In occasione dell’8 marzo, riceviamo e pubblichiamo un contributo di una compagna del collettivo Coniare Rivolta.
In occasione della Giornata Internazionale della Donna spendere qualche parola sullo stato della parità di genere in Italia è quantomeno necessario. Oggi, in particolare, giornali, riviste e trasmissioni televisive presenteranno i loro contributi sulla questione di genere, spesso presentando dati incompleti e soluzioni inefficaci.
Un prima, spesso sottovalutata, questione riguarda il modo in cui misuriamo, e quindi identifichiamo, le discriminazioni di genere. Un primo indicatore, molto in voga, è il cosiddetto gender wage gap.
Questo indicatore cattura – a parità di lavoro – la differenza di retribuzione tra lavoratori e lavoratrici. Se confrontato con altri paesi europei, sembrerebbe che in Italia sia straordinariamente basso. Potremmo quindi essere indotti a pensare che in Italia le donne lavoratrici siano più tutelate rispetto alle colleghe degli altri paesi europei.
Detto in altri termini, verrebbe da pensare che in Italia le disuguaglianze di genere siano inferiori e che nel nostro Paese le donne godano di salari più elevati che altrove. Purtroppo, non è tutto oro quello che luccica.
Questa conclusione, infatti, non sarebbe altro che un’illusione: il divario retributivo è ridotto perché sia le lavoratrici che i lavoratori percepiscono degli stipendi da fame. Si pensi che l’Italia, secondo le stime OCSE, è l’unico paese ‘avanzato’ in cui i salari reali si sono ridotti negli ultimi trent’anni.
Inoltre, ben il 32% degli occupati, pur lavorando, versa in condizione di povertà. Giocando al ribasso è ovvio che la differenza risulti più contenuta, ma non annullata, perché si può stare peggio anche nella miseria. Differenze significative, infatti, continuano a permanere.
Infatti, come riportato nei capitoli 2, 5 e 6 di un recente rapporto sul mercato del lavoro, la condizione lavorativa e retributiva delle donne in Italia risulta particolarmente svantaggiata. Tra le donne, infatti, è maggiormente diffusa la sottoccupazione: in altri termini, molte donne vorrebbero lavorare di più, ma non vi riescono.
L’occupazione femminile, inoltre, è maggiormente concentrata in settori di per sé caratterizzati da bassi salari. Infine, se andiamo a guardare ancora una volta i dati sulla povertà lavorativa – vale a dire sulla povertà che attanaglia uomini e donne nonostante lavorino per almeno sette mesi all’anno – emerge come il gap sia comunque significativo. Infatti, come riportato nel capitolo 5 del rapporto già citato, nel 2017 la percentuale di uomini occupati poveri era pari al 24,9 %, mentre quella delle donne al 41,4%.
Fatta chiarezza su questo indicatore di disparità retributiva, ci si può ora rivolgere agli altri dati, molto meno ambigui.
Il tasso di occupazione femminile (15-64 anni) si è assestato al 51,1% nel 2022, quello maschile al 69,2%. Il tasso di disoccupazione femminile nello stesso periodo ha raggiunto il 9,5%, il maschile il 7,3%.
La vera piaga, che spiega anche i bassi tassi di occupazione, si nasconde però dietro ai tassi di attività femminili. Il tasso di attività mette in relazione tutte le persone occupate o in cerca di occupazione con la popolazione di riferimento. Per le donne italiane, questa quota supera di poco il 50%: quasi 1 donna su 2 tra i 15 e i 64 anni non partecipa al mercato del lavoro, vale a dire che né lavora né cerca lavoro.
Questo segnale è particolarmente preoccupante poiché tassi di attività femminili così bassi aumentano il rischio di dipendenza finanziaria da un’altra persona, minando così l’indipendenza economica e personale delle donne. La mancanza di indipendenza economica, infatti, rende le donne più soggette alla volontà di chi, nella famiglia, lavora, e quindi, nella stragrande maggioranza dei casi, degli uomini. Ciò aggrava lo squilibrio di potere e crea un terreno fertile per la violenza di genere.
Inoltre, l’inattività femminile sul mercato del lavoro nasconde altrettanto lavoro, non riconosciuto e non retribuito, che le donne stesse si trovano a dover fare quotidianamente. Si parla del lavoro di cura e di riproduzione sociale.
La cultura patriarcale che ha imposto alle donne l’onere del lavoro di cura è antecedente al capitalismo, ma quest’ultimo ne ha certamente tratto vantaggio. Secondo il rapporto INAPP 2022, dopo la nascita di un figlio, quasi il 20% delle donne esce dal mercato del lavoro a causa della difficoltà nel bilanciare il lavoro di cura con il lavoro salariato. Nel 50% dei casi, l’interruzione dell’attività lavorativa è imposta dalle condizioni di contorno e non riflette un’effettiva scelta della madre.
La drammatica situazione dei congedi parentali in Italia è sotto gli occhi di tutti: il congedo di maternità obbligatorio, stabile a 5 mesi, è affiancato da un misero congedo di paternità di 10 giorni (20 se il parto è plurimo).
Le disuguaglianze non si fermano però ai primi mesi di vita dei figli. Sempre secondo il rapporto INAPP, per l’87% dei bambini sotto i 3 anni le madri sono l’unico genitore che ha utilizzato i congedi parentali.
Il lavoro di riproduzione sociale non si limita poi alla cura dei figli durante i primi anni di vita, ma comprende tutte le mansioni che assicurano la riproduzione della forza lavoro. Tra queste figurano attività come preparare i pasti, tenere gli ambienti casalinghi puliti e in ordine, organizzare la casa, gli spostamenti e gli impegni di chi ci abita, e avere cura di parenti non autosufficienti.
In Italia si è sempre fatto affidamento sulle donne per portare a termine questo lavoro fondamentale. L’entrata delle donne sul mercato del lavoro non è stata in alcun modo affiancata da politiche che potessero effettivamente evitare alle lavoratrici di avere un doppio lavoro – quello salariato e quello di cura, che precede e segue l’orario lavorativo ufficiale.
Nel 2018 il numero medio di ore al giorno dedicate alle attività di cura non pagate per le donne equivaleva a 5, per gli uomini 1,8. Ciò significa che, a parità di lavoro retribuito svolto, le donne sopportano un carico di lavoro “domestico” giornaliero di 3,2 ore superiore a quello degli uomini.
Si stima che, senza politiche ad hoc, un ribilanciamento del lavoro di cura che derivi da una spontanea volontà degli uomini, l’uguaglianza nelle ore dedicate al lavoro di cura si raggiungerebbe solo nel 2066. Su ciò pesa, soprattutto in Italia, la situazione drammatica dello stato sociale, vessato da anni di tagli che non hanno fatto altro che scaricare sulle famiglie l’onere della cura tanto dei minori quanto di una popolazione anziana in forte aumento.
Una donna appartenente a una famiglia facoltosa può permettersi di acquistare i servizi di cura sul mercato, esternalizzando almeno parte del lavoro di cura, ma rimanendo comunque colei che ha la responsabilità della buona riuscita del lavoro. Per le altre donne, le alternative rimangono l’astensione dal mercato del lavoro, a causa dell’incompatibilità con il lavoro di cura, o il “doppio turno” lavorativo.
La flessibilizzazione del mercato del lavoro che ha avuto luogo in Italia a partire dagli anni Novanta è andata di pari passo con un aumento della partecipazione femminile al mercato del lavoro.
Questo, però, invece di garantire uguaglianza di genere ha semplicemente creato un’ulteriore discriminazione per quanto riguarda la tipologia di contratti lavorativi proposti a lavoratori e lavoratrici, poiché queste ultime sono sovra-rappresentate nella categoria dei part-time, e fatto un grande favore alle aziende.
Le politiche di austerità introdotte in Italia in seguito alla crisi finanziaria hanno ulteriormente peggiorato la situazione. I tagli alla spesa pubblica hanno infatti un impatto negativo sbilanciato a sfavore delle donne che, con lo sgretolamento del già pericolante stato sociale, devono assumere il ruolo di ammortizzatore sociale e intensificare il lavoro di cura delle famiglie e comunità, che andrebbe altrimenti svolto tramite investimenti di miliardi di euro da parte dello Stato.
Appare chiaro come il capitalismo tragga vantaggio dallo sfruttamento delle donne a diversi livelli. Le forme di questo sfruttamento sono molteplici e fanno sì che si esasperi la struttura patriarcale di tutte le istituzioni sociali: la famiglia, in cui l’uomo può fare affidamento sul lavoro femminile; lo stato liberista, che può permettersi di applicare politiche di austerità scellerate scaricando sulle donne l’onere di sopperire alle deficienze del sistema di welfare; e le imprese private e il profitto, che possono fare affidamento sulla buona salute e il rinnovamento costante della forza lavoro senza concedere le garanzie necessarie.
La lotta contro le discriminazioni di genere, quindi, è lotta contro lo sfruttamento, è lotta contro l’ingiustizia e l’oppressione. Per questi motivi, e molti altri ancora, oggi 8 marzo, lavoratrici e lavoratori serrano le braccia e decidono di scioperare.
* Coniare Rivolta è un collettivo di economisti – https://coniarerivolta.org/
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