Ieri si é spenta a Milano all’età di 96 anni Licia Pinelli.
Ricordiamo la sua vita trascorsa a lottare per un mondo più gusto, a cercare senza sosta la verità per suo marito Giuseppe, uomo libero e vittima, come tanti altri, della strategia della tensione che i neofascisti e le forze atlantiche avevano adottato per fermare i movimenti operai e le rivolte studentesche.
Oggi che Licia non c’è più il suo ricordo dovrà essere molto di un semplice pretesto per sterili esercizi di memoria, ma una forza concreta, come concrete sono state le sue azioni in vita, per continuare a combattere quello stesso apparato di potere contro cui si é scagliata senza risparmiarsi.
Lo stesso apparato di potere che sotto nuove spoglie oggi governa Milano e l’Italia con gli stessi obiettivi di allora: stroncare le rivendicazioni sociali con ogni mezzo.
Avremo un motivo in più per lottare.
Il ricordo di Licia non vivrà nella memoria del passato, ma nelle nostre azioni presenti, sulle nuove barricate del ventunesimo secolo.
Ci troverete lí, dove Licia e Giuseppe sono sempre stati: dalla parte giusta della Storia.
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Gianni Sartori
IN MORTE DI LICIA PINELLI
Considerazioni e divagazioni su una vecchia agendina stropicciata…e su un’intervista sempre rinviata e alla fine mancata
Gianni Sartori
Ogni tanto, sfogliando la vetusta agendina che non mi decidevo a buttare (non dopo aver almeno ricopiato nomi, numeri e indirizzi di quelli ancora in vita, sempre meno), lo ritrovavo. Tra quello di Claudio Venza e l’altro della redazione di “A”, di fatto Paolo Finzi (o era quello di Fabio Santin? Devo controllare…).
Me l’aveva dato, penso ormai più di quindici anni fa se non venti, proprio Claudio Venza (direttore del Germinal di Trieste) spronandomi a intervistarla. Non me l’ero mai sentita. Ci sono incontri, interviste o semplici conversazioni che – per me almeno – risultano troppo dolorose. Di quelle che poi ti porti appresso nel tempo. Per dirne un paio, alla madre di Patsy O’Hara (prigioniero politico repubblicano morto in sciopero della fame nel 1981) e a Duma Kumalo uno dei “Sei di Sharpeville” (vittima di torture, scampato alla pena capitale e scomparso prematuramente nel febbraio 2006). Semplicemente devastanti per quanto mi riguardava.
Per cui, dopo aver rimandato di giorno in giorno la telefonata e l’intervista alla vedova di Pino, avevo deciso di lasciar perdere.
Ma ogni tanto, ritrovando appunto il numero di telefono (un fisso, vecchia maniera; lo sentivo familiare, mai posseduto un cellulare), ci ripensavo.
E anche in questi giorni, mentre riconsultavo il libro di Salvini (il giudice) “La maledizione di Piazza Fontana”, mi ero chiesto se la lei lo avesse mai incontrato. E cosa ne pensasse di certe tardive “rivelazioni” (in gran parte già acquisite dai compagni e dal movimento) qui pubblicate.
Fermo restando che comunque andrebbe letto e consultato (il libro intendo), per lo meno per certe informazioni in passato “accantonate”, trascurate (o semplicemente rimosse). Per esempio sul ruolo rilevante di certi personaggi vicentini.
Si narra che anche il padre di Licia (un falegname poi operaio alla Pirelli) fosse stato anarchico. Cresciuta in una casa di ringhiera in via Monza, quelle con il gabinetto (alcuni hanno scritto “bagno”, un eufemismo) in comune sul ballatorio, al freddo.
A scanso di equivoci, chi scrive è cresciuto in quel di Casaletto (S. Piero Intrigogna) con il cesso in lamiera sitemato fuori, a fianco dell’orto.
Come usava all’epoca per i figli – e ancor più per le figlie – dei proletari, a tredici anni entrò nel “mondo del lavoro”: Con Pino si erano conosciuti ai corsi di esperanto, una speranza – o forse un’altra illusione – di internazionalismo e pace universale.
Ed era stata lei (così almeno mi aveva raccontato Edgardo Pellegrini) a battere a macchina, nell’ufficio del fondatore di Medicina Democratica Giulio Maccacaro, il testo de “La Strage di Stato”, pubblicato da Samonà e Savelli nel giro di sei mesi da quel dicembre di sangue.
Riprendo in mano l’agendina e scorro le pagine. Ormai un monumento funebre con più della metà quelli “andati oltre”, la gran parte compagni: Claudio Venza, Paolo Finzi, Alex Langer, Febe Cavazzutti, Edgardo Pellegrini, i partigiani Giuseppe Sartori e Nino De Marchi, Benny Nato, Peggy O’Hara, Aureli Argemì, Pepe Rei, Tavo Burat, Bruno Zanin…
E ovviamente tanti vicentini. Per lo più ambientalisti e antimilitaristi, magari anche antimperialisti. Forse inevitabile in una città con cinque o sei basi militari: Stefano Dal Cengio (protezionista, a Genova nel 2001…), Giorgio Fortuna (movimenti vari, U.N.A., Genova 2001, No dal Molin…), Gianfranco Sperotto (PSIUP, Legambiente, No Dal Molin…), Rino Refosco (anarchici, Radio Vicenza…), Olol Jackson (CSO Ya Basta! No Dal Molin, Bocciodromo…), Franceso Scalzotto (Presidio di Longare alla Base Pluto…), Eugenio Magri (giovanissimo partigiano, PCI, CGIL, CUB..), Alberto Carta (WWF), Luciano Ceretta (D.P, Rifondazione comunista…), Arnaldo Cestaro (praticamante tutto e anche di più…)…
Per ognuno di loro una storia condivisa di impegno, di militanza…
E come il Guccini di sessanta anni fa, a volte anch’io “vorrei sapere a che cosa è servito…”.
Ma almeno, mi consolo, l’importante è averci provato. In faccia al mondo e a quelli che verranno.
Che la terra ti sia lieve compagna.
Gianni Sartori
Valentina
❤️