Quella che segue è una riflessione sulle ultime anticipazioni del ministro Valditara circa le prossime modifiche alle indicazioni nazionali per la scuola, e vorrei proporla a parziale integrazione di due contributi apparsi su questo giornale: l’articolo “La scuola coloniale e classista di Valditara”, di Maurizio Disoteo, e il post ripreso da Fb “La scuola è morta… viva la scuola!”, di Roberto Fineschi.
Nel primo si sostiene giustamente l’impronta reazionaria che le suddette misure avrebbero se attuate nella forma annunciata; nel secondo si sottopone a critica la riforma degli istituti tecnici e professionali, in vigore sperimentalmente dal prossimo anno scolastico. Quel che intendo proporre è un’estensione del taglio delle argomentazioni di Fineschi al tema dell’articolo di Disoteo.
L’invenzione della Geostoria
Uno degli aspetti del roboante annuncio ministeriale giustamente attaccati dall’articolo citato è quello riguardante la sostituzione della Geostoria con un non meglio identificato, nonché “deideologizzato”, guazzabuglio di glorie italiche, europee e occidentali [peraltro su indicazione di un “gruppo di esperti” coordinato, e rivendicato, da Ernesto Galli Della Loggia, ndr].
Per dirla in breve, la storia del “giardino” e della sua resistenza contro la “giungla” in difesa della Civiltà (dove la maiuscola autorizza a ritenersi super partes e “non ideologici”). Sulla critica al guazzabuglio non si può dunque fare altro che concordare pienamente con l’articolo. Aggiungo qui, invece, una nota su ciò che il guazzabuglio andrebbe a rimpiazzare.
Contrariamente a quanto i più ottimisti sono inclini a ritenere, l’estrazione dal cilindro della cosiddetta “geostoria” non nasce dallo scrupolo pedagogico-didattico di far meglio comprendere agli studenti la complessa interrelazione fra spazi e tempi nelle dinamiche umane. Più prosaicamente, serve a poter valutare gli alunni in geografia senza insegnare la geografia.
L’unica modifica oggettivamente intervenuta dalla comparsa della presunta disciplina in oggetto è che gli insegnanti di storia e geografia, quando inseriscono nell’apposita colonna del registro elettronico il voto di una verifica di storia, stanno, ipso facto, valutando anche l’andamento in geografia. La qual cosa non incontra levate di scudi da parte della categoria in quanto, di norma, i docenti di storia e geografia in Italia, per la struttura delle classi di concorso (a meno che abbiano almeno due lauree) non sono laureati in nessuna delle due discipline e non hanno sostenuto più di un esame universitario di geografia e al massimo tre di storia.
Brutalmente: quando facciamo lezione di geografia abbiamo la sensazione di “non insegnare la nostra materia”. Naturalmente, ci sono molti docenti che si premurano di portare avanti comunque i due percorsi e valutarli separatamente, ma siamo nel campo dell’iniziativa volontaristica.
Da tutto ciò, e dal fatto che l’anticipazione del ministro conteneva notizie su un guazzabuglio storico, ma non su uno geografico, non parrebbe azzardato immaginare che l’insegnamento della geografia vada verso la definitiva dismissione: disastro le cui conseguenze sono già in gran parte visibili, ma la cui analisi merita altra sede.
Di latino e di logica
E veniamo alla fantomatica reintroduzione del latino nella scuola secondaria di primo grado. Fantomatica, perché si parla di insegnamento facoltativo per un’ora alla settimana riguardante due soli anni su tre. Chiunque abbia insegnato latino, ma anche chiunque lo abbia studiato, sa che per la docenza di quella disciplina, nei tempi effettivi della scuola, un’ora settimanale per due anni è parente strettissima della fuffa. Se poi contestualizziamo, la parentela diventa identità.
Stiamo infatti parlando di alunni che manifestano, in maniera diffusa e trasversale, quel genere di lacune nella padronanza della lingua italiana e nella conoscenza della sua struttura che un tempo era ravvisabile in chi veniva da condizioni socialmente disagiate o deprivate culturalmente. Stesso dicasi per l’abitudine all’uso della logica, che di qualunque studio linguistico è imprescindibile presupposto, essendo ogni idioma un sistema logico. Ciò vale per qualsiasi metodo didattico: per quelli grammatical-traduttivi come per quelli induttivo-contestuali.
La conoscenza di almeno una lingua, l’abitudine al suo impiego rispettandone le strutture e a riflettere sulla loro coerenza, sono indispensabili per accostarsi ad altri idiomi, a prescindere dalla metodologia. In tal senso, l’idea in sé che lo studio del latino possa servire a rafforzare la logica e la conoscenza dell’italiano non è campata in aria. Ma si espone ad alcune osservazioni.
La prima è che la logica si allena in tutte le discipline scolastiche, ma di nessuna costituisce lo specifico. Certamente non del latino. La seconda è che studiare il latino avendo di mira qualcosa di diverso dall’apprendimento del latino è un’idea che viene da lontano. I fondatori del liceo ginnasio prussiano (poi tedesco), tra fine ‘700 e primo ‘800, furono i primi a sganciare l’insegnamento del latino dalla sua natura di mezzo per leggere i classici in originale, facendone una sorta di palestra logico-linguistica. Il risultato fu (ed è) disastroso, ma non analizzabile in questa riflessione (se ne parla qui: https://documentoscuola.altervista.org/la-scuola-aziendalizzata-2/ in particolare al paragrafo “Formazione del soggetto e istruzione sull’oggetto”).
Qualcosa di più rapido e noto si può dire sul proposito di studiare il latino per rafforzare la conoscenza dell’italiano: era centrale nella scuola italiana immediatamente post-unitaria, quando “bisognava fare gli italiani”, che parlavano le rispettive lingue locali (o dialetti che dir si voglia) e l’italiano non lo conoscevano affatto. E in effetti, il rapporto dei cittadini italiani di oggi con la lingua italiana somiglia sempre più a quello dei loro antenati ottocenteschi… con la differenza che oggi anche le lingue locali hanno perso o stanno perdendo il retroterra e quindi la vitalità di un tempo.
Ricapitoliamo
Con una popolazione cui vengono sempre più a mancare le basi linguistiche minime, si continuano a ridurre il numero degli anni scolastici (come nota Fineschi) e (aggiungo io) le ore di studio in rapporto a quelle dedicate ad attività extracurricolari o parascolastiche. Però si propone il rimedio di un’ora settimanale facoltativa di latino alle scuole medie… cioè quasi nulla.
E tutto ciò in una scuola in cui, ad esempio, il latino nei licei linguistici è stato portato da cinque anni ai soli primi due, e per due sole ore settimanali. Esattamente come si è abbattuto a picconate e demonizzato l’aspetto mnemonico dello studio non meno di quello critico e razioncinante, si insiste con la digitalizzazione onnipervasiva dai devastanti effetti sulle attitudini e cognitive e mnemoniche degli alunni (si veda qui: https://www.mim.gov.it/documents/20182/6739250/Documento_Senato_Sull%E2%80%99impatto_del_digitale_sugli_studenti.pdf/79d34842-4456-9aa3-7ae6-d22ab7d69312?t=1671527039119), ma si propone di risolvere il tutto facendo studiare a memoria qualche filastrocca ai bambini della scuola primaria.
Logico, eh?
Conclusione
Sorvolando su altre perle, come il contrabbandare per letteratura epica il mediocre fantasy da pseudo-melting pot storico-letterario di Rick Riordan, l’inevitabile deduzione è che il carattere coloniale e classista della direzione in cui si muove la scuola italiana resta indubbio, ma bisogna intendere bene il modo in cui tale orientamento viene perseguito.
Da un lato, si prosegue nello svuotamento di contenuti: scomparsa della geografia, studio della storia senza riflettere su dinamiche contestuali e cause, e via elencando. Dall’altro, si appone a tutto ciò uno stendardo ideologico fatto di iniziative che riconfermano la marca sciovinista ed etnocentrica, ma non possono e non devono poter reintrodurre dalla finestra i contenuti usciti dalla porta: qualche oretta di latino, qualche verso studiacchiato a memoria e così via. Si dà la sensazione di “ritorno alla scuola che fu”, mentre si continua a eliminare la sostanza stessa della scuola.
Fatta salva l’esigenza, che in qualche modo persisterà, di percorsi “di eccellenza” per quelle esigue percentuali di popolazione che bisognerà continuare a istruire. Quando arrivò la riforma del 1962 che, fra le altre cose, pose fine di fatto allo studio del latino alle scuole medie, nella spopolata e non certo ricca Sardegna (dove vivo) esistevano non meno di undici istituti scolastici superiori in cui quella lingua veniva insegnata. Oggi sono molti di più. A occhio e croce, se l’attuale china non subisce drastiche modifiche, in breve non ne servirà più di una ventina in tutta Italia. E considerando che questo è l’ultimo paese rimasto in cui latino e greco siano discipline curricolari nella scuola, forse sono ottimista.
Però “avremo il latino alle medie”.
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Gabriele
però avremo il latino alle medie,non vorrei che fra qualche anno si fosse costretti a ricordarli come quelli che” hanno fatto anche cose buone”,quelli riportarono il latino tra i banchi di scuola ,dimenticando che tutto intorno ai banchi la scuola crollava nello sfasciume più assoluto sia come istituzione che come edifici scolastici
kh beyer
Hier geht es um Fantasie in allen Medien. Ich persönlich staune immer wieder, wie sich z.b. Fantasie in Film und Buch verkauft. Die totale Abkopplung von der realen Welt. Fantasie ist selbstverständlich notwendig, um die Welt zum Besseren zu verändern. Hier wird aber keine Fantasie im Bezug zum Realismus verkauft, sondern totale Scheiße fern ab vom Leben.
Im Vergleich, waren selbst klassische Märchen realistisch.
Si tratta di fantasy in tutti i media. Personalmente mi stupisco sempre di come, ad esempio, La fantasia venduta in film e libri. La totale disconnessione dal mondo reale. L’immaginazione è, ovviamente, necessaria per cambiare il mondo in meglio. Ma ciò che viene venduto qui non è fantasia in rapporto al realismo, ma merda totale lontana dalla vita.
In confronto, anche le fiabe classiche erano realistiche.
Redazione Contropiano
CLe favole “classiche” contenevano una “morale” utile per affrontare la realtà…