Ovvero, cosa tiene insieme il “distretto tek” attorno al tecnopolo, la vita precaria e la fuga nel Regno Unito degli infermieri.
Cosa tiene insieme il nuovo progetto del “distretto Technology, Entertainment, Knowledge” e la notizia che l’ospedale di Exeter (Regno Unito) fa campagna acquisti tra gli infermieri bolognesi?
Andiamo con ordine. Il Comune di Bologna sta presentando al Cinema Modernissimo la sua “primavera urbanistica”, cioè i progetti a medio termine sui lavori in città. Il contenuto è il solito: ottimismo sparso a piene mani, progetti avveniristici, grandi nomi dell’architettura, tanto cemento.
Tra i progetti, è stato presentato il nuovo distretto TEK: Tecnologia, Intrattenimento, Conoscenza. Detto in parole povere: ai progetti già conosciuti sul Tecnopolo si aggiungono nuovi alloggi e servizi commerciali, legando tutto all’ex Caserma Sani e all’espansione della Fiera e al cosiddetto “raddoppio del Parco Nord”.
18 mila metri quadrati di uffici, 60 mila di attività commerciali, 47 mila di residenze, 24 mila di padiglioni espositivi, 20 mila di padiglioni “polifunzionali”. 2 miliardi di investimenti pubblici e privati, dove il nome dei “privati” si può indovinare anche senza leggere gli articoli: Unipol, LegaCoop, Hera, Bologna Fiere e via elencando.
Non ci stupiamo che Lepore riesca anche a snocciolare questi numeri dicendo che saranno in ogni caso progetti “sostenibili” e che il cemento, per carità, sarà “di nuovo tipo”. E non ci stupisce neanche l’eterno Romano Prodi che dichiara che l’obiettivo è “attrarre talenti e dargli casa”. E qui inseriamo la seconda notizia.
L’ospedale di Exeter offre 1.500 sterline al mese a infermiere e infermieri bolognesi per trasferirsi a lavorare nel Regno Unito. E ne esce che sistematicamente persone che hanno studiato e lavorato in città scappano perché questa città non è in grado di garantire una vita dignitosa e stabile neanche a lavoratori e lavoratrici ad alta specializzazione.
Con un mercato della casa fuori da ogni controllo è impossibile garantire progetti di medio termine e la realtà comincia a scontrarsi con i mega progetti di “attrattività”. Se anni fa si poteva parlare di “furto di cervelli” da parte dei paesi europei più forti, qua abbiamo anche una messa in fuga dei cervelli da parte di una città che spinge attivamente all’abbandono.
Mentre l’ottimismo dei progetti parla di migliaia e migliaia di nuovi ricercatori pronti a trasferirsi a Bologna per popolare il distretto TEK, la realtà è un po’ più prosaica. Oltre a un certo numero di persone che lavorano ai progetti effettivamente nuovi, come il computer EuroHPC Leonardo e al Data Center Meteo, si tratta in parte di un travaso di persone che già lavorano presso l’Università di Bologna e altri enti di ricerca, spesso schiacciate nell’imbuto della ricerca precaria alla ricerca di una speranza di stabilizzazione, e che quando hanno trovato degli elementi di stabilità spesso oppongono resistenza al trasferimento al Tecnopolo per evitare di dover cambiare casa trasferendosi in zone coi prezzi alle stelle.
Per popolare il distretto TEK si parla di trasferirvi anche imprese come il CINECA e altre imprese ad altissima specializzazione tecnologica. Peccato che si tratti spesso di imprese ad altissimo tasso di telelavoro in cui già ora lavoratrici e lavoratori non risiedono dove hanno sede le aziende, sedi che spesso sono materialmente dei capannoni semivuoti in aree industriali in cui i dipendenti vanno un paio di volte l’anno.
Rimarrebbero poi i dipendenti della gigantesca area commerciale, il triplo degli spazi dedicati a ricerca e uffici. L’esperienza di questi giganteschi centri commerciali sta segnando il passo in tutta Europa.
Nelle grandi città questi spazi restano semi vuoti, come del resto è rimasta semivuota la “disneyland bolognese del cibo”, FICO, che continua ad aprire, chiudere, cambiare nome, senza che questo riesca a convincere le persone a chiudersi dentro un capannone per passare tutto il giorno a fare shopping a prezzi altissimi.
Come da molti anni, i progetti di sviluppo di questa città non sono guidati dall’espansione della ricerca e dell’innovazione, ma dalla necessità di tenere in vita un’industria del cemento che si mangia un pezzo di città dopo l’altro, dalla necessità di espandere continuamente la bolla immobiliare per evitare che i palazzinari di Bologna si trovino senza rendita.
E contemporaneamente sono progetti faraonici senza basi, con una città che ha più centri commerciali che abitanti, che parla di “attrattività” ma vede la popolazione del Comune di Bologna stagnare sotto i 400mila abitanti e dell’intera città metropolitana attorno al milione di abitanti.
Progetti faraonici pensati come se una città potesse vivere solo sulla base di alcune migliaia di lavoratori iper specializzati (spesso sopravvalutandone il reale numero) cui però non si riescono neanche a garantire le minime necessità di stabilità; figuriamoci quelle della massa di lavoratrici e lavoratori, spesso ex studentesse e studenti di UNIBO, che restano in questa città intrappolate in un circuito di precarietà e insicurezza abitativa.
Quello che serve è un cambio di piano per questa città. Noi chiamiamo questo cambiamento “città pubblica” perché vogliamo che chi a Bologna vive, lavora e studia possa costruire progetti di vita a lungo termine, dove tornino ad avere casa i progetti su scuole, asili e ricerca non sulla base della speculazione e della cementificazione ma per ridare alle persone delle solide basi di dignità.
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Andrea Vannini
Leporino: faraone e podestà.