È tornato di moda l’aforisma di Jean Monnet – l’Europa sarà il prodotto delle sue crisi – a giustificazione di quelle che l’Unione Europea (UE) sta attraversando. Le crisi attuali sono molteplici e davvero traumatiche perché toccano l’assetto istituzionale, le strategie e, direi, gli stessi valori che i padri fondatori misero alla base del loro progetto: la pace in Europa, il rule of law cioè il diritto quale limite del potere, il benessere dei cittadini – elevati a principi nel Trattato UE agli articoli 2 e 3.
Questi principi sono smentiti dalla realtà: dalla guerra, ieri in Iugoslavia, oggi in Ucraina attaccata da Putin, con l’UE impegnata a fornirle armi e a organizzare un proprio esercito integrato nella NATO; dalle disuguaglianze sociali sempre più profonde; dalla negazione dei diritti umani dei migranti, lasciati morire nel Mediterraneo o sulle rotte balcaniche; da ‘norme’ decise da un’oligarchia, con poteri vieppiù illimitati.
E si badi, le crisi sono tutte dovute alle scelte di questa oligarchia che, composta da governi imprenditoria e tecnocrazia, è orientata a costruire l’Europa fortezza: all’interno perseguendo politiche di accentramento del potere a Bruxelles, per controllare dall’alto le scelte dei singoli Stati membri, alla cui determinazione per altro essi stessi partecipano attraverso le varie formazioni del Consiglio dell’UE; fortezza verso l’esterno, erigendo barriere all’ingresso dei migranti, con una politica di assoluta cecità dato l’inverno demografico che l’UE sta vivendo, e assumendo una postura geopolitica per fare dell’UE una potenza globale.
Queste scelte sono tese a rafforzare l’UE nei conflitti tra blocchi economici, costituiti anche secondo grandi aree geografiche, per mettere in sicurezza sia gli approvvigionamenti di energia e delle materie prime sia le catene del valore, e per ampliare gli sbocchi nei mercati globali.
L’Africa, come nell’Ottocento, è il Continente da dominare dove si consumano guerre e colpi di Stato di cui profittano USA, Cina, Russia, UE per mettere le mani sulle risorse minerarie, sui terreni agricoli con il land grabbing, sulle fonti energetiche, aprendo una nuova fase di sfruttamento coloniale mascherato da partnership paritarie, come pretende di fare il governo Meloni con il Piano Mattei.
A guidare le tre grandi transizioni – energetica, verde, digitale avviate dall’UE – sono sempre e solo le imprese, di cui si vuole potenziare le capacità competitive. Esse non hanno di certo il fine né di salvaguardare e rinaturalizzare l’ambiente né di innovare l’organizzazione delle produzioni per rendere il lavoro meno gravoso e rispondere a bisogni sociali, anzi l’innovazione tecnologica è usata per segmentare ulteriormente la forza lavoro ed espandere le forme di precariato, anche nelle professioni a più alto contenuto cognitivo.
A sostegno di questi giudizi basta richiamare alcuni ambiti delle attività dell’UE. Il primo è quello militare. L’UE ha elaborato e presentato nel marzo 2022 la Bussola Strategica per rafforzare entro il 2030 la sua sicurezza e difesa – strategia che si è tradotta in finanziamenti alla produzione delle armi e nella partecipazione alla guerra in Ucraina.
Sulla base delle normative del Trattato UE, degli articoli 42-46 in particolare, sono state intraprese da tempo politiche di riarmo degli Stati membri e cooperazioni rafforzate per creare forze di pronto intervento, avviando forme di collaborazioni tra le varie industrie nazionali. Si espande nel mondo il complesso militare-industriale: nel 2023 le esportazioni di equipaggiamenti militari degli USA sono cresciute del 16% raggiungendo la cifra record di 238,4 miliardi di dollari (Il Sole 24 ore, 31 gennaio 2024, p. 12).
Nel rapporto di Greenpeace del novembre 2023, Arming Europe, si afferma che i paesi europei sono sulla strada di una vera e propria militarizzazione documentando che dal 2014 al 2023 le spese militari dei paesi UE aderenti alla NATO sono aumentate di quasi il 50%, passando 145 miliardi a 215 miliardi di euro, e sono destinate a crescere: si pensi che la sola Germania ha stanziato nello scorso gennaio altri 100 miliardi di euro per rafforzare il suo apparato bellico.
Le spese militari dei paesi UE aderenti alla NATO sono previste aumentare nel prossimo anno del 10% in termini reali rispetto al 2023 ed essi ormai spendono in media l’1,8% del PIL – dati confermati da J. Stoltenberg nella conferenza stampa del 14 febbraio – proponendosi di raggiungere il prefissato traguardo del 2%, a prescindere dalle minacce di Trump.
La Leonardo, grande produttrice di armi controllata dallo Stato italiano, è iperattiva nella conquista di commesse e nello stringere partnership internazionali, soprattutto con le aziende tedesche e francesi.
Nell’UE, inoltre, si sta procedendo a intensificare le intese tra le industrie belliche nazionali e addirittura si è stretta un’alleanza, benedetta dall’UE, tra Gran Bretagna, Italia e Giappone per la progettazione e realizzazione di un nuovo aereo pronto al combattimento per il 2035.
Sì, con il Giappone, perché ormai l’UE e la NATO sono diventati attivi anche nello scacchiere orientale per contrastare la Cina, grande concorrente in campo commerciale e militare: è la nuova ‘postura geopolitica’ da grande potenza dell’UE, che vuole agire su scala mondiale come sostenuto a più riprese dalla presidente von der Leyen e ripetuto in un suo impegnativo discorso alla conferenza annuale dell’Agenzia di Difesa Europa (30 novembre 2023).
Anche la tragedia di Gaza, la cui popolazione è vittima di una punizione collettiva da parte di Israele dopo l’attacco terroristico di Hamas del 7 ottobre, invece di spingere l’UE ad adoprarsi per una tregua immediata e una soluzione pacifica del conflitto, è utilizzata per affermare il suo ruolo di potenza militare con la missione navale nel Mar Rosso a protezione delle rotte commerciali. Nelle spese per armamenti Russia, Cina, India non sono da meno.
Durante e attraverso le guerre si vanno ridefinendo le gerarchie di potere a livello mondiale, riorganizzando le filiere produttive e gli spazi commerciali, per questo l’UE, dopo l’attacco militare di Putin all’Ucraina, ha allentato il restrittivo regime degli aiuti di Stato, già molto attenuato per contrastare la pandemia nel 2020, autorizzando tra marzo 2022 e giugno 2023 aiuti per 730 miliardi di euro. Di questi sono stati già effettivamente erogati 140 miliardi affinché le imprese europee innovassero le loro produzioni onde evitare di perdere quote di mercato.
Sono in corso grandi mutamenti nell’approvvigionamento energetico e delle materie prime. Dalla dipendenza energetica dalla Russia l’UE si è liberata attraverso accordi con paesi africani e mediorientali, avviando il Sud d’Italia a divenire un hub dell’energia, dove transita verso il Nord e verso i paesi dell’ UE. Per le materie prime, nuove come le terre rare e tradizionali (dal rame al ferro), l’UE ha varato il Global Gateway, per contrastare la cinese Via della Seta, e il 16 marzo 2023 la Commissione ha presentato un Regolamento e una Comunicazione per ‘mitigare i rischi’ delle catene di ‘approvvigionamento delle materie prime critiche’ al fine di diversificarle e di rafforzarle.
Le politiche di austerità per superare la Grande Recessione hanno dato vita, attraverso il Six e Two Pack, a un sistema di regolazione economico-sociale accentrato nella Commissione, nell’ECOFIN e nella BCE, con vincoli stringenti alle decisioni di bilancio degli Stati membri per dare ulteriore impulso ai processi di liberalizzazione e privatizzazione e per ‘riformare’ il mercato del lavoro, così da slegare le imprese dagli ultimi lacci e lacciuoli.
Con una batteria di programmi – dal NextGenerationEU a STEP a REPowerEU – l’UE distribuisce risorse pubbliche per sostenere nelle tre transizioni le imprese, verso cui si presenta con il volto di Stato interventista, mentre mantiene immutato il suo volto liberista verso le classi popolari. Infatti il prossimo Regolamento, che interviene sul vecchio Patto di Stabilità e su cui il 10 febbraio Parlamento europeo e Consiglio hanno raggiunto un accordo (sulla base di una proposta avanzata dalla Commissione nell’aprile 2023), conserva intatta l’impronta liberista della governance economica.
Le politiche di austerità nei confronti delle classi popolari, con i loro vincoli ai bilanci pubblici e il taglio dei salari, hanno pressoché azzerato le lotte operaie dando vita a due figure stilizzate con molta acutezza da R. Bellofiore: l’operaio impaurito per la perdita del lavoro e la precarizzazione generalizzata, e il consumatore indebitato a causa dei bassi salari e della necessità di provvedere, pagandoli, i servizi sociali privatizzati.
Ciò ha offerto il terreno di coltura ai populismi e alle destre, perché, rese molto difficoltose le lotte, le classi popolari rispondono da tempo con l’astensionismo elettorale o con il voto per quelle forze che sia atteggiano a ‘nemiche delle élites’, si ergono a difesa del basso contro l’alto e indicano nei migranti i nemici perché concorrenti sul mercato del lavoro e pericolosi per le identità popolar-nazionali.
I principi dell’UE dei padri fondatori sono ormai orpelli retorici: alla pace si è sostituita la guerra e la politica di grande potenza, alla coesione e alla solidarietà le disuguaglianze sociali, al rule of law la pura decisione politica travestita da norma. E tutto ciò nel silenzio delle lotte operaie e popolari, rotto in questi giorni solo dai rumori dei trattori dei contadini, che giustamente rivendicano prezzi equi per i loro prodotti e degli imprenditori agricoli che, ingiustamente, vogliono una terra chimicizzata e industrializzata.
* articolo pubblicato anche su Il Granello di Sabbia
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