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Agosto 1917: a Torino la rivolta del pane

A Torino, nell’estate del 1917, i problemi economici e le difficili condizioni in cui si trovavano a lavorare la maggior parte dei proletari italiani sfociarono in una serie di rivolte che assumeranno anche un carattere antimilitarista contro la guerra in atto.

Si trattò di un episodio assolutamente da ricordare intendendolo quale espressione di una capacità di mobilitazione contro la guerra che era davvero difficile da esprimere in quel momento da parte del proletariato.

 La “rivolta del pane” si può considerare anche quale primo effetto, in Occidente, della rivoluzione in quel momento in corso in Russia.

E’ allora il caso di esaminare, sia pure sommariamente, quell’avvenimento riassumendo il commento possibile nella sola antica frase “Ribellarsi è giusto” che, allora come oggi, non è mai apparsa così calzante rispetto alla situazione sociale e politica.

Che la memoria continui a insegnare!

E’ questo il modesto messaggio che, personalmente, mi piacerebbe poter esprimere ricordando quelle giornate.

A Torino, nell’estate del 1917, i problemi economici e le difficili condizioni in cui si trovavano a lavorare la maggior parte dei proletari italiani sfociarono in una serie di rivolte che assumeranno anche un carattere antimilitarista contro la guerra in atto.

Il mancato rifornimento di farina del 22 agosto 1917 fu il varco attraverso il quale le dimostrazioni per il pane si tramutarono in moti antimilitaristi che durarono circa una settimana.

Il 23 agosto gli scontri si fecero più violenti. In vari punti della città, i rivoltosi si fronteggiarono con le forze di polizia e dell’esercito. I teatri degli scontri più aspri e violenti furono Borgo San Paolo, la Barriera di Nizza e la Barriera di Milano (quartiere in cui vi era una fortissima presenza di anarchici, tra cui Maurizio Garino, Italo Garinei e Pietro Ferrero).

Le rotaie dei tram vennero divelte, furono erette barricate in diversi punti della città e molti negozi vennero saccheggiati. In Barriera di Milano, un gruppo di anarchici costituì un centro organizzativo della sommossa. Alla fine della giornata si contarono 7 dimostranti uccisi dalle forze dell’ordine, 37 feriti e 200 arrestati.

Il giorno seguente, 24 agosto, gli scontri continuarono, ma questa volta l’esercito passò a una ancor più dura controffensiva. Alla fine della giornata si contarono 24 dirigenti del PSI arrestati insieme ad un migliaio di operai e dimostranti vari.

Da martedì 28 agosto furono sedate le rivolte e le autorità poterono annunciare che «l’ordine regnava a Torino».

Il bilancio finale fu di circa cinquanta morti fra i rivoltosi, circa dieci fra le forze dell’ordine e circa duecento feriti; vi furono un migliaio di arrestati; di essi, varie centinaia furono processati per direttissima e condannati alla reclusione in carcere.

Tra il giugno e l’agosto del 1918 ebbe luogo, avanti al Tribunale Militare di Torino, un ulteriore processo che vide imputati dodici dirigenti socialisti e un anarchico. Dalle risultanze processuali emerse che la rivolta era stata spontanea e non era frutto di nessun complotto. Ciononostante, sei degli imputati (fra i quali il leader socialista Giacinto Menotti Serrati, che si era recato a Torino durante la sommossa rimanendovi però un giorno solo) furono ritenuti dal Tribunale “autori morali della sommossa” e perciò condannati a pene detentive varianti fra i tre e i sei anni.

Durante i giorni della rivolta, la folla cantava un ritornello che poi divenne famoso: «Prendi il fucile e gettalo (giù) per terra, vogliam la pace, vogliam la pace, vogliam la pace, mai vogliam la guerra!»

A Torino l’opposizione alla guerra era stata vivissima fino dal 1914 sia per la presenza di un proletario operaio combattivo e radicale (il grande sciopero del maggio 1915 lo aveva dimostrato), sia perché la grande, media e piccola borghesia era stata nella grande maggioranza giolittiana e neutralista. Inoltre a Torino avevano avuto scarsa fortuna i piccoli borghesi dannunziani e nazionalisti.

La “rivolta del pane” fu occasione d’intervento e di riflessione per Antonio Gramsci che scriverà nel 1920: Invano avevamo sperato nell’appoggio dei soldati; i soldati si lasciarono trarre in inganno che la rivolta fosse stata provocata dai tedeschi…Le donne operaie e gli operai che insorsero nell’agosto a Torino, che presero le armi, combatterono e caddero come eroi, non soltanto erano contro la guerra, ma volevano che la guerra terminasse con la disfatta dell’esercito della borghesia italiana e con una
vittoria di classe del proletariato”.

Nel 1917 Gramsci lavorava come giornalista in un quotidiano socialista di Torino, Il Grido del Popolo, e collaborava con l’edizione piemontese dell’Avanti!

Il 5 agosto 1917 era arrivata a Torino una delegazione dei soviet russi, della quale facevano parte fra gli altri Josif Goldemberg e Aleksandr Smirnov. Il viaggio era stato autorizzato dal governo italiano, che sperava che il nuovo governo russo proseguisse l’impegno bellico contro la Germania. Dopo aver incontrato i delegati russi, i socialisti italiani espressero la propria perplessità rispetto alle idee ancora prevalenti all’interno dei soviet russi.

L’11 agosto il redattore de Il Grido del Popolo s’interrogava: «Quando sentiamo i delegati del Soviet russo parlare di continuare la guerra per la difesa della rivoluzione, ci domandiamo ansiosamente se invece essi non accettino – senza saperlo e senza volerlo – di continuare la guerra per la difesa degli interessi della sopravvenuta borghesia capitalistica Russa, contro l’assalto proletario per l’ennesima vittoria della coalizione capitalistica, contro il pericolo collettivista che si avanza».

Gramsci aveva ben intuito che, scoppiata la “rivoluzione contro il capitale”, soltanto il superamento della condizione di guerra, rispondendo all’aspirazione più profonda del popolo, avrebbe potuto far volgere gli eventi dalla parte dei bolscevichi.

Il Grido del Popolo non venne diffuso durante quelle giornate. Riprese in pieno le sue attività il 1° settembre, adesso sotto la direzione di Gramsci, che sostituì la dirigente socialista Maria Giudice, finita agli arresti. La censura statale non consentiva peraltro di pubblicare alcun riferimento all’insurrezione. Gramsci colse invece l’occasione per fare un breve cenno a Lenin: «forse Kerenski rappresenta la fatalità storica, certo Lenin rappresenta il divenire socialistico; e noi siamo con lui, con tutta l’anima».

Il riferimento è alle giornate di luglio in Russia e alla persecuzione dei bolscevichi che ne seguì, costringendo tra l’altro Lenin a rifugiarsi in Finlandia.

La frazione intransigente rivoluzionaria del partito socialista si organizzò per affrontare la nuova situazione che la rivolta di Torino e le vicende russe avevano creato. A novembre, i dirigenti di questo raggruppamento convocarono un incontro segreto a Firenze per discutere «il futuro orientamento del nostro partito».

Gramsci, che aveva iniziato ad assumere un ruolo importante nella sezione socialista torinese, partecipò alla riunione. In quell’incontro si allineò a chi, come Amadeo Bordiga, riteneva necessaria l’azione militante, laddove Serrati e altri si pronunciavano per il mantenimento della vecchia tattica neutralista.

La riunione si concluse riaffermando i principi dell’internazionalismo rivoluzionario e dell’opposizione alla guerra, ma senza alcuna indicazione pratica sul da farsi.

Dalla rivolta di Torino e dalla sua successiva analisi posta in relazione con gli avvenimenti rivoluzionari in Russia si può dire che nacque – almeno in embrione – il nucleo dirigente e militante che poi avrebbe dato vita alla frazione comunista in seno al PSI e successivamente al PCd’I: una duplice matrice che poi avrebbe pesato nella storia, quella del “fare come in Russia” e quella dell’analisi della situazione italiana in relazione alle condizioni del proletariato.

L’esempio del sacrificio delle proletarie (in primissima fila le donne) e dei proletari torinesi fu quindi alla base dell’avvio di quel decisivo processo politico, inteso quale espressione non astratta di organizzazione della volontà popolare di battersi contro la guerra e le miserevoli condizioni di vita.

Un dato, questo, da sottolineare ancor oggi per la sua importanza.

La situazione italiana stava così scivolando verso Caporetto.

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