Domenica 8 e lunedì 9 giugno si vota su cinque quesiti referendari.Uno riguarda la legge sulla cittadinanza, gli altri quattro il lavoro.
A partire da oggi, e per i prossimi lunedì, dedicheremo la nostra “Rubrica di classe” all’approfondimento delle proposte sull’occupazione, per capire se davvero con il voto è possibile contrastare lo strapotere dei padroni.
ABROGARE IL JOBS ACT
Il primo quesito chiede l’abrogazione del decreto legislativo 4 marzo 2015, n. 23, che ha introdotto il “contratto di lavoro a tutele crescenti”.
Si tratta di una delle più importanti novità introdotte con il Jobs Act, la riorganizzazione del mercato del lavoro attuata dal governo Renzi tra il 2014 al 2016, parzialmente ispirata dall’omonima riforma di Obama.
IL CONTRATTO A TUTELE CRESCENTI
Si punta ad abrogare la norma che ha scarpinato la tutela contro i licenziamenti illegittimi garantita dall’articolo 18 dello statuto dei lavoratori.
Con le modifiche introdotte da Renzi, tutti gli assunti dopo il 7 marzo 2015 perdono il diritto a essere reintegrati in caso di licenziamento senza un giustificato motivo oggettivo.
In cambio, i lavoratori dovranno accontentarsi di un indennizzo davvero scarso, legato esclusivamente agli anni di servizio prestati nella stessa azienda e alla sua grandezza.
COME SIAMO ARRIVATI AL “JOBS ACT”?
Il Jobs Act è stato giustificato dall’esigenza di stimolare le aziende ad assumere, introducendo nuovi elementi di “flessibilità” nel mondo del lavoro, riducendo al minimo la differenza tra un contratto a tempo indeterminato e un contratto precario.
La riforma è stata possibile grazie al sostegno dell’intero centrosinistra e all’assenza di una reale opposizione dei sindacati confederali.
LE MODIFICHE SUCCESSIVE
Negli anni, la norma introdotta nel 2015 è stata più volte compromessa sul piano della normativo e giurisprudenziale.
In particolare, la Corte Costituzionale è intervenuta più volte in materia, abrogando una serie di articoli incompatibili con i principi di eguaglianza, ragionevolezza e tutela del lavoro.
In particolare, la Consulta ha più volte esteso la possibilità per il lavoratore di ottenere il reintegro in azienda e ha modificato radicalmente il meccanismo per determinare l’entità dell’indennizzo, cancellando il rigido automatismo previsto dal “Jobs act”, giudicato troppo sfavorevole per i dipendenti.
Allo stato attuale, quindi, un assunto dopo il 2015 è assoggettato alla disciplina prevista dalla riforma approvata dal governo Renzi, la cui portata però è stata sostanzialmente ridotta nel tempo.
COSA SUCCEDE SE VINCE IL SI?
Se vince il Sì, il decreto legislativo 23/15 sarebbe abolito. Dunque, per lavoratori assunti dal 2015 in poi, varrebbe la normativa precedente.
Ma bisogna ricordare che l’attacco allo Statuto dei lavoratori non è iniziato con il Jobs act.
Se, nel 2002, la proposta di Berlusconi di cancellare l’articolo 18 è stata bloccata dalla pronta risposta dei lavoratori, non si può dire lo stesso per le modifiche approvate dal governo Monti nel 2012.
In quell’anno, infatti, è stata approvata, con i voti del Partito Democratico, la riforma Fornero, che ha fortemente compromesso la possibilità per il lavoratore di ottenere il diritto al reintegro nel caso, molto comune, in cui il licenziamento illegittimo sia legato a motivazioni disciplinari o economiche.
UN REFERENDUM MUTILATO
Per quanto il Jobs Act sia stato profondamente ridimensionato dalle sentenze della Corte Costituzionale, la vittoria del Sì al referendum aumenterebbe le tutele garantite in caso di licenziamento illegittimo.
Si invertirebbe così un processo che ha portato alla progressiva riduzione dei diritti dei lavoratori.
Tuttavia, proporre la cancellazione del Jobs Act, lasciando inalterata la riforma Fornero, depotenzia fortemente la portata del quesito.
Solo ripristinando il contenuto originale dell’articolo 18 dello Statuto dei Lavoratori è possibile sottrarre il lavoratore al ricatto del licenziamento discrezionale, che compromette la possibilità di rivendicare salario e diritti.
LA NOSTRA POSIZIONE
Insieme ad altre forze politiche e sociali, Potere al Popolo ha costituito un Comitato che sostiene la campagna referendaria, conservando però la propria indipendenza nei confronti dei promotori.
Abbiamo preso questa decisione, poiché riteniamo che la moderazione dei quesiti riduca la possibilità di condurre seriamente una battaglia contro la precarietà e lo strapotere dei datori di lavoro.
Votiamo Sì l’8 e il 9 giugno.
Ma al di là dell’esito referendario, Potere al Popolo continuerà a lavorare per costruire una mobilitazione radicale contro il governo Meloni, perché l’esecutivo a guida Fratelli d’Italia promuove, in continuità con chi l’ha preceduto, un modello di sviluppo basato sulla moderazione salariale e sull’attacco ai diritti dei lavoratori.
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