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Salta il Defence Summit, una vittoria dei “movimenti”

Non siamo nelle condizioni di mobilitazione di inizio millennio, quando “i movimenti” contro guerre e distruzione avevano una dimensione tale da venire definiti “la seconda potenza mondiale” – la Russia stava appena riprendendosi dal crollo sovietico e la Cina correva, ma era ancora molto distante –, ma evidentemente quel che si è mosso nei mesi scorsi interpreta correttamente la contrarietà dei popoli alle politiche  guerrafondaie e al genocidio dei palestinesi.

Il Defence Summit, evento-fiera per le aziende costruttrici di armi che avrebbe dovuto tenersi il prossimo 11 settembre all’Auditorium della Musica di Roma, è stato rinviato a data da destinarsi. O a tempi meno brutti per quelle aziende.

La decisione, fanno sapere gli organizzatori con una nota densa di reticenza, è stata presa in seguito «all’evoluzione della situazione geopolitica internazionale». Vago quanto basta, al punto da non spiegare nulla sulle vere ragioni. E’ vero infatti che la guerra in Ucraina ha messo in difficoltà gli armaioli occidentali, superati di gran lunga da quelli russi per quantità e corrispondenza dei “prodotti” al tipo di guerra lì in atto.

E’ vero anche che la visione quotidiana del genocidio a Gaza non giova affatto alla “pubblicità” che si vorrebbe fare sulle armi occidentali, ossia quelle usate da Israele per massacrare donne, bambini, medici, giornalisti e qualsiasi essere vivente capiti a tiro.

Ma per sapere qualcosa di più è stata necessaria qualche “indiscrezione” lasciata filtrare da “ambienti della Difesa” – il ministero apposito, guidato dall’ultra-meloniano nonché ex lobbista del settore, Guido Crosetto – relative ad imprecisate “impostazioni con cui l’evento era stato concepito ed anche alle modalità organizzative previste”.

Di vaghezza in vaghezza, una indiscrezione dopo l’altra, si è arrivati infine a capire che la nebulosa «evoluzione della situazione geopolitica internazionale» coincide con le mobilitazioni popolari già avvenute (il 21 giugno scorso) e quelle annunciate proprio per l’11 settembre a Roma.

I nostri lettori ricorderanno certamente come a giugno si svolsero ben due manifestazioni contemporaneamente, contro la guerra e il genocidio, di dimensioni simili ma con visione e parole d’ordine un po’ diverse. Una, convocata dal cartello “Stop rearm Europe”, contestava il piano von der Leyen (ancora sul tavolo) di destinare ben 800 miliardi alla spesa militare per contrastare una inesistente “minaccia russa di invasione”, ma senza nominare la Nato come soggetto centrale di questa politica destinata a produrre cannoni invece che “burro” (guerra invece che benessere popolare).

L’altra, convocata dal coordinamento “Disarmiamoli” poneva invece più lucidamente l’uscita dalla Nato come obiettivo coerente con qualsiasi politica di contrasto al riarmo europeo. Difficile insomma contrastare “qualcosa” senza prendersela con “qualcuno” (un soggetto politico sovranazionale, in questo caso) che progetta e attua quel “qualcosa”.

La dicotomia della mobilitazione non ne aveva affatto diminuito la portata e, vista l’«evoluzione della  situazione geopolitica internazionale» – in questo caso sì -, era facilmente prevedibile che l’11 settembre qualcosa di simile o molto superiore si sarebbe manifestato nelle strade di Roma.

Comprensibile anche le difficoltà degli “armaioli” nel supportare la narrazione prescelta. In Ucraina il processo di pace è effettivamente fermo, dopo i vertici di Anchorage e quello di Washington, ma il mezzo disimpegno degli Usa di Trump rende meno “realistico” e urgente il piano di riarmo, oltre che “senza capo né coda”.

Se, infatti, il leader della Nato annuncia che “non ci metterà più un soldo” e che tutti i costi del sostegno militare a Kiev saranno a carico di quei deficienti europei che vogliono proseguire una guerra già persa, diventa parecchio più complicato far digerire il mostruoso taglio previsto della spesa sociale per destinare invece cifre colossali alle armi.

Persino la Germania afferma di non avere le risorse sufficienti dopo aver disegnato un “programmino” da 355 miliardi, mentre l’altro psicopatico “volenteroso” – la Francia di Macron – è alle prese con una devastante crisi del debito che rende totalmente priva di credibilità qualsiasi pretesa di grandeur soldatesca.

In questa grande incertezza “strategica” – alleanza militare spaccata tra disimpegno e ottuso rilancio, soldi che scarseggiano, “alleato” israeliano che meriterebbe semmai sanzioni e intervento militare contro – la possibilità che manifestazioni in qualche modo “oceaniche” si stringessero intorno ad un pugno di mercanti di morte per chiederne la cacciata non era lo scenario più favorevole per quei signori e il governo che ben li rappresenta (non che l’opposizione parlamentare sia meno guerrafondaia – Picierno docet! – ma al governo ci stanno questi altri, per ora).

Anche l’ipotesi di affrontare questa mobilitazione con gli strumenti del recente “decreto sicurezza” deve essere sembrata non praticabile, per l’eccessivo costo politico che potrebbe comportare.

Quindi non restava che il rinvio, il più possibile in sordina, per non dare ai movimenti il riconoscimento di una vittoria insolita, ma densa di promesse per i prossimi mesi. Anche senza fiera delle armi, non mancano davvero le ragioni e le occasioni per farsi sentire e bloccare “progetti” altrettanto mortiferi…

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