Ricorre in questi giorni l’ottantesimo anniversario del cosiddetto “Proclama Alexander” che aprì la strada all’inverno 1944-1945: il più duro e difficile vissuto al di sopra della Linea Gotica nel corso della Resistenza all’invasione nazista iniziata l’8 settembre 1943.
Alla fine dell’estate 1944 l’offensiva alleata in Italia che aveva portato alla Liberazione di Roma e Firenze si era arrestata davanti alla linea gotica che si estendeva da Rimini a La Spezia quale struttura di difesa dell’esercito tedesco e dei suoi alleati repubblichini.
Dopo lo sbarco in Normandia, la liberazione di Parigi e la battaglia delle Ardenne il fronte italiano per gli Alleati era diventato secondario rispetto all’invasione della Germania e l’occuparne in profondità il massimo del territorio mentre l’Armata Rossa stava scendendo da Est (i due eserciti poi a maggio 1945 si sarebbero incontrati sull’Elba mentre i sovietici stavano occupando Berlino).
Così nel tardo pomeriggio del 13 novembre 1944 in una trasmissione di “Italia Combatte” (l’emittente radiofonica attraverso cui il comando alleato teneva i contatti con il Comitato di Liberazione Nazionale a Roma) fu trasmesso un comunicato dal maresciallo Alexander comandante in campo delle truppe alleate nel Mediterraneo con il quale si dichiarava conclusa la campagna estiva degli eserciti alleati e si invitavano i comandi della Resistenza Italiana a cessare ogni operazione e a rimanere su posizioni difensiva.
Nell’estate era state proclamate le Repubbliche partigiane e la reazione dei nazi-fascisti era stata quella delle grandi stragi da Marzabotto a Sant’Anna di Stazzema a tante altre occasioni di distruzione e martirio per le popolazioni civili.
Il cosiddetto “proclama Alexander” avrebbe dovuto sortire effetti demoralizzanti profondi e diffusi: come spiega il saggio appena uscito di Gastone Breccia – “L’ultimo inverno di guerra. Vita e morte sul fronte dimenticato” – lo scopo era quello di tenere impegnate le forze tedesche per fare in modo che rimanesse sguarnita la difesa della Germania per favorire le truppe alleate.
Nello stesso tempo Kesserling, comandante dell’esercito nazista in Italia, pensava – difendendosi – di fornire maggior tempo alla difesa del suo Paese senza pensare (come poi ammise nel processo che lo condannò a morte, pena tramutata in ergastolo poi ridotta, finendo scarcerato nel 1952 e chiudendo la sua carriera come consulente del cancelliere Adenauer: tutto in nome del “mondo libero” e della “civiltà occidentale“) che quel tempo sarebbe stato per sterminare nei campi milioni di persone ebrei, comunisti, “asociali” in genere.
Il 2 dicembre 1944 il Comando Generale del Corpo dei Volontari della Libertà, ignorando il dettato degli alleati, emanò una circolare nella quale si invitavano i corpi combattenti in tutto il Nord Italia a proseguire lo sforzo militare, anche se l’insurrezione generale era ormai rinviata alla primavera.
Nel comunicato veniva indicata l’esigenza di “reagire nel modo più fermo alle interpretazioni pessimistiche e disfattiste” del proclama e di considerare solo la cessazione di operazione su vasta scala. Il CVL invitò tutti i comandi regionali a non smobilitare le proprie formazioni, ma a passare ad una nuova strategia in considerazione delle mutate condizioni belliche e climatiche.
I partigiani riuscirono a superare il periodo repressivo disperdendosi nella Pianura Padana a ridosso dei centri urbani. I mesi di novembre e dicembre furono molto drammatici, ma comunque il dispositivo insurrezionale non fu distrutto, anche se molto indebolito dalle decisioni alleate, causando un rallentamento nelle operazioni nella penisola e il protrarsi del conflitto in Italia.
In realtà il “proclama Alexander” conteneva anche un altro scopo: quello di impedire che i comunisti – che nel campo partigiano erano i più attivi e meglio organizzati (ed avrebbero pagato anche i prezzi più alti) – prendessero il sopravvento ed egemonizzassero la Resistenza, come era accaduto nella Jugoslavia: questo nonostante che Togliatti avesse già lanciato la parola d’ordine del “partito nuovo” e fatta rinviare la scelta istituzionale dopo la fine della guerra, ponendo al primo posto la solidarietà antifascista all’interno del governo (passato da Badoglio a Bonomi) e del Comitato di Liberazione Nazionale.
Malgrado le difficoltà, le divisioni e le massicce operazioni di repressione nazifasciste, le forze partigiane continuarono così a sopravvivere e ad aumentare numericamente nei primi mesi del 1944, rafforzate costantemente anche dai molti giovani che salirono in montagna per sfuggire ai bandi di arruolamento forzato della RSI diramati dal maresciallo Graziani.
A febbraio e a marzo 1944 la forza partigiana al nord raddoppiò di numero. I richiamati che non risposero al bando del maresciallo (approvato da Mussolini e sollecitato dalle autorità tedesche) furono molto numerosi (in novembre 1943 su 186 000 coscritti si presentarono solo in 87.000), ma soprattutto furono molto elevati i casi di diserzione dopo l’arruolamento, che salirono dal 9% di gennaio 1944 al 28% del dicembre dello stesso anno, mentre nelle città operavano attivamente le GAP e le SAP.
Arrivò la primavera, al termine di un freddo inverno di angoscia e di frustrazione: si era ormai alla vigilia dell’alba radiosa del 25 aprile.
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