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Kiev sgridata sottovoce per il pogrom di Odessa

Alla maniera di quel saggio che diceva di non sapere “cosa siano i principi se non regole che si prescrivono agli altri nel proprio interesse”, il presidente ucraino Petro Porošenko si mostra molto orgoglioso della comparsa di una delle sue figlie in “Il ritorno di Mukhtar” – una sorta dell’austriaco “Commissario Rex” – nonostante il serial televisivo della russa NTV risponda in tutto e per tutto al comma 3 dell’art. 15 della legge ucraina sulla proibizione di film russi che abbiano come “protagonisti poliziotti, soldati o altre forze di sicurezza dello stato-occupante”. Ma lui è il presidente; “E’ bello essere re”, avrebbe detto Mel Brooks.

Su un altro versante, ma nella stessa ottica di riservare diverso trattamento a soggetti diversi, le osservazioni mosse a Kiev (con un anno e mezzo di ritardo) dai rappresentanti del Gruppo consultivo internazionale, istituito dal Consiglio d’Europa per controllare le indagini sul rogo della Casa dei sindacati di Odessa in cui, il 2 maggio 2014 morirono – bruciati vivi per le molotov lanciate dai neonazisti di Pravyj sektor, presi a pistolettate, finiti in strada a bastonate – secondo la stima ufficiale, almeno 50 attivisti antimajdan.

“Il Gruppo consultivo”, è detto nel comunicato, “mentre evidenzia che le indagini non rispondono ai requisiti della Convenzione europea sui diritti dell’uomo”, sottolinea di disporre delle prove della partecipazione della milizia ucraina agli incidenti; ragion per cui “le indagini devono essere condotte da un organo completamente indipendente da coloro nei confronti dei quali viene portata avanti l’inchiesta. Il Ministero degli interni d’Ucraina non corrisponde a questo criterio”. Ancora: “i risultati principali delle indagini parlano dell’inazione degli organi di sicurezza ucraini. La milizia adottò alcune misure solo quando gli scontri erano appena all’inizio. Ma poi, nella fase critica della situazione, essa di fatto non intraprese alcun tentativo di fermare le violenze”. Anzi, come mostrarono le immagini di varie TV internazionali, non pochi furono i poliziotti che spararono con le pistole d’ordinanza a quanti, tra gli attivisti barricatisi nella Casa dei sindacati, cercavano scampo dalle fiamme affacciandosi alle finestre dell’edificio e i pochi che, feriti, si lanciavano dal secondo e terzo piano, venivano poi finiti in strada dai neonazisti beniamini di Repubblica & Co.

Nel documento del Gruppo consultivo si rileva che l’Ucraina “ha avviato tre indagini. La prima relativa al comportamento della polizia il 2 maggio e, dopo, il 4 maggio, allorché liberò i fermati. La seconda indagine focalizzata sui disordini nel centro della città e l’incendio della Casa dei sindacati. La terza riguarda la condotta dei soccorritori durante l’incendio. Il Gruppo ritiene che la seconda e la terza indagine non siano state sufficientemente indipendenti, istituzionalmente e praticamente”. Le osservazioni del Gruppo, comunicate al potere ucraino sottovoce e in guanti di seta, non sono nemmeno lontanamente paragonabili al baccano internazionale scatenato attorno ai cento e più morti di Euromajdan e continuato fino a che non è stato più possibile nascondere l’evidenza sull’identità neonazista (oltre ai cecchini euroatlantici) degli autori della strage di Kiev, che precedette di un paio di mesi il pogrom antirusso di Odessa.

Ma ora all’ordine del giorno è di nuovo il riacutizzarsi della situazione nel Donbass, evidenziata dagli stessi osservatori Osce. Il concentramento di truppe e mezzi ucraini lungo la linea di separazione con le milizie; i ripetuti tiri di mortaio e razzi, continuati anche oggi su Donetsk e la sua periferia, non fanno che confermare quanto la legge firmata ieri sull’arruolamento di mercenari stranieri nell’esercito ucraino indica: il rifiuto, di fatto, di Kiev, a una soluzione pacifica e politica della questione del Donbass. E in effetti, Kiev ha dichiarato oggi ufficialmente, per bocca del segretario del Consiglio di sicurezza Aleksandr Turčinov, di non escludere l’interruzione del ritiro delle armi pesanti dalla linea di contatto – come previsto dall’accordo sul cessate il fuoco – facendo ricadere ovviamente la colpa sulle “provocazioni armate” delle milizie.

Gli ha immediatamente risposto il presidente della DNR Aleksandr Zakharčenko, durante la cerimonia, ieri, per l’inaugurazione del monumento ai caduti, miliziani e civili, nella sanguinosa battaglia attorno alla sacca di Debaltsevo, riconquistata dalle milizie nel febbraio scorso, a prezzo di centinaia di caduti e della distruzione di oltre l’80% degli edifici della città. Zakharčenko ha dichiarato che “Kiev si trova in una situazione complessa. Da una parte, senza fare la guerra, l’attuale regime non può mantenersi al potere, dal momento che i cittadini pongono degli interrogativi scomodi e Kiev non ha le risposte. D’altra parte, Kiev non può nemmeno combattere – non ne ha i mezzi, le forze, nulla. Inoltre, la situazione internazionale è tale che l’Europa, apertamente, non ne vuol più sapere della guerra civile in Ucraina e, pare, anche gli USA stanno perdendo entusiasmo, vedendo che Kiev, una volta dietro l’altra, esce sconfitta sia dalle campagne di guerra che da quelle diplomatiche. Per quanto riguarda noi, Kiev non ha chances. Non appena tenterà di affacciarsi alle nostre posizioni, anche a cento metri, si ritroverà molto addietro nel proprio territorio”; se Kiev attacca, noi andremo al contrattacco e dove ci fermeremo, lo vedremo allora.

Intanto la LNR sbugiarda Kiev sul numero reale delle perdite ucraine in questo anno e mezzo di guerra. Alla cifra di poco meno di 2.000 uomini diffusa dallo Stato maggiore ucraino, il comando della Repubblica popolare di Lugansk parla di alcune decine di migliaia di uomini, di cui circa ¼ uccisi, oltre a circa 1.300 uomini morti per incidenti, suicidi o infortuni vari.

 

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