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Che fine ha fatto la Fiat? Dietro al nuovo ricatto di Tavares, un sonno di decenni

Il confronto pubblico che si è aperto sulla crisi occupazionale e produttiva di Stellantis in Italia è una fotografia impietosa del degrado e del ridicolo della classe politica e di quella imprenditoriale del nostro paese.

Tutto è finto e strumentale: la destra attacca Stellantis perché Meloni ce l’ha coi giornali della famiglia Elkann-Agnelli, il centrosinistra non sa che dire e qualcuno se la prende con Landini, che tra i sindacalisti di Cgil Cisl e Uil è il meno colpevole.

Come in un improvviso risveglio dopo un sonno di decenni, il palazzo politico, imprenditoriale, mediatico e anche sindacale sobbalza e grida: ma come, non c’è più la Fiat? Che pena.

Si scopre improvvisamente che gli stabilimenti italiani di produzione auto sono un decentramento produttivo di quelli francesi, che a loro volta seguono la logica spietata di una multinazionale, Stellantis, metà europea e metà americana.

Una multinazionale certamente più debole degli altri grandi gruppi dell’auto, da Toyota a Volkswagen, alle company Usa e soprattutto a quelli cinesi. La Cina produce 26/27 milioni di auto all’anno, l’Italia 500.000. In Italia 30.000 lavoratori sono scomparsi dagli stabilimenti dell’auto negli ultimi venti anni.

I buoi sono ben lontani dalla stalla, e come avviene per tutte le improvvise scoperte dei disastri italiani, dalla caduta dei salari allo smantellamento dei sistemi sanitario e pensionistico pubblici, bisogna tornare indietro di almeno trent’anni per vedere quando si sono spalancate le staccionate.

All’inizio degli anni 90 la famiglia Agnelli progettava già di abbandonare l’auto o comunque di renderla marginale nei propri interessi. Telecom, Banca San Paolo, turismo, servizi, qui si concentravano gli interessi della famiglia, che stava costituendo una vera e propria seconda Fiat, con altri interessi produttivi e finanziari rispetto a quelli dell’auto.

Naturalmente gli appoggi di tutto il sistema politico, destra centro e sinistra, erano fondamentali e scontati per questo progetto, così come il servile incensamento mediatico, che presentava queste operazioni finanziarie come un meraviglioso progetto innovativo.

Il progetto fallì clamorosamente, la famiglia Agnelli dovette abbandonare tutti i nuovi terreni di intervento e tornare all’auto. Nacque lo stabilimento di Melfi che, per il solito regime propagandistico, era il segno del futuro, mentre per chi ci lavorava era un luogo di sfruttamento come quello di Charlot in Tempi moderni.

Tuttavia l’inizio degli anni 90 aveva già definito un cambiamento strutturale del ruolo dell’industria dell’auto nel nostro paese: l’Italia era diventata un consumatore, più che un produttore di automobili.

A differenza dei grandi paesi industriali europei, Germania, Francia, Spagna, che producevano più auto di quelle che venivano acquistate nel paese, in Italia si compravano più di 2 milioni di auto all’anno e se ne producevano meno di 1 milione e mezzo.

Il mercato italiano dell’auto era diventato un passivo per il paese, mentre fino ad allora era stata una delle principali voci di attivo.

Questo dato di fondo non é più cambiato, ma è solo peggiorato, anche se è stato nascosto dalla solita propaganda, che ha dipinto la crisi della produzione di auto in Italia come la fine mondiale del prodotto auto.

Balle, gli italiani compravano auto come non mai, solo che gran parte di queste auto erano estere, perché la Fiat aveva perso tutti gli autobus degli investimenti e dell’innovazione di prodotto, perché la proprietà assenteista degli Agnelli non scuciva soldi, nonostante gli enormi sostegni pubblici, i miliardi di ore di cassa integrazione, tutti ottenuti con consenso bipartisan.

Lo stesso meccanismo di oscuramento propagandistico si scatenò nel 2010, quando Sergio Marchionne, a cui la famiglia Agnelli aveva affidato i propri interessi, lanciò contro il sindacato il ricatto di Pomigliano.

Come si sa Marchionne chiese ai lavoratori ed ai sindacati di rinunciare al contratto nazionale, in cambio della costruzione, nello stabilimento Fiat di Pomigliano, della nuova Panda, destinata inizialmente a quelli polacchi del gruppo.

Tutto il sistema politico, anche quelli che oggi brontolano contro gli Agnelli, e gran parte dei sindacati con la sola eccezione della Fiom e dei sindacati di base, accettarono l’ultimatum dell’Amministratore Delegato della Fiat e lo presentarono come una grande scelta di progresso. Era invece l’inizio della fine.

Con quella scelta gli stabilimenti italiani dell’auto diventavano definitivamentefabbriche cacciavite’, cioè reparti produttivi in competizione, al ribasso dei costi, con gli altri del gruppo.

Marchionne presentò questo percorso di deindustrializzazione come il suo esatto contrario, inventando il progetto “Fabbrica Italia”. Tra lucidi, video e commozione di giornalisti e politici, vennero annunciati più di 20 miliardi di investimenti per rilanciare la produzione dell’auto in Italia.

Anche questo era tutto fumo, non se ne fece nulla, ma nessuna autorità ne chiese conto agli Agnelli e a Marchionne. Che nel frattempo acquisirono a prezzi di saldo e con finanziamenti di stato la Chrysler, in crisi negli Usa.

I sindacalisti americani furono corrotti per ottenere contratti di lavoro favorevoli al padrone e alla fine nacque la FCA, di cui la fabbriche italiane erano oramai un decentramento di quelle oltre oceano.

A sua volta la FCA fallì nel tentativo di acquisire l’Opel in Germania: governo e sindacati di quel paese respinsero la proposta di Marchionne, considerandola non credibile e distruttiva sul piano industriale.

Poi, di fronte alle nuove sfide dell’elettrico che richiede ricerca ed investimenti, la famiglia Elkann Agnelli ha deciso di abbandonare definitivamente il campo, realizzando lauto profitto dalla incorporazione di FCA nel gruppo Stellantis, dove dominano Peugeot e Citroen.

E così siamo alla crisi drammatica di oggi, segnata da un nuovo ricatto padronale, la richiesta di soldi pubblici da parte dell’ad del gruppo, Tavares. Se volete che si produca ancora in Italia, pagate! Sono trent’anni che in Italia ed in Fiat si deindustrializza, con i padroni che ci guadagnano, i politici che consentono, i giornalisti che incensano gli uni e gli altri.

La crisi Fiat è parte della crisi politica e morale del paese. E potrà essere affrontata solo con una rottura radicale con tutte le politiche degli ultimi trent’anni. Altrimenti avremo ancora chiacchiere, regalo di soldi pubblici e licenziamenti.

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6 Commenti


  • Maurizio

    ..se poi qualche decina tra managers politici o giornalisti incontrassero il piombo?


  • Fabio

    un governo di inetti incapaci
    un popolo di inetti e incapaci
    l’educazione e il pilastro portante del benessere.
    2%pil all’educazione. Questa è l’unica soluzione possibile. Lo capisce anche un bambino.


  • Antonio Esposito

    finalmente un analisi veritiera


  • CARLO BONALI

    se non si accordata con Peugeot , FCA sarebbe fallita…vendeva solo Panda e 500 e non aveva soldi per nuovi modelli.L a colpa è del dirigenti Fiat….solo Marchionne si salvava.


    • Redazione Contropiano

      mah… è stato proprio Marchionne ad aprire la strada della fuga all’estero… Fiat ha continuato a vendere Panda, il resto era Chrysler (Jeep, più precisamente)…


  • Angelo

    La crisi del gruppo Fiat-lancia-AlfaRomeo è nata con l’allontanamento dell’ingegnere Vittorio Ghidella. Basta rileggersi la sua storia in fiat: iniziali accordi con la Ford, utilizzo degli utili per ricerca e nuovi modelli. Il grande Gianni Agnelli scelse Cesare Romiti che al di là dei suoi meriti di auto a mio giudizio ne sapeva poco. Da allora il gruppo ha cominciato a perdere quote di mercato . Solo adesso che è in fase terminale tutti e dico tutti, stampa, politici e buona parte del sindacato se ne sono accorti con 40 anni di ritardo! Che strano!

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