Aiutateci a salvare quegli alberi! Questo non è il grido della ragazzina svedese che ci invita a proteggere l’ambiente. Non è neanche il grido che arriva dall’Amazzonia devastata dagli incendi affinché il profitto privato avanzi, anche se a danno dell’umanità. Non ci saranno indigeni-protettori-degli-alberi uccisi nel silenzio del mondo come avviene nel Brasile di Bolsonaro. Qui siamo in Italia, vero è che gli interventi delle varie mafie nostrane a Bolsonaro non hanno niente da invidiare, ma non è questo il caso che le possa vederle in azione. Per fortuna!
Allora, dove sono questi alberi da salvare? E perché, visti i tanti problemi che ha l’Italia – potrebbe chiedere più di qualcuno – dovremmo occuparcene? Bene, non è difficile dare risposta a questa domanda. Perché ovunque in Italia si distrugga un parco per far posto al cemento, ovunque questo avvenga, il fatto riguarda tutti gli abitanti della Repubblica, anche solo in nome dell’art. 9 della Costituzione.
Certo, abbattere 160 alberi non è paragonabile alla devastazione dell’Amazzonia, ma noi non abbiamo l’Amazzonia e non possiamo pensare che un piccolo parco non ci riguardi perché piccolo o perché si trova a Palermo o a Milano. Fermare un progetto dannoso significa dare l’esempio che un diverso approccio con l’ambiente è possibile davvero e quindi, facendolo, si attiva quel moltiplicatore virtuoso che parte veramente dal basso e si fa potere di una comunità armata di senso civico e di determinazione consapevole.
Salviamo quegli alberi! Quelli del piccolo parco di via Bassini a Milano, di fronte alla Città Studi, cioè il giardino del Politecnico. “Salviamo quegli alberi” è il grido lanciato in forma di petizione da inviare al sindaco Sala, da una docente del Politecnico, la professoressa Arianna Azzellino. Con lei sono solidali in modo attivo circa 150 docenti e molti studenti informati e sensibilizzati su quanto rischia di avvenire in queste ore.
“Nel quadro dei progetti destinati alla riqualificazione del Campus di Architettura, Il Politecnico di Milano ha inserito anche l’edificazione di un nuovo edificio per gli studi di Chimica, lungo via Bassini…. La riqualificazione promette maggiori aree a verde e nuovi spazi destinati agli studenti. E’ passato perciò quasi sotto silenzio che il nuovo edificio andrà a occupare uno spazio che attualmente è adibito a giardino: il parco del Campus Bassini. Questo spazio è uno dei pochi polmoni verdi presenti in quest’area della Città Studi ed è oggi frequentato da molti studenti e dai residenti della zona” si legge nella petizione lanciata dalla professoressa Azzellino che chi vuole può firmare aprendo questo link http://chng.it/CZZRKyQM.
Certo, viene assicurato che poi si farà un altro giardino e si pianteranno nuovi alberi, ma non è la sostituzione di un bicchiere con un altro bicchiere. Forse sta proprio nel fatto di dire semplicemente “alberi” che non fa individuare il grave danno all’ambiente e a chi lo abita, che viene fatto distruggendo alberi pluridecennali e secolari, oltre al fatto di aggiungere nuovo cemento mentre si potrebbero usare costruzioni già esistenti. Il riuso non può essere decantato come fatto virtuoso e poi ignorato nella realtà. Questo se realmente si tiene all’ambiente, è ovvio!
Un sopralluogo nel giardino, ora recintato e “pronto ad accogliere le ruspe” fa capire meglio quale sarà il danno derivante dall’abbattimento di un patrimonio floreale composto di querce rosse, platani, tra cui uno di particolare valore in quanto frutto di un raro ibrido naturale, un enorme cedro del Libano, carpini bianchi, pioppi italici, bagolari, faggi, magnolie, tigli, solo per parlare di quelli più significativi.
Come scriveva in un libretto riedito qualche anno fa da Sellerio lo scrittore praghese Karol Capek, se si mettesse accanto a una pianta la targhetta col nome scientifico e le si desse quindi autorevolezza e dignità di individuo nella sua specificità, anche l’ortica comune, divenuta Urtica dioica L., verrebbe guardata con rispetto e magari coccolata e zappettata.
Allora, seguendo l’indicazione di Capek, diamo un’identità a questi “alberi” e vediamo per prime le QUERCE ROSSE (Quercus rubra L.) . Ce ne sono un certo numero, hanno origine in America e arrivano a noi circa tre secoli fa. Si chiamano così perché proprio ora la chioma si fa rossa e le foglie cadendo creano dei tappeti bellissimi. La pianta può raggiungere i 30 metri di altezza e quelle di via Bassini sono già esemplari adulti e bellissimi che il progetto di…”riqualificazione” renderebbe legna da ardere.
Poi ci sono i PIOPPI ITALICI (Populus nigra L.) I botanici sanno che il pioppo nero è una delle specie arboree più minacciate di estinzione, quindi tagliarli sarebbe forse dare una mano a chi va a caccia di esemplari rari e li rispetta solo quando sono rimasti in due. Una particolarità ecologica del pioppo nero è che quando ormai è prossimo alla vecchiaia nel suo tronco si formano delle cavità che richiamano varie specie di uccelli, dal picchio al nibbio e piccoli mammiferi come gli scoiattoli. Inoltre, per quel che riguarda l’inquinamento, va tenuto presente che il pioppo nero trattiene i metalli pesanti eventualmente presenti nel suolo.
Che fine faranno il FAGGIO (Fagus sylvatica L.) e il FAGGIO PIANGENTE (Fagus sylvatica pendula L.) ? Il faggio è un albero originario della Germania e ha una crescita molto lenta. Se non arriva prima una ruspa a estirparlo può vivere, crescendo lentamente, per diversi secoli; ucciderlo è un crimine “verde”, ma pur sempre un crimine.
Ci sono anche numerosi CARPINI BIANCHI (Carpinus betulus L.), alberi o arbusti, a seconda di come li si lasci crescere, sempreverdi, con foglie brillanti che somigliano a una plissettatura naturale. Sono piante autoctone, hanno origine in Italia. Si sostituiscono facilmente, è vero. Ma i vegetali sono viventi, ucciderne uno per sostituirlo con un altro non è come cambiare un bicchiere.
Sui BAGOLARI (Celtis australis L.) vorrei dire due parole in più. Non tanto sull’origine, perché hanno origine più o meno in tutto l’emisfero boreale, e neanche sulle proprietà dei loro piccoli frutti, ma semplicemente sul rispetto che di essi si ha in diversi luoghi in Italia. Ad esempio un esemplare di 25 metri di altezza e 5 di circonferenza vive felicemente nel centro di San Gimignano, la città dalle mille torri, vicino a Siena e un altro di 7 metri più alto fa bella mostra di sé sempre in Toscana, a Firenze. Ma anche in un paese in provincia di Ancona ce ne sono due quasi millenari che si dice siano stati piantati da san Francesco d’Assisi prima di imbarcarsi per la Terrasanta.
Nel quartiere medioevale di Genova c’è un vicolo detto “salita della fava greca” che era l’antico nome locale del bagolaro. E un maestoso antico bagolaro è lì a dar senso al nome del vicolo da qualche secolo.
A Belcastro, in provincia di Catanzaro, il bagolaro piantato nel 1799 chiamato “Albero della Libertà” è lì a ricordare che proprio quel giorno fu condannato a morte (pena poi commutata in altro) il patriota Giuseppe Poerio, protagonista del tentativo di instaurare la Repubblica napoletana.
Ci fermiamo col bagolaro che si trova a Milano, nella cascina del Parco Nord a Sesto San Giovanni, ma potremmo continuare per pagine e pagine perché i bagolari, fratelli maggiori di quelli di via Bassini che finirebbero in cenere, sono alberi riconosciuti e apprezzati da chi, appunto, sa riconoscerli e non si sogna di abbatterli!
Si potrebbe dire parecchio anche dei PLATANI (Platanus orientalis L.), ma mi limiterò a dire che anche quest’albero ha una sua personalità di tutto rispetto. In Lombardia è famoso quello dell’Orto Botanico di Pavia, alto oltre 45 metri e piantato in onore del grande botanico Linneo il giorno della sua morte, nel 1778, dal naturalista e accademico Antonio Scopoli. Pensate se per far avanzare il nuovo, come si usa da un po’, lo avessero rimpiazzato con un platanino giovane giovane!
Ma nel giardino del Politecnico c’è un esemplare particolare di platano: è quello che in termini botanici si definisce Platanus X Acerifolia detto anche platano di Londra, che può arrivare fino a 40 metri di altezza e la cui specie si è formata per ibridazione naturale quattro secoli fa nei giardini inglesi di Vauxhall per un connubio deciso dal vento e dagli insetti tra un platanus orientalis e un platanus occidentalis piantati vicini l’uno all’altro. Ma al di là delle curiosità botaniche, quest’albero è uno dei più efficaci elementi vegetali nel ridurre le particelle inquinanti diffuse delle aree urbane.
Potremmo ancora parlare delle magnolie da fiore o dei tigli e anche delle loro proprietà officinali, ma lo spazio ce lo vieta per ragioni editoriali. Ci limitiamo a scrivere ancora due righe sul Cedro del Libano (Cedrus libani A. Rich.) per dire che si tratta di una conifera perenne e che le sue origini risalgono ai Fenici, i quali ne utilizzavano il legno per costruire quelle imbarcazioni sicure e veloci che diedero molto filo da torcere ai Romani.
E ora che abbiamo provato a dare, nel modo più veloce possibile, una certa individualità a una parte dei 160 esemplari che dovrebbero essere abbattuti, vediamo cos’altro dice la petizione presentata dalla professoressa Azzellino a proposito di “un’istituzione autorevole quale è il Politecnico di Milano, che tanto ha contribuito a costruire i principi di questo modo di ripensare il tessuto urbano” e che oggi sta per commettere “il peggiore degli errori: l’abbattimento di verde urbano per sostituirgli della cementificazione”.
Chiarito che né docenti né studenti si oppongono alla creazione di un nuovo spazio per la facoltà di Chimica e che chiedono soltanto che questo si realizzi in uno spazio già esistente, senza aggiungere altro cemento a danno del verde pubblico, la petizione mette in risalto un fatto che non interessa solo la cittadinanza di Milano, ma tutti i cittadini italiani e cioè che un nuovo parco verrebbe realizzato laddove al momento è installato un reattore sperimentale il quale dovrebbe essere eliminato. Ma eliminare un reattore nucleare, benché sperimentale, non è come eliminare un’officina meccanica o una pasticceria, tanto che si usa un termine speciale, preso dall’inglese, decommissioning, che significa rendere inattivo in totale sicurezza per la popolazione, l’oggetto che si va a trattare. Ci sono altri luoghi in Italia interessati dallo stesso problema e questo non va sottovalutato. I tempi ipotetici per il decommissioning del reattore nelle palazzine Enrico Fermi della sezione di ingegneria nucleare che verrebbero abbattute vanno dai 10 ai 20 anni. E dopo, sugli avanzi, si suppone e si spera ormai sicuri, si creerebbe il nuovo parco.
Per i 150 docenti primi firmatari della petizione, tutto ciò è assolutamente inaccettabile e per questo invitano tutti i cittadini e non solo quelli abitanti in Lombardia a firmare la petizione che indichiamo di nuovo http://chng.it/CZZRKyQM.
Inoltre i docenti del Politecnico decisi a salvare questi alberi invitano tutta la cittadinanza a partecipare al flash mob che si terrà lunedì 25, con la pioggia o col sole, alle 12,30 in via Bassini davanti alle recinzioni di fronte all’edificio 21.
Perché salvare gli alberi, anche questi 160, non è un capriccio da ambientalisti modaioli, ma una necessità per frenare la devastazione del pianeta. A partire da ognuno di noi.
- © Riproduzione possibile DIETRO ESPLICITO CONSENSO della REDAZIONE di CONTROPIANO
Ultima modifica: stampa