pena ricordarlo sempre, è un dovere e un onere del datore di lavoro, e non del lavoratore, neppure indirettamente) né per verificare le sue reali capacità (per quello già esiste il periodo di prova).
Si tratta banalmente di un modo per imporre condizioni lavorative peggiori, e se nel caso del pubblico impiego pare – almeno per ora – escluso il caso di un sotto-inquadramento retributivo, è ridicolo pensare all’altro “beneficio” generalmente associato nel settore privato al contratto di apprendistato, costituito essenzialmente da uno sgravio previdenziale: che senso ha infatti un risparmio previdenziale per una pubblica amministrazione, quando quegli stessi contributi costituiscono una entrata di un altro “pezzo” dello Stato?
Nessuno appunto, tranne per il lavoratore che si troverà ad avere meno contributi versati, pur svolgendo (sarà da scommetterci) esattamente le stesse funzioni dei suoi colleghi “non apprendisti”.
Il Governo insomma continua a pensare a tutto per il pubblico impiego, meno a quello che serve veramente: un rinnovo dei contratti che garantisca almeno il pieno recupero dell’inflazione, un piano di assunzioni straordinarie e una diminuzione del già eccessivo livello di precarietà presente.
Al contrario, anche il settore pubblico accresce la sua funzione di vettore di precarietà e ricattabilità tramite un’offensiva che si nutre di retorica velenosa contro il “lavoratore pubblico fannullone” e di misure concrete di attacco alle condizioni lavorative di chi è impiegato presso un’amministrazione pubblica.
L’introduzione dell’apprendistato è un chiaro tassello di questa offensiva e come tale va denunciato e combattuto.
* Coniare Rivolta è un collettivo di economisti – https://coniarerivolta.org/
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