In ambito scientifico la circolazione dei saperi non è più quella dei libri che si prendono in prestito in biblioteca, ma è piuttosto quella di un’enorme mole di dati e contributi, elaborati e pubblicati su diverse piattaforme. IE il problema di come vi si accede è diventato un nodo determinante.
Lo sa bene la Cina, che qualche giorno fa ha lanciato un’iniziativa per la cooperazione internazionale sulla Open Science. Una categoria che raccoglie vari concetti, di cui sicuramente i più famosi e, forse, i più importanti sono quelli di Open Acces, Open Source, Open Data.
Per farla breve, quando c’è davanti un Open-, si intendono tutte quelle forme con cui quella enorme mole di dati e contributi citata all’inizio viene messa a disposizione a tutti, dal curioso all’esperto in materia, in maniera immediata e riutilizzabile.
È insomma la strada attraverso cui diffondere i prodotti della conoscenza in maniera più orizzontale e democratica possibile, consentendo non solo di verificarli ma anche di moltiplicare e ampliare le opportunità di studio. Ma “immediata e riutilizzabile” non significa gratuita.
Seppur il lettore non deve sborsare nulla, per fare l’esempio degli articoli Open Access, esistono comunque dei pagamenti che possono essere pagati dalle istituzioni per cui lavora il ricercatore, o dal ricercatore stesso. Una ricerca ha mostrato come questo prezzo al 2021 si aggirava sui 1.700 dollari.
Un costo – chiamato Article Processing Charges (APC) – che spesso può essere proibitivo, soprattutto per studiosi e istituti dei paesi ancora in via di sviluppo. O che, comunque, vivono un’importante asimmetria di potere d’acquisto delle proprie retribuzioni rispetto a quelle occidentali.
Proprio per questo l’iniziativa cinese assume straordinaria importanza, e viene difatti portata avanti coinvolgendo Brasile, Sud Africa e l’intera Unione Africana. Uno sforzo governativo di questo genere promette di permettere una più facile circolazione dei saperi in quei paesi.
Questa iniziativa è legata al protagonismo acquisito da questi attori nello scenario globale. Lo scopo è di “promuovere l’innovazione scientifica e tecnologica globale per il beneficio del Sud Globale”, si legge su Xinhua, una delle agenzie di stampa ufficiali della Cina.
“Tutti i paesi”, conclude il giornale, “dovrebbero aumentare gli investimenti nella scienza aperta e incoraggiare la cooperazione, la costruzione congiunta e la condivisione delle principali infrastrutture di ricerca scientifica”. Frasi che fanno eco ad altri eventi recenti.
Dal 22 al 24 ottobre si è svolto a Pechino il World Science and Technology Development Forum (WSTDF 2024), organizzato dal 2019 dal China Association for Science and Technology (CAST).
Durante l’incontro, scienziati cinesi e di varie altre nazionalità hanno sollecitato la costruzione di infrastrutture scientifiche aperte, in una sessione tematica appositamente dedicata al tema.
In quell’occasione, il direttore dell’Ufficio regionale per l’Asia orientale dell’UNESCO, Shahbaz Khan, ha osservato che ciò è in linea con gli Obiettivi di sviluppo sostenibile delle Nazioni Unite, in particolare per ciò che riguarda il cambiamento climatico e la sicurezza alimentare.
Khan è stato ancora più esplicito rispetto al ruolo che il WSTDF può svolgere rispetto al Sciences Decade, lanciato dall’UNESCO per lo sviluppo sostenibile fino al 2033. Davanti ai giornalisti del Global Times Khan si è chiesto “come possiamo promuovere la conoscenza dov’è necessaria?”
Si è risposto affermando: “ad esempio, per i paesi bisognosi dell’Africa, i paesi in via di sviluppo, che sono i partner della Belt and Road Initiative come Pakistan e Afghanistan, questo forum può aiutare a portare loro i benefici della scienza e della tecnologia per migliori mezzi di sussistenza”.
Nel 2016 la Cina è diventato il luogo di produzione del maggior numero di articoli scientifici, mentre nel 2022 i suoi contributi sono stati i più citati a livello mondiale. Ma, rimanendo sull’esempio dell’Open Access, il Dragone è ancora un po’ indietro rispetto alla media complessiva.
È evidente, però, che anche in questo settore la Cina non sta solo acquisendo un peso dovuto alla quantità, ma anche in base al ruolo trainante rispetto alla ridefinizione delle politiche globali. Anche con strumenti che adottano i principi di mercato.
La Chinese Academy of Science ha fissato l’APC per la sua rivista National Sciences Open a 1.200 dollari. Ciò significa che gli altri editori al di fuori della Cina, mentre ne cresce la legittimazione accademica, subiranno una altrettanto crescente pressione per abbassare i loro APC.
Nella logica di questa iniziativa appena lanciata c’è dunque sia l’esigenza scientifica, incarnata nella categoria di Open Science, ma anche quella politica di far andare di pari passo sviluppo e giustizia sociale. Buone premesse per il futuro.
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