L’autonomia differenziata arriva come colpo finale alla capacità del Servizio Sanitario Nazionale di rispondere alla propria funzione di tutela della salute. Con 20 sistemi sanitari differenti e non solidali, vedremo presto peggiorare numeri e qualità delle prestazioni al Sud, e aumentare la migrazione sanitaria verso il Nord.
A inizio 2024 la Fondazione Gimbe aveva evidenziato come, nel 2021, il valore della mobilità sanitaria regionale, ovvero della dinamica che porta i cittadini a spostarsi per ottenere delle cure, aveva visto un saldo nettamente positivo per il Nord Italia. 4,25 miliardi, con Lombardia, Veneto ed Emilia-Romagna che raccoglievano il 93,3% di questa somma.
Con la fine dell’intervento pubblico e le forme di autonomia già garantite, il divario è tornato a riaumentare tra Meridione e Settentrione. E il Nord Italia ha continuato a drenare risorse dal Mezzogiorno, attraverso canali differenti come questo sanitario.
Il Presidente della Gimbe, Nino Cartabellotta, aveva parlato di “un gap diventato ormai una frattura strutturale destinata ad essere aggravata dall’autonomia differenziata, che in sanità legittimerà normativamente il divario Nord-Sud, amplificando le inaccettabili diseguaglianze nell’esigibilità del diritto costituzionale alla tutela della salute“.
Il fatto che anche questo principio della carta fondante la nostra Repubblica non sia già più rispettato è confermato dal CREA Sanità (Centro per la Ricerca Economica Applicata in Sanità). Nato nel 2013 per iniziativa dell’Università di Tor Vergata Federazione Italiana Medici di Medicina Generale (F.I.M.M.G.), le sue analisi parlano di un’Italia spaccata a metà.
104 ricercatori hanno elaborato vari dati e quel che è emerso è che solo il 55% degli italiani vive in regioni con risultati soddisfacenti per la tutela della salute. 26 milioni di persone non ricevono cure adeguate, e ben 7,5 milioni di esse (tutte tra Sicilia, Molise, Basilicata e Calabria) possono usufruire solo di prestazioni fortemente insufficienti.
La valutazione non si limita agli aspetti strettamente sanitari, ma riguarda anche quelli sociali, economici e di equità dell’assistenza. L’indice che ne è stato costruito va da 0 a 100, e in questo caso basterebbe arrivare a 45 per ottenere la sufficienza: fino alla Toscana e alle Marche quella soglia è raggiunta, dall’Umbria in giù no.
L’autonomia differenziata arriva dunque unicamente a sancire la divisione già esistente tra due Italie. Bisogna però ricordare che qualsiasi riflessione intorno all’autonomia differenziata che parli di uno scontro tra il Nord e il Mezzogiorno nasconde il fatto che il conflitto non è mai orizzontale (tra le regioni), ma verticale (tra classi privilegiate e classi subalterne).
Il Rapporto Ospedali & Salute dell’AIOP (Associazione Italiana Ospedalità Privata), stilato in collaborazione con il CENSIS, ha calcolato che la percentuale dei pazienti che hanno rimandato o rinunciato alle cure sanitarie arriva al 42% per chi dichiara fino a 15 mila euro. Percentuale che diminuisce con l’aumentare dei redditi.
Lo stesso vale se si osserva in quanti hanno rinunciato a curarsi per sostenere altre spese: uno su due tra i redditi bassi, meno di uno su quattro per quelli alti. E anche al Nord si affrontano tempi biblici per poter accedere a determinate prestazioni.
Se a uno sguardo generale, sopra Roma sembrano passarsela meglio, la linea di faglia è sempre di classe. Sempre nel rapporto AIOP viene esplicitato che si determina “una divaricazione tra coloro che possono rivolgersi al mercato delle prestazioni sanitarie al di fuori del SSN e coloro che, per ragioni economico-sociali, non possono ricorrere alla sanità a pagamento“.
Infatti, la percentuale di coloro che si rivolgono a quest’ultima aumenta con l’aumentare dei redditi. Insomma, i ricchi hanno risolto il problema della fine della sanità pubblica pagando, gli altri che decidano se mangiare o curarsi.
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