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Perchè la sinistra continua a perdere consenso?

Il responso elettorale del 4 Marzo costringe la sinistra non identificabile con il Partito democratico a cercare di indagare le cause della sconfitta senza limitarsi ai dati, per così dire, epifenomenici.

Quando si subisce una sconfitta sul piano elettorale, si fanno solitamente i conti con la qualità dei leaders, con i punti programmatici presentati, con eventuali errori di comunicazione che possono essere stati commessi. Dopodichè si ricomincia a discutere, ci si aggiorna e ci si organizza per la tornata elettorale successiva. Ma la sconfitta patita dalla sinistra il 4 marzo 2018, avendo assunto i caratteri di un’obliterazione, dice qualcosa d’altro, costringendoci a cercare di osservare cosa è accaduto negli ultimi decenni all’interno della società nazionale e, possibilmente, con un occhio attento anche al contesto globale.

Non ci si può infatti esimere, alla luce della risposta popolare alle tradizionali proposte della sinistra, dall’interrogativo se le categorie valoriali del ‘900 possano tuttora ricoprire un ruolo di discrimine e di guida dell’agire politico oppure se, come scrive Ezio Mauro, abbiamo assistito a un generale processo di ‘sostituzione’ che ha visto l’irruzione sulla scena di uno spontaneismo movimentista privo di solide basi culturali e ideologiche. Questa seconda proposizione mi pare fondata, ma essa lascia comunque aleggiare l’interrogativo se il violento incedere di tale processo possa rappresentare una parentesi nella storia del paese o se esso è, invece, destinato a farsi carne e sostanza. Ci troviamo al punto di dover constatare il sostanziale rifiuto della tipica idea di società cara alla sinistra?

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Il percorso era segnato. Prima delle elezioni italiane, il neoliberismo globalizzato aveva già prodotto l’elezione di Donald Trump (e di altri ‘omologhi’). Un dato è incontrovertibilmente sotto gli occhi di chiunque: il neoliberismo globalizzato occidentale (del quale il Pd con il dimissionario Renzi è rappresentante in Italia), porta le peggiori responsabilità dello stato di crisi attuale. Crisi non solo economica, ma altresì politica, culturale, assiologica e soprattutto sociale. Con essa, e con l’ottusa ostinatezza dei rappresentanti politici liberisti a volerla gestire senza rivedere lo squilibrio di interessi e risultati sottesi alla globalizzazione, è stato ridisegnato l’assetto delle relazioni sociali. Il corollario è stato l’incremento dell’emarginazione e della frustrazione, soprattutto nei ceti popolari. Coloro che aspiravano allo status di appartenenza al cosiddetto ‘ceto medio’ hanno subito una cocente delusione e coloro che ritenevano di avere acquisito in modo permanente una condizione di relativo benessere, hanno cominciato a scivolare verso il basso. Così, si sono tutti trovati in competizione con i loro pari ed hanno istintivamente iniziato a invocare protezione e risposte immediate, auspicate in forme e modi anche ‘irrazionali’, sbrigativi e fisici, purchè risolutivi (fino alla tolleranza per movimenti di destra che aggettano al fascismo). La crisi ha rideterminato priorità, problemi e percezione dei bisogni. Tutti quelli che avevano fatto affidamento sul liberismo globalizzato (concorrenziale ed individualistico) si sono ritrovati smarriti, in solitudine e impotenti davanti a fenomeni che, all’apparenza, soltanto una mano decisa e persino incline a fare ‘tabula rasa’ di quanto ereditato sarebbe in grado di addomesticare.

Al momento, la contesa non è più fra il liberismo e lo ‘stato sociale’. Siamo entrati in un territorio inesplorato. La paura del futuro richiama reazioni anche irrazionali. E’ emerso un fenomeno nuovo, informe e deideologizzato. Esso è tratteggiabile per un verso, nella percezione che il ‘pericolo’ e l’insoddisfazione possano trovare soluzione in atteggiamenti politici decisi a scagliarsi contro il sistema; per un altro verso, nella percezione che la politica sia screditata a tal punto dall’aver trascinato in basso il concetto stesso del ruolo dello stato quale erogatore di provvidenze e attuatore di interventi per la sicurezza sociale (ruolo già messo a dura prova dalla pregressa egemonia liberista); nonchè, infine, nell’idea invalsa che il percepito bisogno di sicurezza possa trovare ricetto in un identitarismo nazionale e/o comunitario, edificabile grazie a una risposta protettiva rispetto al rischio di contaminazioni con altre culture (qui, il vessillo da abbattere è il cosmopolitismo globale).

Il liberismo globalizzato era uscito trionfante dalla contesa novecentesca con lo stato sociale ma ora, nelle sue crepe, si insinua rabbiosamente un fenomeno protestatario astorico e, come detto, privo di solide basi ideologiche.

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Tuttavia, la crisi della sinistra è piuttosto risalente nel tempo. Durante la fase espansiva della globalizzazione liberista la speranza in un futuro migliore aveva animato anche i non proprietari (i lavoratori) i quali, proiettati nel magma individualistico indistinto di un mondo neutrale e connotato da grandi promesse, si erano contestualmente allontanati dalle tradizionali formazioni di rappresentanza della sinistra. Si è trattato di un processo che andava di pari passo con la trasformazione in senso liberista dei partiti socialisti occidentali, i quali si erano spinti ad interiorizzare, del liberismo, i fondamenti teorici, culturali e programmatici. Tengo a ribadire che su tale trasformazione ricade, in gran misura, il processo sociale degenerativo di cui siamo spettatori.

Ma l’interrogativo dal quale ero partito permane: perchè, conclamati nell’ultimo decennio gli effetti perversi della globalizzazione, ossia salari declinanti e precarietà, basi pubbliche dello stato sociale ormai minate e uguaglianza sostanziale ridotta a miraggio, ad ogni occasione elettorale i lavoratori si rivolgono sempre meno ai movimenti e ai partiti politici che più autenticamente si richiamano alla sinistra?

Temo, purtroppo, che la globalizzazione neoliberista abbia scavato così a fondo da rendere il futuro compito della sinistra molto più arduo di quanto esso già non fosse quindici o venti anni orsono. Perchè la globalizzazione neoliberista, nel contempo del suo agire, andava altresì ridefinendo ruoli sociali e identità. Complice la sopravvenienza dei mutamenti tecnologici che il ceto proprietario ha saputo volgere ai suoi fini, il transito dalla forma di lavoro organizzativa ‘fordista/taylorista’ (che riuniva in ampie unità produttive ‘masse’ di lavoratori che potevano riconoscersi e condividere rivendicazioni e destini) alla forma organizzativa di lavoro ‘flessibile’ (atomizzata e disancorata rispetto a un ruolo sociale definito) ha compiuto l’opera.

Oggi il lavoro non è più l’elemento centrale dell’avanzamento sociale e dell’identificazione di sè. Il lavoro è un fattore ridotto a pura merce, spesso limitato alla garanzia della sopravvivenza. Ciònonostante, vige ormai una netta dissociazione fra le prospettive di miglioramento individuale attese da forme di ausilio (e di protezione) ‘esterne’ al lavoro e quelle esperibili e rivendicabili nell’ambito del proprio rapporto di lavoro (ormai frustrate). E’ rinvenibile una sorta di stato di necessità, uno sfondo di ineludibilità entro il quale, in nome di compatibilità ‘superiori’, il lavoro è destinato a un rassegnato sacrificio. Sconfitto, frammentato e marginalizzato il movimento dei lavoratori, vince le competizioni elettorali chi, semplicisticamente, promette redditi di cittadinanza, meno tasse e un irrigidimento rispetto alla concorrenza da parte degli immigrati. Tutto questo in costanza di un sistema ‘istituzionale’ che da anni pretende di beneficiare i lavoratori tramite il meccanismo della concorrenza, dal quale attendersi un rigido controllo su prezzi e tariffe relative ai beni e ai servizi (come il ‘discount’ e il ‘low cost’) ma che implica, in realtà, una concorrenza ‘ascosa’ fra lavoratori salariati.

Se ci trovassimo a chiedere oggi a un qualsiasi lavoratore, anche non garantito, cosa egli si aspetta dal governo, la risposta più probabile sarebbe: meno tasse, meno immigrati, minori stipendi ai politici.

Analoga replica verrebbe da parte di un pensionato.

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Come detto, la struttura sociale è stata profondamente mutata dalla globalizzazione. Il vento odierno non fuoriesce dall’otre dei sistemi di pensiero novecenteschi. Scaturisce dall’insicurezza e dalle fobie che il mercato sregolato immancabilmente produce.

Allora è definitivo il rigetto dell’idea di mondo tipica della sinistra? Forse no.

Forse vi è ancora una speranza. La penultima grande crisi del capitalismo aveva portato in auge i movimenti di destra estrema, fascisti e nazisti, che pescavano consenso dai bacini degli scontenti e degli esclusi. Di recente, il ceto sociale che ha diretto la globalizzazione neoliberista è riuscito nell’intento di depotenziare e ridurre all’irrilevanza il suo avversario storico, il movimento operaio, il che è particolarmente avvertibile in Italia. Ne è venuta la reazione che ho descritto. Ma come i movimenti di destra saliti al potere in Europa negli anni fra la prima e la seconda guerra mondiale non sono stati, a lungo andare, in grado di assicurare benessere e pace, potrebbe darsi che le attuali forze politiche sorte o rafforzatesi in reazione all’ultima crisi globale non saranno, a loro volta, in grado di mantenere le aspettative che suscitano o, magari, se lo faranno, gli effetti dello loro scelte non porteranno sollievo genuino e diuturno ai disagiati. Le forze fresche di successo elettorale, ad esempio, non parlano mai di privilegi dei ‘managers’ di impresa o di questione salariale, che pure sono alla radice delle diseguaglianze. Il loro carattere di improvvisazione, di spontaneismo qualunquista, fatto di ricette troppo semplici rispetto alla complessità dei (veri) problemi che attanagliano il Paese, se è da un lato consono all’eccitazione degli animi già esasperati dalla crisi, potrebbe dall’altro rivelare un punto di debolezza. Chi ha a cuore l’idea di genuina uguaglianza tipica della sinistra (quella di ‘alternativa’), dovrà allora tenersi pronto a chiamare il ‘bluff’.

Non accadrà, probabilmente, nell’immediato futuro. I mutamenti culturali e sociali sono lenti. Comunque, particolari criticità saranno senz’altro, anche nell’immediato, qui da noi ineludibili. Mi riferisco alla continuazione delle politiche che la Commissione europea non manca di raccomandarci. Se i vincitori del 4 Marzo dovessero riuscire a costituire una compagine governativa, si troveranno di fronte i medesimi vincoli con cui, chi li ha preceduti, ha dovuto confrontarsi (senza, peraltro, discuterli). Le contraddizioni del sistema attuale non verranno risolte dai protagonisti della nuova fase (ora in corso) e il problema delle disuguaglianze sociali, oggi ‘distratto’ e ctonio, potrebbe in futuro erompere.

Frattanto, è d’obbligo la continuazione della traversata nel deserto della sinistra italiana. La missione (titanica) resta quella di riunificare il mondo del lavoro che è stato diviso in mille rivoli. La sinistra dovrà essere cosciente del fatto che il lavorio culturale (mirato a far sì che le ‘masse’ tornino a riconoscere le vere cause dei loro problemi) e il lavoro organizzativo ai quali dovrà attendere, saranno di necessità molto più intensi di quanto fino a non molto tempo fa era prevedibile. E’ una conclusione tautologica ma obbligata, se si vuole restare immuni da contaminazioni con le posizioni degli avversari. La vera sinistra (quella, ovvviamente, non liberista) dovrà cercare di riprendere il filo che potrà ricondurla alla connessione sentimentale con quello che è stato il suo popolo. Per riuscirci dovrà, naturalmente, essere in grado di concepire un’elaborazione politica aggiornata e di costruire un progetto collettivo capace di suscitare interesse e speranza. Ripetiamolo: le contraddizioni del sistema attuale non verranno risolte dai protagonisti della nuova fase, ora in corso. Perchè i veri mutamenti storici sono sempre promanati dall’autentico pensiero critico, inteso come disamina e diagnosi della struttura sociale.

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