L’Europa è alla frutta. Potrebbe essere questa la sintesi dell’intervento di Mario Draghi al Simposio annuale del Centre for economic policy research (Cepr). A Parigi. E come sempre bisogna constatare che non modifica il suo tono oracolare nonostante che, del modello economico fin qui adottato, proprio lui sia stato un pilastro autorevole anche sul piano operativo (otto anni alla presidenza della Bce, nonché un passaggio rilevante da primo ministro italiano.
L’analisi è presto fatta: “Le politiche europee hanno tollerato una bassa crescita dei salari come strumento per aumentare la competitività esterna, aggravando la debolezza del ciclo reddito-consumo. Tutti i governi disponevano di uno spazio fiscale per contrastare la debolezza della domanda interna, ma almeno fino alla pandemia hanno scelto deliberatamente di non utilizzare questo spazio. Complessivamente, la politica ha rivelato una preferenza per una particolare costellazione economica, basata sull’utilizzo della domanda estera e sull’esportazione di capitali con livelli salariali bassi. Una costellazione che non sembra più sostenibile“.
Inutile soffermarsi sull’uso eufemistico del linguaggio, tipo “Le politiche europee hanno tollerato una bassa crescita dei salari”, quando basta sfogliare a ritroso il web per trovate decine di migliaia di interventi – europei e nazionali – in cui “si impone” il congelamento dei salari in tutto il Vecchio Continente. Altro che “tollerare”…
Le due cose più rilevanti di questa parte del suo discorso sono – non stranamente – le stesse che andiamo ripetendo da tre decenni su questo ed altri media.
a) se si comprimono i salari si distrugge la domanda interna, ossia la capacità di consumo di quelle merci che qui vengono prodotte (“aggravando la debolezza del ciclo reddito-consumo”)
b) il modello economico imposto a forza a tutta Europa è stato il mercantilismo, ossia la crescita trainata dalle esportazioni a scapito del mercato interno (“la politica ha rivelato una preferenza per una particolare costellazione economica, basata sull’utilizzo della domanda estera e sull’esportazione di capitali con livelli salariali bassi”).
Anche qui il linguaggio devia la responsabilità dall’Unione Europea (il soggetto semi-statuale a disposizione dei “mercati”) a una più indistinguibile “politica”, come se fosse una degenerazione casuale cui non si posto rimedio prima.
Ma anche in questo caso l’affermazione più importante è un’altra: “quella costellazione non sembra più sostenibile”.
E’ la fine di un trentennio – almeno – di politiche europee improntate propagandisticamente all’”austerità”, ma di fatto alla ricerca della “competitività” giocando appunto sulla compressione salariale. Il che ha, logicamente, depresso la capacità delle imprese europee di ricercare uno sviluppo basato sull’innovazione tecnologica.
Prova ne sia il ritardo mostruoso sull’hi tech (solo ora si cerca di stimolare qualche pesenza autonoma nell’intelligenza artificiale), o anche il “diesel-gate” che ha innescato la crisi dell’auto (Volkswagen “beccata” a taroccare i test sulle emissioni, per rinviare gli investimenti sulla ricerca).
Bene. Ora che anche uno dei principali sostenitori di quel modello (o “costellazione”) ha decretato la sua morte, che si fa?
La proposta, a prima vista, è un serpente che si morde la coda: “sia le politiche strutturali sia quelle macroeconomiche devono cambiare per aumentare la crescita endogena in Europa. Le riforme di mercato sono necessarie per garantire il pieno effetto delle politiche macroeconomiche, mentre sono necessarie politiche macroeconomiche pienamente efficaci affinché le riforme di mercato producano la massima crescita della produttività.”
Non si dice quali siano le une e quali le altre, anche se potrebbe facilmente cavarsela dicendo di averle già descritte nel suo “Rapporto” di qualche mese fa, fatto proprio – almeno nelle intenzioni – dalla von der Leyen, ma che prevedono almeno 800 miliardi di investimenti pubblici l’anno.
Qui inserisce oltretutto un’ulteriore difficoltà. Prima di passare a questi investimenti bisognerebbe procedere a “Se l’Ue emettesse debito congiuntamente potrebbe creare uno spazio fiscale aggiuntivo da utilizzare per limitare i periodi di crescita inferiore al potenziale. Ma non possiamo iniziare a percorrere questa strada se non sono già in atto i cambiamenti nella struttura dei mercati che potrebbero aumentare i tassi di crescita potenziale nel medio termine”.
Un altro serpente che si morde la coda…
Inutile contestare questa visione sul piano teorico, è su quello pratico che rischia di inciampare ad ogni passo.
Quello che colpisce maggiormente, comunque, è il suo carattere esplicitamente conservatore, privo di speranza e prospettiva.
“Tutti questi sono investimenti che determineranno se l’Europa rimarrà inclusiva, sicura, indipendente e sostenibile. Tutti noi vogliamo la società che l’Europa ci ha promesso, una società in cui possiamo sostenere i nostri valori indipendentemente da come cambia il mondo intorno a noi. Ma non abbiamo un diritto immutabile per la nostra società di rimanere sempre come lo desideriamo. Dovremo lottare per mantenerlo“.
La retorica draghiana ed “europeista” abbandona ogni sogno circa un futuro migliore e chiama a migliorare la “competitività” – verso la Cina, la Russia, ma anche gli Stati Uniti – all’unico scopo realistico di “rimanere come siamo”.
Ossia una parte del mondo che invecchia perché le retribuzioni che permettono la “competitività” delle imprese impediscono che la popolazione in età fertile possa riprodursi ai ritmi fisiologici che garantiscono quanto meno il “pareggio demografico”.
Una parte del mondo sempre più diseguale quanto a redistribuzione della ricchezza e che vede quella ricchezza muoversi verso la finanza anziché verso la produzione e l’innovazione.
Una parte del mondo che impoverisce e diventa aggressiva (“bisogna aumentare la spesa militare” e “intervenire del ‘Mediterraneo allargato’” fino al Sahel compreso), ricorrendo alla guerra di conquista anziché alla collaborazione tra pari con chi è o può diventare fornitore di materie prime che qui non ci sono in misura sufficiente.
Non è questa la strada che si deve percorrere. E non conforta sapere che non è neanche percorribile perché il resto del mondo fuori dai “nostri” confini non è più quello in cui si è affermato il colonialismo occidentale.
Non conforta perché è oltretutto una guerra che non si può vincere. E quindi si tradurrebbe in una distruzione immane, proprio qui, nel “giardino” che vorrebbe restare sempre uguale, nascondendo sotto il tappeto mostruosità e ingiustizie.
- © Riproduzione possibile DIETRO ESPLICITO CONSENSO della REDAZIONE di CONTROPIANO
Ultima modifica: stampa