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7 aprile 2020. Aversa, di carcere si muore ancora

Ieri, si è impiccato un detenuto rumeno, E.V di 32 anni, nel carcere di Aversa, in provincia di Caserta, dove  è in rivolta il carcere di Santa Maria Capua Vetere.

Il silenzio della cronaca è stato rotto da Samuele Ciambriello, garante in Campania delle persone sottoposte a misure restrittive della libertà personale.

E.V. sarebbe uscito a novembre prossimo.

Il carcere di Aversa, ex-manicomio giudiziario è stato riconvertito a istituto carcerario da qualche anno.

La struttura era nota tristemente per essere stato un lager dal fascismo in poi e i suoi terribili trattamenti, venuti a galla negli anni ’70 ad opera di ex-ospiti, in libri di denuncia, resoconti del periodo e per l’azione dimostrativa dei Nuclei Armati Proletari (NAP), finita tragicamente con la morte del militante Giovanni Taras, nel 1975, giusto 45 anni fa.

Di morti e suicidi le cronache si sono interessate anche negli anni seguenti fino alla sua riconversione in carcere.

Quei reparti, a blocchi separati 50/100 metri gli uni dagli altri, con muri di tufo, caldissimi d’estate e gelidi d’inverno sono, probabilmente ancora adesso, dopo le varie e decantate riforme,  inospitali.

Quest’ultimo episodio, la morte di E.V., matricola numero zero, ci riporta alle condizioni generali del carcere italiano, ancora più fatalmente disumano nel momento della pandemia che da più di un mese – con 16.000 morti e migliaia di contagiati – ci costringe tutti agli “arresti domiciliari”, un regime attenuato della privazione della libertà.

La cinica corona funebre del coronavirus è stata la morte di tredici detenuti a seguito delle rivolte scatenatesi in decine di istituti penitenziari in Italia negli ultimi venti giorni.

Gli ultimi degli ultimi, i dannati della terra delle istituzioni totali, non sono stati tenuti per nulla in considerazione nell’emergenza e, per terribile paradosso, nemmeno i loro carcerieri che probabilmente sono stati i veicoli del virus negli istituti stessi.

Con un burocratico distacco, il Ministero ha concesso ben poco alla possibilità di alleggerire la pressione di donne e uomini che non possono “osservare le distanze” dei protocolli di sicurezza.

Dopo le rivolte, ancora in corso, e i morti qualche morsa si è allentata e da pochi giorni vengono concesse delle videochiamate con i parenti a discrezione del direttore.

Però il carcere resta il carcere, incapace di dare speranze di recupero perché , in effetti, è la riproposizione in piccolo della società classista che esclude chi non produce, chi non si irreggimenta e chi lascia la sua dignità e i suoi diritti nell’Ufficio Matricola all’ingresso dell’Albergo Italia.

Nelle celle del nostro paese ci sono ancora reclusi dello scontro di classe e della guerra a bassa intensità aperta dallo Stato borghese negli anni ’60 e stanno scontando oltre i 30 anni di ergastolo.

Il fuoco  che sta attraversando i repartini degli istituti da Le Vallette di Torino a Poggioreale di Napoli riporta una tragica realtà di doppia esclusione e urla richiesta di soluzione immediata prima di un contagio mortale di massa.

Avrà pensato questo E.V. nella cella che condivideva con altri quattro detenuti nella “tranquilla cittadina” di terra di Lavoro?

L’amnistia, l’indulto devono essere per forza della bestemmie?

E se ne avesse bisogno presto un Presidente di Regione, dopo palesi responsabilità di inettitudine e procurata strage?

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