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“Piano, mercato e problemi della transizione”, di Luciano Vasapollo

Trattato di critica delle politiche per il governo dell’economia

Piano, mercato e problemi della transizione

Metodi di analisi dei sistemi economici locali e settoriali

Luciano Vasapollo

 

Con la collaborazione di

Orlando Borrego, Efrain Echevarria,Rita Martufi

Edizioni Efesto, Marzo 2018

 

 

 

Introduzione

Rivoluzione è la convinzione profonda che non esiste potenza al mondo capace di sconfiggere la forza della verità e delle idee”
Fidel Castro

Quella di “transizione” è senza dubbio una nozione da recuperare e attualizzare oggi, concependola nella sua intrinseca pluralità: sono infatti diversi i processi di transizione, nei diversi contesti, con diversi rapporti di forza, con diverse modalità di presa e gestione del potere, con gradi diversi di socializzazione delle forze produttive. Partiamo innanzitutto dal ricordare in cosa si esplica la contraddizione marxiana fra sviluppo delle forze produttive e rapporti di produzione. Per forze produttive, Marx intende gli individui che lavorano e costituiscono la forza-lavoro, i mezzi di produzione e le conoscenze tecniche e scientifiche. I rapporti di produzione sono invece stabiliti nella sfera della produzione, come quell’insieme di rapporti che costituiscono “la struttura economica della società, ossia la base reale sulla quale si eleva una sovrastruttura giuridica e politica alla quale corrispondono forme determinate della coscienza sociale”[1]. La contraddizione fondamentale fra questi due aspetti si produce nella struttura economica della società, in quanto a forze di produzione che si rivoluzionano, creandosi e distruggendo, fanno da contraltare rapporti di produzione stabili, determinati dalla dialettica fra le classi e dalla loro continua lotta. Scrive Marx:

Ad un dato punto del loro sviluppo le forze produttive materiali della società entrano in contraddizione con i rapporti di produzione esistenti, cioè con i rapporti di proprietà. […] Questi rapporti, da forme di sviluppo delle forze produttive, si convertono in loro catene. E allora subentra un’epoca di rivoluzione sociale. Con il cambiamento della base economica si sconvolge più o meno rapidamente tutta la gigantesca sovrastruttura.”[2]

Lo sviluppo di nuove forme di organizzazione della produzione risponde proprio a questa necessità di “rimuovere l’ostacolo” che i rapporti di produzione costituiscono per lo sviluppo delle forze produttive. In tal modo, negli ultimi venticinque anni abbiamo assistito alla diffusione delle filiere produttive a carattere internazionale, ossia di una serie di operazioni di trasformazione che permettono di produrre beni e prodotti in forma diversa rispetto all’epoca fordista-taylorista, incentivando i settori più soggetti alla competizione globale e a maggiore contenuto di valore. La filiera si identifica come ciclo a carattere produttivo di tipo spazio-temporale che, in un’ottica internazionale, riesce a valorizzarsi nei contesti dove più deboli sono le contraddizioni fra Capitale e Lavoro. Le imprese tendono ad assumere una struttura integrata sia nel campo della produzione che in quello dei capitali: la cosiddetta “globalizzazione finanziaria” incide così sulla vecchia struttura organica dell’impresa, aprendo all’esternalizzazione di varie funzioni e fasi dell’intero processo lavorativo, delegate a soggetti giuridicamente autonomi, ma economicamente dipendenti e controllati dall’impresa. La filiera ha inoltre il ruolo di raccogliere i capitali minori, attraverso una centralizzazione tendente al monopolio che risponde a una logica pienamente imperialistica. Grazie alla filiera, l’impresa madre riesce a sfruttare i rapporti di forza fra i vari capitali, assorbendo peraltro parte del salario creato lungo tutta la catena e aumentando così l’estrazione di plusvalore.

A una stessa logica appartiene l’organizzazione della produzione in distretti industriali a carattere internazionale, ossia raggruppamenti di zona nazionali o transnazionali di aziende integrate tra loro in filiere produttive. All’interno di questi distretti, totalmente slegati dalle logiche nazionali, si assiste a una forte gerarchizzazione verticale delle imprese per consentire una competitività basata sullo sfruttamento delle economie esterne di scala. Solitamente, la competitività è condizionata dalle relazioni strategiche che riguardano l’area commerciale esterna al distretto, avente carattere transnazionale. In questo caso, i distretti non sono che una declinazione dell’organizzazione in filiera: il “centro della filiera” assume un ruolo preponderante, sia perché qui si trovano le fasi del ciclo produttivo a più alto valore aggiunto, sia perché dal centro provengono le spinte verso la particolare organizzazione della produzione nei singoli distretti.

Le logiche imperialistiche proprie della situazione attuale non riguardano tuttavia solamente i processi di delocalizzazione, esternalizzazione e riorganizzazione produttiva verso le colonie interne e le aree a minore sfruttamento capitalistico. Come ultimo tentativo di sopravvivere alla crisi sistemica, le imprese sfruttano l’enorme massa di forza lavoro immigrata proveniente da quelle una volta definibili come “periferie dell’Impero”. La loro occupazione all’interno dei poli imperialistici, al centro delle filiere produttive consente di creare quella disuguaglianza fra classi e all’interno della stessa classe che è il presupposto dell’accumulazione capitalistica. La riorganizzazione delle forze produttive si espleta in ultima battuta nell’impiego di lavoratori immigrati a più basso salario, finalizzato all’abbassamento del salario dei concorrenti autoctoni che consente un aumento del saggio di sfruttamento e del saggio di profitto. Al tempo stesso, i capitali transnazionali richiedono in misura via via crescente un numero sempre più elevato di forza lavoro immigrata e al tempo stesso specializzata. Il caso della Germania, Paese egemone all’interno dell’attuale polo imperialista europeo, è esemplificativo di quanto fin qui sostenuto: in tempi recenti abbiamo assistito a come le frontiere del Paese si siano aperte per accogliere i rifugiati siriani, altamente specializzati e spesso in possesso di una laurea o di un titolo di istruzione superiore, chiudendosi quando si trattava di accogliere immigrati provenienti dal Nord Africa e dall’Africa Sub-Sahariana, poco istruiti e specializzati[3]. Non c’è da stupirsene; nella fase attuale i capitali transnazionali non necessitano di forza lavoro a bassa specializzazione, in quanto i salari sono già spinti verso il basso, ma di forza lavoro specializzata e a basso salario, da cui estrarre valore, sfruttando la debolezza della contraddizione fra forze produttive e rapporti di produzione. Queste politiche dell’immigrazione, utilizzate per rilanciare l’accumulazione, hanno inoltre il doppio vantaggio di acuire i conflitti all’interno della classe, generando una demonizzazione dell’immigrato che indebolisce la lotta di classe e le condizioni soggettive necessari alla rivoluzione sociale.

È ovvio che il primo impegno oggi per le forze popolari sociali, del mondo del lavoro, politiche democratiche e rivoluzionarie e progressiste accompagnate da intellettuali e mezzi di comunicazione democratici, non sarà quello di sviluppare una battaglia di potere semplicemente sostitutivo e su interessi similari, ma di procedere velocemente su un terreno di potere alternativo. Ma per esempio in America Latina sembrerebbe che oggi i governi e le forze rivoluzionarie e progressiste siano in seria difficoltà. Quindi quel po’ di soggettività organizzata rivoluzionaria va verso la sconfitta? Noi non crediamo.

A un livello molto più generale possiamo affermare che la saturazione dei mercati nazionali ha richiesto una nuova fase di mondializzazione dell’economia capitalista in senso imperialista. La nuova economia ha la costante e continua necessità di valorizzare la catena del capitale; ciò alla lunga non può che produrre crisi e conflitti interimperialistici. Gli anni recenti ci raccontano di una pace momentanea, ma guerre militari e guerre economiche vanno moltiplicandosi ovunque, specie nelle periferie dei poli imperiali. In una fase come quella attuale, i poli imperialistici trovano necessario rilanciare il ciclo di accumulazione ricorrendo al keynesismo militare, espandendo la loro spesa per armamenti. L’empasse che si è creata negli ultimi decenni per il controllo strategico dell’area euroasiatica è destinata a finire. A dire il vero, una prima sperimentazione diretta per l’inserimento nel “cuore” dell’Eurasia è già stata portata avanti dagli USA in Afghanistan; l’esercito statunitense si è infatti adoperato da subito per costruire basi militari nell’area, con il doppio scopo di controllare la Russia dai territori dell’ex URSS e di controllare la “nuova via” del petrolio e del gas. Da dieci anni a questa parte si sono tuttavia creati nuovi interessi nell’area, non ultimi quelli arabi, non più disposti ad accettare un ruolo da comprimari nella competizione globale.

Come abbiamo detto, la crisi ha accentuato l’emergere e lo scontro di differenti poli imperialisti, facendo emergere i distinti interessi e le contraddizioni finora celate fra Stati Uniti e Unione Europea. Posizioni che facciano coincidere anti-imperialismo e anti-americanismo sono ormai ampiamente sorpassate da oltre trenta anni di evoluzione storica degli assetti capitalistici; i fatti recenti sembrano tuttavia smentire anche la visione teorica di uno scontro che coinvolga i soli poli europeo e statunitense. Appare in definitiva necessario analizzare le complesse fratture createsi dalla perdita di egemonia della vecchia guida americana, in aree finora poco considerate da un marxismo che ha spesso peccato di euro-centrismo.

Gramsci sosteneva che “la crisi consiste appunto nel fatto che il vecchio muore e il nuovo non può nascere”[4]. Nell’analizzare i conflitti interimperialistici e la loro evoluzione storica, nonché per dare una lettura convincente della fase, si riscontra la necessità di guardare al divenire storico fatto di rapporti di forza di oggettività e di soggetti rivoluzionari e a volte di giganti della storia, e non solo al vecchio capitale, ma anche al nuovo, al capitale a più alto contenuto innovativo.

Arrivato un certo momento storico, giustamente riconosciuto ora su scala universale dagli stessi popoli sottomessi e sfruttati dell’America Latina, nacque un leader nell’isola di Cuba, il cui nome era Fidel Castro Ruz che, essendo un fedele seguace dell’Apostolo dell’indipendenza della sua patria, José Martí, imbracciò le armi contro la tirannia imposta a Cuba fino al definitivo trionfo della Rivoluzione da lui capeggiata nel gennaio del 1959.

Riteniamo quindi che la migliore introduzione per questo nostro lavoro siano le “Riflessioni” scritte e pubblicate da Fidel nel 2013, quando ricordava l’importantissimo evento storico dell’assalto alla Caserma Moncada:

Cari amici,

venerdì 26 luglio sarà il 60 anniversario dell’assalto al reggimento del Moncada a Santiago di Cuba e alla Caserma Carlos Manuel de Céspedes a Bayamo. So che molte delegazioni vogliono venire a Cuba per condividere con noi questa data, in cui il nostro piccolo e sfruttato Paese, ha deciso di continuare la lotta non conclusa per l’indipendenza della Patria.

Già allora, il nostro Movimento era fortemente ispirato dalle nuove idee che si discutevano nel mondo.

Niente si ripete mai esattamente uguale nella storia. Simón Bolívar, el libertador dell’America, un giorno manifestò il desiderio di creare in America Latina la più grande e la più giusta delle nazioni, con capitale nell’istmo di Panama. Creatore instancabile e visionario, più tardi, asserì che gli Stati Uniti avrebbero riempito l’America di miseria in nome della libertà.

Cuba, come l’America del Sud, il Centro America e il Messico, si è vista saccheggiare, con il sangue e con il fuoco, il proprio territorio da parte dell’insaziabile vicino del Nord che si è impossessato del suo oro, del suo petrolio, dei suoi magnifici boschi, delle sue terre migliori e delle sue più ricche ed abbondanti acque peschiere.

Purtroppo, non sarò con voi a Santiago de Cuba, poiché devo rispettare l’ovvia resistenza dei guardiani della mia salute. Però, posso scrivere e trasmettere le miei idee e i ricordi, che saranno sempre utili, almeno per chi scrive.

Pochi giorni fa, mentre osservavo – dal sedile posteriore della macchina a doppia trazione in cui mi trovavo – quello che era un vecchio centro genetico per la produzione di latte, ho letto una brevissima sintesi, di un solo paragrafo, del discorso pronunciato il Primo Maggio del 2000, circa 13 anni fa.

Il tempo cancellerà quelle parole con lettere nere su una parete imbiancata con la calce.

Rivoluzione […] significa lottare con audacia, intelligenza e realismo; significa non mentire mai né violare i principi etici; è la convinzione profonda che non esista potenza al mondo capace di sconfiggere la forza della verità e delle idee. Rivoluzione è unità, è indipendenza, è lotta per i nostri sogni di giustizia per Cuba e per il mondo, ossia la base del nostro patriottismo, del nostro socialismo e del nostro internazionalismo.

Oggi celebriamo i 60 anni da quel fatto avvenuto nel 1953, senza dubbio coraggioso e dimostrativo della capacità del nostro popolo di creare e affrontare da zero qualsiasi evenienza. L’esperienza successiva, ci ha insegnato che sarebbe stato più sicuro cominciare la lotta dalle montagne; aspetto che avevamo pianificato se, preso il Moncada, non saremmo riusciti a resistere alla controffensiva militare della tirannia con le armi che avremmo preso a Santiago di Cuba, più che sufficienti per vincere quella contesa e molto più rapidamente rispetto al tempo speso dopo.

I 160 uomini scelti per l’operazione furono selezionati tra i 1.200 di cui disponevamo, addestrati tra i giovani delle vecchie province di La Habana e dell’Est di Pinar del Río, iscritti a un partito radicale della nazione cubana, in cui era ancora presente lo spirito piccolo borghese inculcato dai padroni stranieri e dai loro mezzi di informazione – in maggior o minore misura.

Io avevo avuto il privilegio di studiare e già quando ero all’università acquisii coscienza politica partendo da zero. Non c’è bisogno di ripetere quello che ho già detto altre volte, ma la prima cellula marxista del Movimento la creai io con Abél Santamaría e Jesús Montané, utilizzando una biografia di Karl Marx scritta da Franz Mehring.

Il Partito Comunista, formato da persone serie ed oneste di Cuba, sopportava le pene del Movimento Comunista Internazionale. La Rivoluzione iniziata il 26 luglio, raccolse le esperienze della nostra storia, lo spirito altruista e combattivo della classe operaia, l’intelligenza e lo spirito creativo dei nostri scrittori e artisti e le capacità intellettive del nostro personale scientifico, che è cresciuto rapidamente. Niente oggi si mostra come era ieri. Noi stessi, che il fato ci ha designato dirigenti, dobbiamo vergognarci dell’ignoranza che mostrano ancora le nostre conoscenze. Il giorno in cui non apprendiamo qualcosa di nuovo, è un giorno perso.

L’essere umano è il prodotto delle leggi rigorose che reggono la vita. Da quando? Da tempi immemori. Fino a quando? Fino all’infinito. Le risposte anche lo sono.

Per tale ragione, anche se non lo condivido, rispetto il diritto degli esseri umani a cercare risposte divine, domande che possono essere espresse sempre, quando queste non tendano a giustificare l’odio e non la solidarietà all’interno della nostra stessa specie, errore in cui siamo caduti in molti in un momento o nell’altro della storia.

Quel temerario tentativo non fu assolutamente un atto improvvisato; ammetto, che a partire dall’esperienza accumulata sarebbe stato molto più realista e più sicuro iniziare quella lotta dalle montagne della Sierra Maestra. Con i 18 fucili che riuscimmo a riunire dopo il durissimo scontro sofferto a Alegría de Pío, un po’ per inesperienza e senza compiere le istruzioni ricevute dal Movimento a Cuba e anche per la nostra eccessiva fiducia nel potere del fuoco dei membri della spedizione armata, con circa 50 fucili con mirino telescopico e nel loro addestramento nel tiro. Anche se sempre attenti ai voli radenti degli aerei da combattimento del nemico, abbiamo trascurato la vigilanza a terra e ci hanno attaccato in un boschetto a pochi metri da dove eravamo. Il nemico non ci sorprese mai più in quel modo.

Nei successivi combattimenti fu sempre il contrario e, durante le azioni finali, con meno di 300 combattenti, in 70 giorni di lotta incessante abbiamo sconfitto l’offensiva di più di 10 mila uomini delle forze d’élites. Nei combattimenti dei due anni che seguirono, gli aerei da bombardamento e i caccia del nemico riuscivano ad arrivare sopra di noi in soli 20 minuti. Ma non ci fu nemmeno un combattente morto in quella dura lotta. Tutto cambiò nei decenni successivi con la nuova tecnologia sviluppata dagli Stati Uniti, insieme alle forze reazionarie dell’America Latina e del mondo, alleate tra loro. I popoli troveranno sempre una modalità adeguata di lotta.

Voi vi troverete lì, nello scenario del primo combattimento.

Quando, dopo i fatti che avvennero il 26 luglio, si avvicinò l’ultima macchina e mi fece montare, mi sedetti nella parte posteriore del veicolo pieno di persone, un combattente mi si avvicinò sulla destra; scesi e gli lasciai il posto; la macchina partì e mi lasciò solo. Sino al momento in cui mi raccolsero per la prima volta nel mezzo della strada con un fucile semiautomatico Browning e le cartucce calibro 12 a pallini, cercavo di impedire che due uomini usassero una mitragliatrice calibro 50 dal tetto di uno dei piani dell’edificio centrale del comando del grande campo militare; era l’unica cosa che potevo vedere della sparatoria generalizzata che si sentiva.

I pochi compagni che, insieme a Ramiro Valdés erano entrati nella prima casetta, svegliarono i soldati che dormivano lì, e che, a quanto mi dissero dopo, erano in mutande.

Non riuscii a parlare con Abel né con nessun altro del suo gruppo che, in cima ad un edificio vicino all’ospedale civile, dominava la parte posteriore dei dormitori. Io ritenevo fosse assolutamente ovvio per lui ciò che stava accadendo. Forse pensava che fossi morto.

Raúl, che stava nel gruppo di Léster Rodríguez, vedeva chiaramente ciò che stava avvenendo e pensava che fossimo morti. Quando il capo di quella squadra decise di scendere, prese l’ascensore e arrivò in basso, strappò il fucile ad un sergente che non fece resistenza, come neanche i soldati che erano con lui. Prese il comando del gruppo e organizzò l’uscita dall’edificio.

In quel momento, la mia preoccupazione principale era il gruppo di compagni che avrebbe dovuto occupare la Caserma di Bayamo e non aveva alcuna nostra notizia. Io avevo ancora abbastanza munizioni e pensavo di vendere cara la pelle lottando contro i soldati della tirannia.

All’improvviso apparve un’altra macchina: mi stava cercando; e ebbi di nuovo la speranza di aiutare i miei compagni di Bayamo con un’azione nella Caserma del Caney.

C’erano molte macchine che aspettavano alla fine della strada dove io pensavo di prendere la giusta direzione verso quel punto. Però proprio il compagno che guidava il veicolo che venne a cercarmi non prese quella direzione, ma seguì la corsa verso la casa da cui eravamo partiti all’alba; lì si cambiò i vestiti. Io cambiai arma e presi un fucile automatico calibro 22 con punta d’acciaio e una maggior portata di quello calibro 12 a pallini. Mi cambiai i vestiti e a pochi passi superammo un filo spinato con circa 15 uomini armati; uno di loro era ferito. Altri lasciarono le loro armi e andarono verso i veicoli cercando una via d’uscita. Con me c’erano Jesús Montané e altri capi. In quel caldo pomeriggio, camminammo per ore nella parte nord della Grande Piedra, un’alta montagna che abbiamo cercato di passare per dirigerci verso il Realengo 18, un ripido sentiero del quale Pablo de la Torriente, eccellente scrittore rivoluzionario, scrisse che lì un uomo con un fucile poteva resistere ad un esercito. Pablo morì combattendo nella Guerra Civile Spagnola, nella quale circa mille cubani appoggiarono questo popolo contro il fascismo. Lo avevo letto, ma non riuscii mai a parlare con lui, perché era già andato in Spagna quando io frequentavo il liceo.

Non riuscimmo più a proseguire per quel sentiero e rimanemmo nella parte sud della cordigliera. La zona montuosa che preferivo per la lotta guerrigliera si trovava tra il santuario del Cobre e il Pilón; da lì, pianificai di passare dall’altra parte della baia di Santiago di Cuba attraverso un punto che conoscevo da quando studiavo al Collegio Dolores, nella città dove voi vi riunirete. Gran parte del nostro piccolissimo gruppo era affamatissimo e stanchissimo. Era stato già evacuato un ferito e Jesús Montané riusciva a malapena a tenersi in piedi. Altri due, con meno responsabilità ma in condizioni migliori, marciarono con me verso ovest rispetto a quelle montagne. Però i fatti più drammatici e meno speranzosi dovevano ancora arrivare. Nel pomeriggio, demmo l’istruzione al resto dei compagni di nascondere le loro armi nel bosco e di andare, quella stessa notte, nella comoda casa di un contadino che viveva ai lati della strada che andava da Santiago de Cuba alla spiaggia; quel contadino aveva del bestiame e poteva comunicare telefonicamente con la città. Ovviamente, furono intercettati dall’esercito. Il nemico conosceva bene le zone limitrofe a dove noi ci muovevamo. Prima dell’alba, una squadra di militari d’alto rango fortemente armati ci svegliò con la punta dei loro fucili. Le vene del collo e del volto di quei soldati ben rifocillati, pulsavano per il nervosismo. Ci avevano dati per morti. Comunque non mi avevano riconosciuto. Quando mi legarono e mi chiesero il nome, io, ironicamente, gli diedi quello che usavamo per fare scherzi della peggior specie. Non potevo capire come non si fossero resi conto della verità. Uno di loro, con il viso trasfigurato, vociferava che loro erano i difensori della patria. Io, con voce ferma, gli dissi che erano degli oppressori, come i soldati spagnoli durante la lotta del nostro popolo per l’indipendenza.

Il capo della pattuglia era un uomo di colore che riusciva a malapena a tenere il comando. “Non sparate!”, continuava ad urlare ai soldati.

Con voce più bassa, ripeteva: “Le idee non si uccidono, le idee non si uccidono”. In una di quelle occasioni si avvicinò a me e sempre con voce basse, disse: “Voi siete davvero molto coraggiosi, ragazzi”. Ascoltando quelle parole, replicai: “Tenente, io sono Fidel Castro”, e lui rispose: “Non lo dica a nessuno”. E di nuovo il caso si è imposto con tutta la sua forza.

Il tenente non era un ufficiale del reggimento, aveva altre responsabilità legali nella regione orientale.

In seguito, però avvennero i fatti più importanti.

Ai compagni che dovevano smobilitare ordinai di nascondere le armi, che dopo le avremmo custoditi fino al punto in cui dovevano mettersi in contatto con le persone vicine al Vescovo.

L’opinione pubblica di Santiago de Cuba aveva reagito energicamente agli orribili crimini commessi dall’esercito di Batista contro i rivoluzionari.

Monsignor Pérez Serantes, Vescovo di Santiago de Cuba, aveva ottenuto alcune garanzie per il rispetto della vita dei rivoluzionari prigionieri. A Sarría, comunque, mancava ancora una battaglia contro il comando del reggimento che questa volta aveva delegato lo scagnozzo per la carneficina imposta dal capo militare di Santiago de Cuba che gli ordinò di spostare i detenuti al Moncada.

Per la prima volta, nella nostra Patria i giovani avevano intrapreso una lotta di quel tipo contro ciò che fu fino al primo gennaio del 1959 una colonia yankee.

Arrivati a casa del vicino sulla stretta strada che unisce la città con la spiaggia di Siboney, ci aspettava un piccolo camion. Sarría mi fece sedere tra lui e il guidatore. Cento metri più avanti incrociammo il veicolo del comandante Chaumont che richiese la consegna del prigioniero. Come in un film di fantascienza, il tenente discusse e affermò che non avrebbe consegnato il prigioniero, ma che lo porterà al Vivac di Santiago de Cuba e non al reggimento. Ecco come sono andati i fatti.

È impossibile, in questo breve scritto, esprimere ai nostri illustri ospiti le idee che suscitano in me gli incredibili tempi che stiamo vivendo.

Non riesco a pensare tra 10 anni, nel 70 anniversario, di scrivere un libro. Sfortunatamente, nessuno può garantire che ci sarà un 70, un 80, un 90 o un centesimo anniversario del Moncada. Durante la Conferenza Internazionale sull’Ambiente, a Rio de Janeiro, dissi che c’era una specie a rischio d’estinzione: l’uomo. Però allora credevo che fosse una questione di secoli. Ora non sono più tanto ottimista. Ad ogni modo, nulla mi preoccupa; la vita continuerà nell’insormontabile dimensione dello spazio e del tempo.

Nel frattempo, voglio solo dire una cosa, visto che ogni giorno spunta un nuovo dì per gli abitanti di Cuba e del mondo:

I leaders di qualsiasi delle 200 e più nazioni, grandi e piccole, rivoluzionarie o meno, devono vivere. È così difficile creare giustizia e benessere, che i leaders di ogni paese devono avere autorità, altrimenti regnerà il caos.

Pochi giorni fa hanno calunniato la nostra Rivoluzione, cercando di presentare il Capo di Stato e di Governo di Cuba, ingannando l’Organizzazione delle Nazioni Unite e altri Capi di Stato, imputandogli una doppia condotta.

Vi assicuro che anche se per anni ci siamo rifiutati di sottoscrivere degli accordi sulla proibizione delle armi nucleari perché non eravamo d’accordo nel concedere queste prerogative a nessuno Stato, non abbiamo mai cercato di fabbricare tali armi.

Siamo contrari a tutte le armi nucleari. Per nessuna ragione, grande o piccola, ci si deve dotare di questo strumento di sterminio, capace di porre fine all’esistenza dell’uomo sul Pianeta. Chiunque possegga un’arma di questi tipo, dispone di tutti gli strumenti per una catastrofe. Il terrore della morte non ha mai impedito la guerra in nessuna parte del mondo. Oggi non solo le armi nucleari, ma anche il cambio climatico è il pericolo più imminente che in meno di un secolo può rendere impossibile la sopravvivenza della specie umana.

Un leader latinoamericano e mondiale, a cui oggi voglio rendere un omaggio speciale per ciò che ha fatto a favore del nostro e altri popoli dei Caraibi e del mondo, è Hugo Chávez Frías; oggi lui sarebbe qui con noi se non fosse caduto nella sua coraggiosa battaglia per la vita; lui, come noi, non ha lottato per vivere, ha vissuto per lottare.

Fidel Castro Ruz

26 luglio 2013

Riappropriarsi del senso della storia è una necessità che ha di fronte non solo e non tanto l’intellettuale, preso singolarmente, che si approccia ai problemi filosofici, storici, politici, ma anche per quello che ci interessa l’intellettuale collettivo, ovvero l’organizzazione che si ponga come obiettivo la trasformazione radicale dei rapporti sociali esistenti.

Senza il senso della storia, infatti, è facile cedere alle volgarizzazioni ideologiche del mainstream, per cui la storia sarebbe finita con il crollo dell’Unione Sovietica e il trionfo dell’unico mondo possibile, il capitalismo; e non si riesce a leggere adeguatamente e comprendere le esperienze concrete di fuoriuscita dal modo di produzione capitalistico e di sperimentazione del Socialismo del XXI secolo, che si sono sviluppate e proseguono il loro percorso pieno di difficoltà, prima di tutto in America Latina.

Per esempio l’attacco contro la rivoluzione bolivariana chavista del Venezuela è iniziato già con la presa del potere di Chavez, si è in parte concretizzato con il golpe del 2002 e ha visto le mille forme attuate in maniera ancora più pesante dopo la morte del Comandante e l’arrivo alla Presidenza di Nicolas Maduro.

Guerriglia urbana da parte di mercenari fascisti dell’oligarchia, terrorismo massmediatico e psicologico che rendono “accettabile” la guerra economica, monetaria, finanziaria e guerra commerciale incentrata sull’accaparramento ostacolando la distribuzione dei beni di prima necessità. Tali forme della guerra sono semplicemente le anticipazioni per la preparazione di un golpe militare o parlamentare che si vuole sviluppare in Venezuela per abbattere il governo popolare rivoluzionario.

Anche qui gli interessi degli Stati Uniti sono evidenti poiché riassumere il controllo del Venezuela non significa solo avere una più tranquilla gestione del petrolio, ma si tratta di una vera e propria strategia di riposizionamento dell’imperialismo USA contro i governi rivoluzionari e progressisti dell’America Latina senza ricorre alle ormai anacronistiche dittature miliari. In Venezuela come in Brasile come in Argentina si segue la logica dei golpe bianchi o parlamentari già applicati con successo in Honduras e Paraguay e che oggi puntano il dito in maniera feroce contro i governi dei paesi dell’ALBA.

L’impeachment della Presidente Dilma Roussef assume così la forma di un vero e proprio Golpe Bianco attraverso una resa dei conti della borghesia legata agli interessi industriali e commerciali statunitensi e alla stessa strategia geopolitica dell’imperialismo USA; il fine reale è quello di demolire qualsiasi forma di protezionismo commerciale voluto dai governi del PT, il loro fondamentale apporto ai processi di integrazione latino americana più a carattere antimperialista USA (come Alba, Celac e Unasur) e portando allo stesso tempo un duro attacco all’area dei BRICS che in questi ultimi anni hanno sviluppato politiche economiche nazionali e internazionali e politiche commerciali che hanno fortemente svantaggiato le multinazionali americane.

Sicuramente in questo hanno giocato fortemente un ruolo non tanto e non solo le politiche sociali del governo di Dilma, a volte seriamente deficitarie, ma soprattutto le politiche economiche internazionali legate in particolare all’energetico e alla new technology (in particolare gli accordi Petrobas, con PDVSA venezuelana, le ricerche petrolifere e del gasi intorno Cuba e sulle coste venezuelane fino alla progettazione di porti, gasdotti e oleodotti con sedi preferenziali su Cuba e Venezuela).

In pratica la potenza emergente Brasile, basata su un nuovo modello di sviluppo a connotati capitalistici di Stato a carattere progressista ma con forti mire espansionistiche che limitano il potere economico a matrice USA anche in paesi storicamente alleati ( ad esempio Perù e Colombia), ha influenzato ancor più della contrapposta matrice ideologica la borghesia nazionale, l’imperialismo USA e le multinazionali a favorire il ritorno di un liberismo sfrenato in Brasile. Si è così facilitata anche una più tranquilla espansione militare USA in Sud America con basi e strutture a fini di guerra che accompagnano le diversificate forme di guerra economica, monetaria e commerciale nell’area.

Di fatto contro Dilma si è scatenato un vero Golpe Bianco parlamentare giudiziario attraverso una guerra mediatica nella quale l’obiettivo era quello di screditare a livello nazionale e internazionale Dilma e il suo governo, ma in cui è chiaro a tutti che l’aggiustamento fiscale imposto dalla borghesia è né più e né meno connesso ad alcuni reati compiuti da moltissimi governatori brasiliani che non sono stati mai perseguiti dalla legge.

Per ottenere questo risultato è assolutamente necessario che le forze della borghesia nazionale e transazionale controllino in Brasile tutti i poteri: l’esecutivo, il giudiziario e il legislativo e quello massmediatico che deve demolire qualsiasi idea altra rispetto al neoliberismo, favorendo così l’accettazione di massa della ricaduta dei costi della crisi tagliando salari, posti di lavoro e Stato sociale ai lavoratori e ai poveri.

Il ritorno quindi alle dure e continue battaglie di piazza deve puntare sull’acquisizione di fette di potere politico attraverso la riappropriazione di risorse pubbliche e con la richiesta esplicita di una forte tassazione dei capitali stranieri, dei capitali finanziari e degli stessi capitali produttivi che devono favorire invece investimenti sociali in infrastrutture, nella salute pubblica, l’istruzione pubblica, il servizio pensionistico e il lavoro a pieno salario e pieno diritto.

La delegittimazione del governo lobbista non eletto dal popolo deve passare assolutamente attraverso la diretta incriminazione per corruzione e abuso di potere dell’attuale Presidente e suoi ministri e dei dirigenti dei vari partiti dell’oligarchia.

È necessario allora per il movimento di classe partire dal riconoscimento dei propri errori e sviluppare una battaglia contro il Golpe che ponga però al centro la difesa dei diritti sociali e del lavoro, la difesa dei beni ambientali contrapponendo alle privatizzazioni che propone il governo imposto dalle lobby processi di nazionalizzazione, statalizzazione e socializzazione, a partire dall’industria del petrolio, del gas, dalle terre, acqua e tecnologie ecosostenibili e della biodiversità per rilanciare un piano di accumulazione se non immediatamente a carattere socialista per lo meno a forte impatto di redistribuzione sociale.

Questo libro avrebbe potuto avere come titolo “Sfide e prospettive della transizione socialista a partire da Nuestra America”, anche in maniera diversamente articolata.

Chi ragiona per modelli astratti, anche e soprattutto nella sinistra cosiddetta radicale ma più propriamente eurocentrica, spesso si è trovato in questi anni spiazzato di fronte ai processi in corso in Venezuela, Bolivia, Ecuador, oltre che nel giudizio sull’evoluzione del processo rivoluzionario cubano, non raramente letto come deviazione dall’originario modello socialista e ormai irrimediabilmente contaminato con forme capitalistiche.

Non comprendono, costoro, che il socialismo non è un modello astratto che si applica alla realtà concreta; all’opposto, esso rappresenta una intera fase storica di superamento del modo di produzione capitalistico, che avviene non su una linea retta di inarrestabile progresso ma tramite momenti di avanzata e di ritirata.

È in contesti concreti, là dove esiste una soggettività appunto dotata di tale senso della storia e del senso della strategia e della tattica, in grado di sviluppare un’organizzazione reale delle masse subalterne, che nascono e si sviluppano esperienze di transizione, con caratteristiche e mezzi che non sono sempre gli stessi e che non vanno appunto letti tramite griglie ideologiche ma per il potenziale oggettivo di rottura che essi rappresentano nei confronti della competizione interimperialistica globale.

L’obiettivo strategico, quindi, deve essere la trasformazione radicale nel superamento del modo di produzione capitalistico; ma sul piano tattico ci sono i rapporti di forza che influenzano in modo decisivo i processi concreti. Centrale è il grado di controllo che la soggettività rivoluzionaria è in grado di mantenere sul processo.

Nella Critica al programma di Gotha[5], un testo probabilmente sottovalutato, ma quello in cui Marx dimostra forse meglio la sua grande padronanza del rapporto tra tattica e strategia, il rivoluzionario di Treviri parla di transizione al socialismo come fase storica che si interpone tra la società capitalistica e quella comunistica, a partire dall’esaurimento della capacità del capitalismo di sviluppare le forze produttive e là dove esiste la soggettività capace di gestire tale processo.

Calandosi più specificamente nella realtà, è proprio la piena internazionalizzazione del modo di produzione capitalistico ad aver segnato il declino della guida unipolare statunitense, con un impero entrato in crisi proprio per l’incompatibilità con alcune dinamiche dell’espansione internazionale.

La prima contraddizione è fra l’impero USA in espansione e la “repubblica” in declino, con la conseguente difficoltà di trasferire ricchezza, redditi e forza lavoro alla costruzione imperiale, in un quadro di generale declino sociale, con la fine della cd. american way. La seconda e più permeante contraddizione è fra l’impero militare in espansione e l’incapacità di estrarre profitti dalle regioni recentemente colonizzate, nonostante i redditi provenienti dal petrolio.

Complessivamente, non è facile immaginare dove ci porterà questo processo, ma una cosa è certa: la tendenza dei capitalismi al monopolio genera crisi e conflitti non solo fra i capitali di diversi poli imperialistici, ma anche all’interno degli stessi e in riferimento a singole aree geografiche e particolari contesti istituzionali.

Appare evidente la necessità per le forze popolari, progressiste, rivoluzionarie di porsi velocemente e senza indecisioni sul terreno della costruzione di un potere alternativo.

Gli ultimi anni sono stati testimoni di una prolifica produzione letteraria che riguarda sia le nuove forme di schiavitù generate dal capitalismo e dagli attuali dilemmi davanti a cui si trova, nei suoi sforzi di riconversione/attualizzazione, sia i problemi o le sfide che stanno affrontando le sinistre o le ipotesi di cambiamento politico e culturale – chiamate generalmente post-neoliberali – in vari paesi in particolare in America Latina.

Diversi spazi di dibattito si sono aperti anche per riflettere sul presente, per analizzare il carattere delle vie d’uscita dalle crisi finanziarie, sul futuro delle istituzioni democratiche, sulla presunta scomparsa delle sinistre e delle destre e delle nuove concezioni della politica, sull’etica della democrazia e della gestione pubblica, o sulle nuove forme della lotta di classe che sta dietro alle riformulazioni strutturali del capitalismo attuale, ai terrorismi, ai radicalismi o conservatorismi religiosi, e/o alla moltitudine di migranti e rifugiati, tra le altre “nuove” questioni riemergenti, principalmente in Europa, ma anche a livello globale.

Unitamente al problema della proprietà dei mezzi di produzione, le dinamiche imperialistiche non consentono di fatto ai popoli delle aree sottoposte a dominio di raggiungere uno sviluppo autodeterminato e di godere degli innegabili vantaggi del progresso tecnologico, o perché la tecnologia è del tutto assente o perché questi vantaggi non arrivano all’intera collettività. Il problema “tecnologico” e del conseguente sottosviluppo è così riconducibile tanto alla sfera della produzione quanto a quella della circolazione. Nella sfera della circolazione, la dipendenza è creata dallo scambio ineguale: merci ad alta composizione organica di capitale prodotte nei Paesi sviluppati vengono scambiate con merci ad alta intensità di lavoro e a bassa specializzazione provenienti dai Paesi sottosviluppati.

Un esempio lampante di scambio ineguale è dato dalla storia recente del Medioriente; in quest’area i monopoli estrattivi occidentali – in particolare nel settore petrolifero- sono stati effettivamente interessati a frenare lo sviluppo dei paesi dipendenti, poiché questo avrebbe richiesto l’uso delle stesse materie prime, necessarie per le industrie nascenti. Politicamente, tale situazione si è tradotta in un appoggio dei monopoli occidentali alle forme di governo più reazionarie e totalitarie con la creazione e l’utilizzo a fini destabilizzanti da parte degli imperialismi per esempio del terrorismo ISIS. I media embedded spacciano il terrorismo dell’ISIS come mero fondamentalismo islamico, invocando spesso lo scenario della “guerra di religione”, mondo cristiano contro mondo islamico. Da marxista, l’unico “noi contro loro” che ammetto passa per la contrapposizione Capitale-Lavoro, nel conflitto permanente fra sfruttati e sfruttatori. Ad ogni modo, il vero problema rimane quello di smontare la narrazione della guerra etnica o di religione, scendendo alla radice dello scontro che, come sempre, nasconde enormi interessi politico-economici. Il fondamentalismo contemporaneo non nasce dal nulla, ma va inquadrato come uno strumento dell’imperialismo, tanto nell’aspetto ideologico quanto nel ruolo giocato praticamente nell’area mediorientale.

C’è chi ha parlato dell’ISIS come di una riproposizione di Al Qaeda quindici anni dopo l’attentato delle Torri Gemelle. In entrambi i casi si tratta di strumenti nelle mani di un polo imperialista, ma a distanza di quindici anni la situazione è mutata radicalmente. Dopo l’11 settembre, la “guerra preventiva permanente al terrorismo” è stata in realtà una guerra del gas e del petrolio finalizzata al rifornimento energetico statunitense. In quest’ottica, Al Qaeda si configurò ai tempi come uno strumento nelle mani delle élites statunitensi: l’associazione terroristica, infatti, costituì il pretesto per occupare militarmente il territorio afgano e in particolare le zone in cui erano previsti i passaggi dei gasdotti e oleodotti che avrebbero consentito di portare il gas del Turkmenistan e il petrolio dell’Uzbekistan fino a Karachi, porto funzionale per raggiungere l’Occidente.

Nella situazione attuale, l’ISIS è invece uno strumento decisamente poco funzionale agli interessi statunitensi, configurandosi piuttosto come il braccio armato e spietato delle petro-monarchie del Golfo. L’ISIS svolge un ruolo di rottura non solo sparigliando i piani americani e russi in Siria e Iraq, ma seminando terrore anche nel Centro dell’impero europeo, attraverso i tristemente noti attentati terroristici che non fanno che creare odio razziale e disgregazione sociale nelle città europee e in particolare nelle periferie cittadine.

Non va inoltre dimenticato come l’ISIS abbia un ruolo fondamentale nel contrabbando di petrolio verso la Turchia; nei principali centri di contrabbando (Manbij, Al Bab, Al Qaim), l’ISIS vende ad Ankara barili di petrolio ben al di sotto dei prezzi tanto del WTI statunitense quanto dell’europeo BRENT. Secondo gli analisti, il contrabbando avrebbe costituito uno dei principali fattori del crollo del prezzo del petrolio, riducendo fortemente le entrate e le esportazioni del principale fornitore europeo, ossia la Russia.

In questo senso appare chiaro come il terrorismo targato ISIS abbia costituito negli ultimi due anni uno dei principali strumenti in mano di quello che abbiamo già chiamato il terzo polo arabo, interessato tanto a rendersi assolutamente monopolista nello scacchiere energetico quanto a destabilizzare l’area centro-asiatica e mediorientale.

Sono solo queste piccole frange di popolazione locale ad aver tratto beneficio da un progresso tecnologico che è rimasto legato a doppio filo alle tecniche estrattive, non portando alcun beneficio e anzi destabilizzando e impoverendo intere popolazioni.

Non restano fuori da queste analisi le domande sui sensi, i risultati e le sfide reali degli orizzonti politici di speranza come quelli inerenti al “Socialismo del XXI Secolo”, alla nozione di etica del Vivir Bien, all’instaurazione di un’economia basata sul principio di solidarietà, o alla rifondazione statale sulla base della plurinazionalità, su cui poggiavano i discorsi delle “rivoluzioni” civili o democratico-culturali di paesi latinoamericani come Venezuela, Ecuador e Bolivia, oltre ad altri importanti processi di cambiamento politico in Brasile, Argentina, Nicaragua, promossi a partire dalla fine degli anni novanta e principalmente nel primo decennio del nuovo millennio.

Tutto questo ragionamento di riposizionamento imperialista in Sud America si applica in maniera assolutamente univoca e coerente al Venezuela come al Brasile e alla Bolivia; infatti il processo rivoluzionario diretto dal Presidente Evo Morales è sorretto dalla Costituzione boliviana nelle quali sono molto chiari i principi relativi alla proprietà pubblica delle risorse naturali e minerarie, in quanto “proprietà del popolo” e amministrate dallo Stato e dove le aree minerarie sono considerate intrasferibili e intrasmissibili per successione ereditaria.

Cuba che si avvia alla costruzione del socialismo, dopo il 1959, deve far fronte precisamente a questo ordine di problemi che sono insieme pratici e teorici, poiché nel marxismo classico non esiste, come sottolinea il Che, una economia politica della transizione già pronta cui attingere.

Esiste invece, e questo fa il Che insieme agli altri rivoluzionari, un’esperienza concreta che è in primo luogo quella sovietica degli anni Venti e Trenta, da analizzare criticamente comprendendo che le scelte di Lenin non derivano in linea retta da un modello teorico, ma sono dettate dalle contingenze e dalle necessità di quel processo di transizione.

Il socialismo non è dunque altro che “il movimento reale che abbatte lo stato di cose presente”, ed è reale in quanto organizzato e consapevole. Esso si costituisce precisamente nel divenire storico della prassi rivoluzionaria, ed è qui che in contesti specifici si elaboreranno e sperimenteranno, anche con errori e contraddizioni, forme di pianificazione adeguate allo sviluppo specifico delle forze produttive nel contesto dato.

In una economia di transizione possono dunque coesistere, e spesso storicamente accade proprio questo, diversi sistemi produttivi la cui armonizzazione non è affatto semplice da perseguire, all’interno di una formazione economico-sociale come quella capitalistica, che è per sua natura globale, soprattutto nella attuale fase storica successiva alla caduta dell’Unione Sovietica.

Oggi le soggettività politiche che vogliano porsi nella prospettiva strategica del superamento del modo di produzione capitalistico, ovunque esse operino, a Cuba o nel cuore del polo imperialista europeo, non possono in nessun modo eludere queste questioni: la transizione, il rapporto tra teoria e prassi politica, tra strategia e tattica, la pianificazione come forma concreta che prende il processo di transizione.

Pianificazione che, nuovamente, assume certe caratteristiche a livello teorico ma subito dopo va calata nei contesti concreti, trovando in essi il modo di arricchire la teoria. Tra decentramento e centralizzazione, ad esempio, il rapporto corretto non può essere dato puramente a livello teorico ma l’equilibrio si trova nelle condizioni concrete; ma lo stesso vale ad esempio per l’applicazione delle innovazioni tecnologiche.

Questi sono dunque problemi cruciali, su cui i militanti, gli attivisti, gli intellettuali, i simpatizzanti delle organizzazioni di classe non possono fare a meno di confrontarsi, formarsi e riprendere un’elaborazione troppo spesso dimenticata nelle organizzazioni comuniste soprattutto in Europa.

A differenza dell’instabilità del capitalismo – le cui forme di pianificazione nella presente fase neoliberista e ordoliberista sono limitate, eccetto che nelle decisioni fondamentali sulle infrastrutture e i servizi – al livello delle singole imprese e dunque non possono e non devono farsi carico del piano di sviluppo complessivo, nel socialismo la pianificazione assume un ruolo centrale.

Essa deve mettere in campo una strategia di sviluppo, concretizzata poi da una politica economica che ne deve applicare i presupposti, basata sugli obiettivi dello sviluppo economico e sociale generale del paese all’interno del contesto internazionale, sviluppando le forze produttive, dando impulso all’innovazione tecnologica, impostando un rapporto sostenibile con l’ambiente.

Il piano dell’economia nazionale, che deve coordinare l’attività complessiva, deve tuttavia tenere ben presente la necessità di un certo grado di decentralizzazione, di autonomia delle imprese e degli enti produttivi e locali, che è indispensabile per un funzionamento corretto dell’economia di un paese.

Il piano deve quindi saper combinare il livello generale della pianificazione con la flessibilità che consente di approfittare della conoscenza specifica a livello produttivo e locale che le imprese hanno del proprio contesto di operatività. La pianificazione dell’attività produttiva deve quindi essere collettiva e democratica nel senso più ampio di questo termine.

Su questo, a Cuba sono stati negli anni effettuati intensi sforzi di critica e di autocritica, come nei lavori per il VI congresso del Partito Comunista Cubano (2011), che hanno spinto a dare grande importanza ai meccanismi di decentralizzazione della pianificazione, le cui leve fondamentali rimangono in ogni caso sotto lo sguardo del pianificatore generale.

La necessità che ha guidato i lavori per tale congresso è stata quella di “valutare e correggere alcuni limiti di un modello economico eccessivamente centralizzato”, con l’intenzione di “favorire una maggiore partecipazione dei lavoratori attraverso un sistema decentrato”, ai fini di “adeguare la pianificazione socialista alle tendenze presenti oggi nel mercato, per contribuire alla flessibilità e alla incisività dell’attuale piano quinquennale di fronte alle problematiche economico-sociali generate dalla crisi globale”, nonché naturalmente ai perduranti effetti del bloqueo degli Stati Uniti[6].

Sul rapporto tra centralizzazione e decentralizzazione, nella seconda metà del secolo scorso il dibattito nei paesi socialisti, ma anche in quelli capitalistici, è stato molto vivace ed è da tenere ben presente per riflettere sui problemi dell’oggi.

Il grado di centralizzazione dell’economia dipende indubbiamente dal grado di sviluppo delle forze produttive. Nelle fasi iniziali del processo di transizione in un paese sottosviluppato, quale era la situazione di Cuba nei primi anni Sessanta del ‘900[7], probabilmente la pianificazione deve essere fortemente centralizzata, con scarse possibilità di lasciare grande autonomia alle singole imprese.

Lo sviluppo tecnologico è invece un fattore importante che determina la possibilità di decentralizzare maggiormente le decisioni, dal momento che le tecnologie dell’informatica e della comunicazione comportano notevoli miglioramenti in termini di efficacia ed efficienza del coordinamento dei settori economici[8].

Ma questi principi devono essere applicati da subito e integralmente affinché non trovino giustificazione alcune le pretese di privilegi classisti portatori di processi eversivi e sovversivi controrivoluzionari fino ad arrivare per difendere i propri interessi a forme palesi e dirette di cospirazione politica. In questo si vede anche la sfasatura tra teoria e politica, nel senso che la seconda non può derivare direttamente, senza mediazioni, dalla prima; ma le mediazioni sono molte e importanti ed è su queste che si misura la capacità della soggettività di portare avanti il processo rivoluzionario anche sapendo gestire il piano tattico.

Le rivoluzioni in corso in America Latina, o comunque processi della transizione democratica e progressista della transizione, si sono concretizzate in governi nati da elezioni democratiche e da ampi e potenti movimenti popolari, principalmente contadini e indigeni, che hanno rappresentato la loro principale fonte di legittimità; governi che hanno promosso significativi cambiamenti basati su importanti riforme costituzionali, su processi redistributivi e di riconoscimento della diversità culturale ed economica, su una discussione per il linguaggio del discorso politico, delle espressioni simboliche ed estetiche.

Oggi, questi percorsi delle transizioni politico-economiche, si trovano davanti sentieri o passaggi critici, quando non retrocessioni e/o virate politico-ideologiche di diversa indole. Tra questi la questione del potere nelle relazioni tra governo e movimenti popolari, i paradossi derivanti da un discorso ufficiale radicale e dal contemporaneo mantenimento dell’“inclusione” o del vincolo sociale mediante il consumo tipico del neoliberismo, i limiti dello statalismo e delle politiche nei confronti di cambiamenti strutturali soprattutto in materia economica, la permanenza di schemi estrattivisti di accumulazione, la continuità della corruzione istituzionalizzata, l’emergere di nuove élites economiche e importanti ricomposizioni classiste, etc.

E sul piano del governo della transizione più direttamente connessa al conflitto Capitale Ambiente?

Un grande maestro, Alessandro Mazzone, già trenta anni fa metteva in guardia i marxisti dal credere alle “affermazioni singolari” secondo cui «le questioni globali o “questioni del genere umano” sarebbero indifferenti alle classi, o anzi, trascenderebbero le questioni di classe.»[9] Credo che quell’ammonimento sia oggi più che mai attuale per evitare che la tensione verso un “mondo sostenibile” sia tale da accantonare le rivendicazioni figlie del conflitto di classe o, con le parole di Mazzone, «i contrasti in cui finora si è svolta la storia degli uomini.» La Natura non è un’entità neutrale; la sua difesa richiede un’analisi che tenga conto delle dinamiche di classe e che miri alla risoluzione del conflitto attraverso il superamento di questo modo di produzione, per un progresso sostenibile perché autodeterminato.

Che vi sia un conflitto irrisolvibile fra Capitale e Natura comincia ad apparire chiaro anche a sociologi ed economisti non marxisti.

Eppure, sostenere che la soluzione passi unicamente attraverso il superamento del modo di produzione potrebbe lasciare le forze rivoluzionarie prive di strumenti nella lotta di opposizione ai disastri ambientali che ogni giorno si compiono nella corsa famelica alla valorizzazione della merce. Come si risponde nell’immediato? In un’ottica di più lungo periodo, può bastare l’elaborazione teorica condotta finora sul conflitto Capitale-Ambiente o si rendono necessarie attualizzazioni e modificazioni della teoria in nostro possesso?

Queste e altre domande, che fanno riferimento sia a fattori strutturali sia a fattori contingenti, necessitano una risposta, che già in passato abbiamo cercato di dare mediante la costruzione di libri collettivi promossi dal CIDES-UMSA e dal CEDU-UMSS e dal nostro centro studi CESTES-PROTEO, centro studi dell’Unione Sindacale di Base-USB nel quadro di una collaborazione accademica con l’Università Sapienza di Roma e l’Università di san Andres di La Paz, il cui proposito è aprire un dibattito accademico e politico culturale profondo e critico tra intellettuali militanti latinoamericani ed europei, sulla base del bilancio di un decennio segnato dalla presenza delle sinistre a capo di governi “progressisti” e da diverse virate all’interno dei loro quadri programmatici in relazione anche delle lotte dei movimenti e sindacati conflittuali in Europa. La finalità di questo libro è associata alla necessità di identificare le sfide che affrontano le organizzazioni e i movimenti popolari nelle loro lotte politiche per superare le difficoltà attuali.

Limitarsi a descrivere una situazione futura verso cui tendere rischia di portare a una sottovalutazione della barbarie contemporanea: occorre porre un limite immediato agli scempi che multinazionali e altre corporations compiono ogni giorno all’ambiente altrimenti, parafrasando le parole di Fidel Castro, non saremo neppure in grado di vedere un domani il socialismo realizzato in tutto il Mondo. Occorre elaborare un programma di fase ben definito sulle compatibilità socio-ambientali, attraverso l’elaborazione di battaglie di controtendenza portate avanti da movimenti e sindacati che riescano finalmente a rifiutare la fittizia contrapposizione fra le questioni ambientali e quelle della redistribuzione della ricchezza sociale.

Su questo bisogna però essere molto chiari; per esempio sul fatto che la nazionalizzazione e statalizzazione generale dell’economia se non pone il problema della proprietà sociale diretta dei mezzi di produzione in sostituzione della proprietà privata, diventa cosa ben diversa dalla socializzazione dei mezzi di produzione; se la democrazia partecipativa diretta che sostituisce quella rappresentativa non abbatte qualsiasi forma delle strutture del vecchio Stato capitalista sostituendolo come un ruolo centrale della politica e dell’economia di uno Stato socialista, non si realizza il vero potere popolare e l’intrasferibilità della sovranità popolare.

Se le conquiste sociali non sono accompagnate da forme stabili organizzate di controllo diretto con strutture di democrazia di base partecipativa e popolare, come a Cuba, più lenta e difficile diventa la transizione concreta al socialismo; se la pianificazione eco-socio-economica socialista centralizzata non si accompagna a forme di pianificazione decentralizzata con valorizzazione delle economie socio-ambientali locali e di diversificazione produttiva capace di limitare le importazioni e favorire le esportazioni attraverso investimenti a compatibilità socio-ambientale concessi da un sistema bancario completamente nazionalizzato, diventerebbe allora impossibile pensare di superare il capitalismo in forma di una concreta transizione socialista.

Nel contesto capitalistico di sviluppo ineguale, va quindi ricordato come siano i Paesi cosiddetti “sviluppati” o “avanzati” a essere i principali portatori degli effetti devastanti del loro modo di produzione, sulla base delle loro logiche coloniali e imperialiste. Oggi a rivendicare principalmente il “diritto a inquinare” sono anche BRICS, nonché tutti quei Paesi che mirano a diventare competitori globali nella manifattura e nella produzione su basi fordiste. Il peso che questa situazione esercita sull’ambiente ha effetti politici dirompenti rispetto ai reali bisogni e al diritto di autodeterminazione dei cosiddetti Paesi in Via di Sviluppo nel perseguimento delle loro strade di emancipazione sociale ed economica.

Nel caso dell’America Latina, al contrario, è stata precisamente la congiuntura di vigenza delle politiche neoliberiste, principalmente negli anni Novanta, e delle sue devastanti conseguenze sociali, quella che – tra gli altri elementi – ha delegittimato governi e permesso di generare un’offensiva popolare capace di instaurare i governi promotori delle suddette “rivoluzioni”. Oggi, queste attraversano sfide complicate per la loro continuità e sembrano – dati i loro stati attuali – non riuscire a realizzare le proprie speranze al di là del “progressismo”/“sviluppismo” e dei relativi fondamenti materiali di industrializzazione, che ad altre latitudini vengono invece abbandonati.

Quali situazioni hanno portato a questa virata, frenata o retrocessione nel senso degli orizzonti politici di cambiamento in America Latina e, in particolare, in Bolivia? Quali elementi soggiacciono al cambiamento di congiuntura, che sembrano porre limiti alle condizioni (economiche, politiche e culturali) di possibilità di trasformazioni strutturali profonde? Quali fattori influiscono sullo sgretolamento o sull’indebolimento dei cosiddetti governi progressisti e, perfino, sul sovvertimento di alcuni di essi (Argentina e Brasile)? Cosa è cambiato nella relazione tra governi e movimenti sociali, in particolare indigeni, femministi, ambientalisti? Si tratta o meno di una “fine del ciclo” della svolta a sinistra – come segnalano alcuni analisti e critici –, di un cambiamento di congiuntura o di un tortuoso/tormentato ciclo statale? E, allora, quali situazioni o processi vengono determinati in questo va’ e vieni?

In passato abbiamo assistito, anche in aree politiche a noi vicine, all’apologia della crescita zero, dello stop allo sviluppo. Quelle teorie e modi di vedere, che nulla avevano a che fare con le rivendicazioni di classe, hanno finito di fatto per giustificare la green economy, ossia un modello produttivo basato sulla messa a valore delle risorse naturali e, in particolare, delle risorse rinnovabili.

Ma lo sfruttamento delle risorse energetiche – di qualsiasi tipo di risorsa – nulla ci dice sulle dinamiche di sfruttamento dell’uomo sull’uomo. Si pensi al caso dei Paesi arabi dove, pur in assenza di un proletariato industriale, possiamo osservare una distribuzione delle ricchezze e dei redditi estremamente sperequata (si pensi che l’indice di Gini in Arabia Saudita, secondo le stime, è prossimo allo 0.5). Non abbiamo elementi per poter sostenere che l’investimento in rinnovabili di cui abbiamo già parlato possa avere effetti significativi nel miglioramento delle condizioni reddituali della popolazione araba, che potrebbero addirittura peggiorare in seguito al progressivo drenaggio di ricchezza necessaria a finanziare la nuova costruzione imperialista.

Solo ponendo al centro la dimensione di classe, inquadrando il conflitto Capitale-Natura all’interno del conflitto Capitale-Lavoro, possiamo costruire una visione e una teoria pienamente ecologista e anticapitalista.

Alcuni importanti lavori sulla pianificazione dello sviluppo economico, comunque, non provengono da ambienti socialisti e comunisti, ma sono stati realizzati nei primi decenni del secondo dopoguerra, ovvero in quella che lo storico britannico Eric Hobsbawm ha definito “l’età dell’oro”[10].

In quella fase storica, la pianificazione dello sviluppo economico di un paese era avvertita come un’esigenza centrale anche nei paesi capitalistici, sebbene naturalmente in questi si ponesse in modo molto diverso la questione della proprietà sociale dei mezzi di produzione. Il keynesismo era allora l’orientamento economico dominante in molti di questi paesi, e con esso si implicava un significativo intervento diretto dello Stato – della politica – nell’economia.

Oggi noi non crediamo che sia praticabile e verosimile l’ipotesi, proposta da varie forze e intellettuali soprattutto in Europa e negli Stati Uniti, di una ripresa di una politica istituzionale di riforme in un contesto globale che è caratterizzato da una durissima competizione in una crisi sistemica di accumulazione che non è risolvibile entro i parametri del sistema stesso.

Come segnalato dall’importante intellettuale cubano Fernando Martínez Heredia, la crisi è espressione della natura propria del modo di produzione capitalistico e non del livello raggiunto dalle lotte che ne mettono consapevolmente in pericolo la resistenza[11].

Ciò è del resto del tutto evidente, dal momento che gli economisti e i politici borghesi non riescono a trovare soluzioni alla crisi nonostante la grande debolezza del movimento operaio internazionale in questo momento storico.

Nelle Reflexiones del nostro Comandante en Jefe Fidel Castro troviamo sempre denunce puntuali e allarmate dei rischi corsi dall’umanità a causa dell’insensatezza e della irrazionalità del capitalismo e dell’imperialismo[12].

Negli anni Cinquanta e Sessanta si segnalano vari autori non comunisti nello sforzo di giungere a una teoria e pratica ottimale della pianificazione dello sviluppo. Vogliamo qui soffermarci brevemente su uno di questi, l’economista olandese Jan Tinbergen, presidente del Comitato per la pianificazione dello sviluppo dell’ONU, premio Nobel nel 1969 e autore di molti testi importanti sul problema dello sviluppo economico tra cui “Sviluppo e pianificazione”[13].

Il libro mostra bene l’interrelazione virtuosa che si può e deve ottenere tra orientamento sociale generale (idea dei fini cui si tende con la pianificazione economico-sociale), messa a punto e programmazione del piano e delineazione della politica economica dello sviluppo intesa come individuazione dei mezzi per raggiungere gli obiettivi prefissati.

Il collegamento tra piano e obiettivi sociali generali, o potremmo dire tra mezzi e fini, viene sottolineato chiaramente da Tinbergen, che afferma che “per un piano di sviluppo, specialmente se a lungo termine, ci si deve porre la domanda fondamentale se l’ordinamento sociale, ovvero l’insieme delle istituzioni che caratterizzano la società, sia in effetti il migliore”[14].

Il piano, cioè, non è mai uno strumento neutro, ma va sempre visto in rapporto a certi fini che sono oggetto di scontri di natura politica. Aggiunge infatti lo studioso: “per un piano di sviluppo ben ponderato è auspicabile che ci si formi anche un’idea dell’ordinamento sociale cui si deve aspirare”[15]; in particolare nei casi su cui si concentra la sua attenzione, ovvero i paesi che storicamente provengono dal sottosviluppo.

È chiara nello studioso olandese la concezione, del tutto condivisibile, di una politica economica come forma complessiva di gestione dello sviluppo della società, in modo da creare appunto uno sviluppo equilibrato e sostenibile, e non semplicemente per correggere e temperare gli squilibri di un sistema economico lasciato all’iniziativa privata. Tinbergen utilizza la metafora medica del costruire un corpo sano piuttosto che guarire semplicemente la malattia.

La pianificazione si distingue nettamente per Tinbergen dalla semplice previsione, dal momento che essa si caratterizza per porre degli obiettivi futuri a partire dall’analisi della situazione produttiva oggettiva, e cerca di definire i mezzi necessari per raggiungere tali obiettivi; laddove la previsione, largamente utilizzata nel sistema capitalistico, cerca di anticipare, “prevedere” appunto, il livello raggiunto da un sistema economico tendenzialmente lasciato libero di agire.

Un piano, o programma, è per Tinbergen “un insieme interdipendente di dati e di fatti, che ci fornisce l’andamento più desiderabile dei fenomeni”[16] e che costituisce il modo in cui lo Stato imposta il proprio ruolo nella vita sociale ed economica.

A partire dall’individuazione degli obiettivi dello sviluppo – che è naturalmente una questione non tecnica ma politica – esso deve operare delle scelte tra i mezzi disponibili per dare forma al processo di sviluppo ottimale.

Secondo Tinbergen, i tre elementi principali della moderna politica di programmazione sono la previsione, la coordinazione e il raggiungimento degli obiettivi stabiliti. Egli scrive che “la messa a punto del piano e la sua realizzazione è diventata ormai una normale attività accanto agli altri settori di governo e accanto alla produzione di beni e servizi, e quindi è diventata uno dei processi che dal punto di vista dell’economia devono essere considerati un vero e proprio processo di produzione”[17].

Lo studioso olandese distingue allora tra tre diversi tipi di piano in base all’ampiezza del loro sguardo cronologico.

I piani a lungo termine, o piani prospettici, contemplano periodi che possono arrivare a 15-20 anni e delinea le priorità e tendenze di fondo dello sviluppo del paese, naturalmente a livello molto generale. Esso costituisce lo sfondo dei piani a medio e breve termine, affinché i problemi posti da questi si inquadrino nello sguardo storico-politico generale della società.

In un piano a lungo termine si affrontano fenomeni sui quali esiste un certo margine di prevedibilità sul lungo periodo: per esempio, l’aumento della popolazione, lo sviluppo dell’istruzione, lo sviluppo di fattori tecnici generali.

Scrive Tinbergen che “un piano a lungo termine quindi ha tanto più senso, quanto più il governo del paese persegue obiettivi fondamentali. Dai governi o dai gruppi politici inclini al laissez faire non ci si può aspettare un atteggiamento simile. Per contro, ce lo possiamo aspettare da coloro che vogliono modificare la struttura economica o sociale, o entrambe, e sono consapevoli che questi sono processi che esigono molto tempo”[18].

I piani a medio termine coprono periodi di 4-5-6 anni, e permettono di lavorare con maggiore precisione su determinati settori di attività che si ritiene rivestano un ruolo strategico nello sviluppo del paese. I piani a breve termine, per lo più annuali, hanno invece la funzione principale di delineare l’esecuzione effettiva della politica economica, in stretta relazione con i bilanci dello Stato.

La programmazione è un processo molto complesso, che esige ricerche preparatorie e studi preliminari, la formulazione di progetti, la formulazione norme e dati standard. È inevitabile e necessario che esso si traduca in aspetti matematici e quantitativi, ma non va mai dimenticato di inquadrare tali aspetti nella riflessione generale.

Scrive infatti lo studioso che “poiché una parte assai vasta del lavoro necessario alla formulazione è volta a esprimere in cifre gli obiettivi dello sviluppo prefissato, l’operare con rapporti quantitativi rappresenta un aspetto assai importante della programmazione. Tuttavia, ciò non può mai avvenire senza che sia presente una nozione qualitativa dell’oggetto”[19].

Il lavoro più duro nella formulazione di un programma di sviluppo, secondo Tinbergen, consiste nell’esprimere mediante cifre e rapporti matematici lo sviluppo sociale ed economico desiderato. Naturalmente, maggiore è la complessità di una formazione sociale, più ampia sarà anche la mole di dati da processare, e questo richiede che il processo di pianificazione sia diviso in diverse fasi.

Tinbergen individua dunque una “macrofase”, che deve esprimere in termini macro-economici lo sviluppo auspicato, senza suddivisione in regioni o settori di attività[20]. La “fase intermedia” introduce precisamente questi livelli[21]. La “microfase”, poi, ha come oggetto specifici “progetti semplici o complessi di progetti e di norme che vengono trattati da un’unica forza esecutiva”[22].

Tinbergen sottolinea, e condividiamo completamente, l’importanza della pianificazione settoriale e regionale non in opposizione ma a fianco della pianificazione centralizzata, per evitare uno spreco di energie e per consentire di sviluppare la partecipazione a livello decentrato, assecondando meglio le esigenze dei diversi attori impegnati nel sistema produttivo.

In un testo certamente discutibile per noi sotto molti punti di vista, la Teoria politica dell’autogestione di Yvon Bourdet (1977), si trovano alcuni spunti in questo senso, che testimoniano una tensione verso la pianificazione razionale dell’economia di un paese che oggi si riscontra con sempre maggiore difficoltà.

Bourdet, acerrimo avversario della pianificazione centralizzata e in generale di ogni forma di centralizzazione in politica, nel teorizzare invece l’autogestione dei lavoratori fa ampio uso degli strumenti della pianificazione e dell’applicazione alla produzione della scienza e della tecnica.

La “fabbrica del piano”, idea che riprende da un altro studioso francese, è infatti un modello di “organismo di calcolo”[23] che consentirebbe secondo Bourdet di impostare razionalmente la pianificazione industriale a partire dalle singole unità.

Non serve condividere il suo rifiuto verso la pianificazione centralizzata e la direzione politica generale del piano di sviluppo di un paese, che noi invece riteniamo ovviamente indispensabile, per apprezzare la tendenza a porsi questo problema.

Bourdet, che ritiene l’autogestione il modello desiderabile di gestione economica, riconosce che nella società moderna l’interdipendenza dei gruppi sociali e della produzione rende necessario un coordinamento a livello complessivo[24].

Bourdet intende tracciare i caratteri fondamentali di una analisi scientifica dei meccanismi della decisione, che a suo giudizio comprendono tre elementi fondamentali: le condizioni iniziali, ovvero i dati; l’obiettivo da raggiungere; i mezzi intermedi, o obiettivi secondari, che permettono di raggiungere l’obiettivo primario.

Il problema di Bourdet è quello di trovare i modi di dedurre questi mezzi intermedi per raggiungere determinati obiettivi a partire da condizioni date, compito la cui difficoltà cresce con la complessità di un sistema economico e sociale.

Scrive infatti lo studioso francese che “sicuramente nel caso dell’economia, soprattutto a livello di una grande impresa e, a maggior ragione, a livello nazionale, le cose sono più complesse e subentrano una quantità di fattori in interazione reciproca. Per esempio ci sono migliaia di prodotti diversi, moltissimi procedimenti di fabbricazione; il possibile uso di varie materie prime e la fabbricazione di un certo prodotto determina possibilità e impossibilità che riguardano altri prodotti, ecc.

Ora si fabbricherà troppo, ora si mancherà di un elemento che è la condizione per un altro, ma che non si può fabbricare per carenza di materie prime, di macchinario o di manodopera qualificata”[25].

Questo rende impossibile la determinazione dei procedimenti ottimali in un sistema complesso? Niente affatto, risponde Bourdet, se si utilizzano le potenzialità dell’innovazione tecnologica e in particolare dell’informatizzazione, ai primi stadi di sviluppo nel momento in cui scrive lo studioso e militante francese.

Per Bourdet, infatti, “si tratta solo di una complicazione quantitativa; essa non pone che problemi di calcolo che la tecnologia moderna e gli ordinatori possono risolvere molto rapidamente e senza difficoltà”[26].

Bourdet, e Chaulieu la cui analisi fa da sfondo a questa parte del saggio, riprendono a questo punto Leontieff e il metodo delle analisi input-output, il metodo di studio delle relazioni intersettoriali.

Le tavole quadrate input-output permettono di simulare la ripercussione di un impulso su di uno degli elementi del sistema o, più in generale, di conoscere i rapporti quantitativi (detti coefficienti tecnici) delle componenti di un prodotto fabbricato, partendo da un insieme di altri[27].

Il metodo di Leontieff utilizza le matrici, ovvero quadri in cui sono disposti sistematicamente i coefficienti tecnici che esprimono la dipendenza di ciascun settore dagli altri. Stabilito ogni obiettivo finale, la soluzione di un sistema equazioni simultanee consente di definire con precisione gli obiettivi intermedi e dunque i compiti da realizzare in ogni settore dell’economia.

Bourdet sottolinea, e questo è molto interessante, la centralità di due elementi ai fini di un corretto funzionamento dell’organismo di calcolo. Da un lato, occorre “un censimento esatto delle risorse e una conoscenza esattissima della condizione dell’economia e dei vari dati iniziali (materie prime, mano d’opera, capitali, materiale, infrastrutture industriali, trasporti, risorse agricole che comportino la determinazione per regione della fertilità del suolo, della condizione del bestiame e degli attrezzi, ecc.)”.

Dall’altro, è necessaria “la determinazione dei coefficienti tecnici di correlazione, che presuppone una memoria dei rapporti empirici precedentemente determinati (con coefficienti di variabilità secondo i progressi della tecnica e le qualità delle materie prime)”[28].

In un’economia socialista, le tavole di input-output di Leontieff nascono precisamente dalla necessità di calcolare questi coefficienti per costruire i bilanci materiali. Dato che tali coefficienti cambiano continuamente, ad esempio quando vengono introdotti miglioramenti tecnologici, tale sistema consente di ricalcolare in breve tempo ogni sfasamento rispetto alle modifiche delle condizioni tecniche della produzione.

Questi strumenti consentono dunque di padroneggiare i rapporti e i flussi produttivi che intercorrono tra i diversi settori di una economia nazionale, permettendo di gestirne l’interdipendenza reciproca e quindi di equilibrare maggiormente la relazione produzione, lavoro, natura. È proprio in una economia pianificata socialista che essi sembrano trovare la migliore applicazione[29].

Nei paesi europei il capitalismo si reinventa, senza mezzi termini, mediante profonde riconfigurazioni produttive e la finanziarizzazione del capitale, con enormi costi sociali nella maggior parte dei paesi, nello sforzo di prolungare la vigenza del neoliberismo economico. Questo approccio ai loro attuali problemi avvalora l’ipotesi di Hinkelammert circa il carattere difensivo che lo Stato del benessere del Welfare, implementato nei così detti Trenta gloriosi in risposta alla minaccia di espansione comunista, assumerebbe; e rappresenta un ridimensionamento dell’immagine della portata della democratizzazione e del progressismo propri del capitalismo nel XX Secolo.

È il momento di serrare le fila per la difesa dei processi rivoluzionari e della transizione alla democrazia partecipativa popolare promuovendo una resistenza di massa ma con caratteri offensivi capaci di mobilizzare tutte le forze rivoluzionarie e del cambiamento su tutti i terreni.

Significa quindi muoversi realmente sul terreno del potere contrapporsi duramente alle scelte di guerra da parte degli imperialismi USA e dell’Unione Europea che hanno l’intento di ridisegnare la mappa del potere economico e del potere politico, sottraendo completamente l’influenza che in questi anni hanno esercitato Cuba, Venezuela, Bolivia ed Ecuador non solo nei processi di integrazione dell’America Latina, (vedi ad esempio Alba, Mercosur, Unasur, Celac, Aec e la funzione dei tanti accordi regionali come Petrosur, Petrocaribe, Banca dell’alba, Banco del sur, Telesur, Radiosur, ecc.); ma anche come tentativo di distruggere la funzione di esempio dei modelli sociali e relazioni internazionali a carattere antimperialista e antiliberista togliendo dalla povertà, dall’analfabetismo e dall’assenza completa di servizi sociali centinaia di milioni di lavoratori, mostrando così come hanno fatto con tutti i limiti e le contraddizioni i governi dell’alleanza dell’Alba agli altri paesi del cosiddetto “Terzo Mondo” che è possibile ricomporre dal basso le forme di sviluppo diseguale e subordinato attraverso processi di autodeterminazione per le transizioni antimperialiste e anticapitaliste, attraverso ricostruzioni democratiche partecipative che ripropongono forme di accumulazione se non di carattere socialista per lo meno con forte e continuata redistribuzione verso il basso.

È ovvio che ci sono tempi e tempi per la critica e per l’autocritica e oggi è il momento di difendere di in tutti i modi le conquiste politiche e sociali delle rivoluzioni del centro e Sud America difendendo tutto ciò che il popolo ha conquistato nel percorso per usciere dal capitalismo, contrapponendosi in tutte le maniere alle diverse strutture dell’opposizione oligarchica che sta auspicando un nuovo bagno di sangue come nel golpe del 2002 in Venezuela e come in tutte le varianti sovversive ed eversive realizzate in questi anni dai governi.

Quindi resistendo ma allo stesso tempo realizzando percorsi di approfondimento radicale del processo della transizione alla democrazia socialista, ponendosi contro tutti gli interessi interni ed esterni della guerra militare economica e massmediatica voluta dagli USA ma appoggiata fortemente anche dalle forze di destra e di centro sinistra dell’Unione Europea con il terrorismo mediatico, il ruolo dei paramilitari e dei mercenari che continuano quotidianamente ad assassinare dirigenti politici; ma non bisogna trascurare neppure la battaglia interna contro chi ha usato e sta usando la rivoluzione per interessi personali di gruppi di potere economico tradendo i principi e le battaglie di piena natura politica di classe e di ideali profondamente rivoluzionario.

Siamo convinti che approfondendo il processo di pianificazione socio-economica di nazionalizzazione dei mezzi di produzione, controllando il sistema bancario e il commercio estero, espropriando tutte le imprese che applicano le mille forme di boicottaggio ai processi rivoluzionari, isolando tutti gli pseudo rivoluzionari che auspicano una democrazia con stile eurocentrico dal capitalismo “soave e democratico” solo così si può realmente procedere nel divenire storico al superamento del modo di produzione capitalistica con forme attente e sviluppate di transizione al socialismo contro qualsiasi ideologia di mediazione che può affossare ogni forma di transizione al socialismo.

Concludendo, sono proprio le mutate condizioni internazionali nella crisi sistemica del capitale e siamo obbligati a metterci davanti la sfida di costruire nella teoria e nella prassi una nuova visione economica, che superi criticamente l’economia convenzionale, realizzandosi come economia socio-ecologica-politica, quindi a carattere socialista nella teoria e nella pratica politica.

Solo in questo modo potremo continuare a muoverci a passi decisi verso il Socialismo possibile nel XXI Secolo, come sta avvenendo nei Paesi dell’ALBA.

La crisi strutturale e poi sistemica scatenante la fase depressiva prolungata, che inizia approssimativamente a partire dal 1973-74, ha condizionato un processo graduale di ridimensionamento economico che abbraccia sia aspetti della ristrutturazione delle relazioni produttive sia quelli delle relazioni socioeconomiche complessive, fenomeno che continuerà ad acquisire contemporaneamente carattere internazionale.

Il graduale processo di ristrutturazione per tentare di uscire dalle crisi reputate cicliche in maniera volutamente “propagandistica”, che è venuto manifestandosi negli ultimi decenni, ha costituito lo scenario della transizione dal modo di produzione tecnologico meccanizzato a quello automatizzato, e nel contempo alla piena manifestazione di una nuova tappa di esistenza dell’internazionalizzazione del capitale, in particolare della finanza internazionale che effettivamente si è globalizzata e l’uso contestuale ed appropriato del commercio internazionale nella nuova divisione internazionale della produzione capitalistica del lavoro.

Tradizionalmente, il commercio internazionale è stato utilizzato come un meccanismo per compensare la svalutazione del capitale nei paesi centrali. Dato che i tassi di profitto sono maggiori quanto minore è la relazione tra mezzi di produzione e lavoro vivo, la formazione per la competitività di un tasso medio in un mercato presuppone un trasferimento di valore tra capitali, in funzione della loro composizione relativa.

Ci sembra importante riflettere circa la stretta relazione esistente tra la dinamica dei cicli lunghi della riproduzione capitalista e lo svolgimento dell’internazionalizzazione del capitale; ciò ci dà modo di realizzare considerazioni circa lo scenario attuale e tendenziale internazionale.

L’espansione del commercio estero, man mano che il regime di produzione si sviluppa, per necessità interna, cioè per il suo appetito di mercati sempre di più estesi, continua a trasformarsi. I processi di esportazione di merci uniti al processo di dominio coloniale del centro sulla periferia del capitalismo si erigono come caratteristiche fondamentali dell’internazionalizzazione del capitale alle condizioni del capitalismo premonopolista.

Parallelamente la crisi sistemica evidenzia che non c’è una possibilità di rilancio del sistema keynesiano di sostenimento della domanda pubblica in particolare di quella sociale.

Il modello keynesiano si era accompagnato al sistema produttivo fordista e fungeva quasi da ammortizzatore sociale dato che, oltre ad essere sostenimento di domanda pubblica, ha avuto anche funzione di carattere sociale quando il movimento dei lavoratori ha espresso conflittualità riuscendo ad accedere a forme di redistribuzione dei redditi oltre che di parte della ricchezza sociale creata (sia in termini di salari diretti, sia, attraverso lo stato sociale, con i salari indiretti e differiti).

Oggi si presentato altre forme di keynesismo, ovviamente con connotazioni diciamo così originali, di contesto:

Keynesismo del privato, viene garantito pieno sostegno con denaro pubblico alle imprese private e al sistema bancario;

Keynesismo bellico, già visto nella II guerra mondiale, mira al sostenimento della domanda pubblica a fini militari cioè dell’apparato industriale militare e poi dell’indotto;

Altre forme difficili da etichettare, come il fatto che l’economia criminale venga messa quasi a produzione o comunque utilizzata come una parte del PIL, e ciò vuol dire drogare la ricchezza complessiva del Paese senza che ci sia aumento della ricchezza reale. Stessa identica situazione si presenta con tutto ciò che si realizza a rendita da capitale fittizio e improduttivo.

Dal 2010 il modello sociale europeo è sempre più in crisi, con una tenuta relativa di Francia e soprattutto Germania, invece nel Sud Europa (Portogallo, Italia, Grecia, Spagna) la disoccupazione si impenna e si fa strutturale e il potere d’acquisto salariale si comprime fortemente in particolare nei PIGS (Portogallo, Italia, Grecia, Spagna[30]), per cercare di sanare le finanze pubbliche e rinforzare l’economia dei “patti di stabilità” e le politiche di aggiustamento[31].

L’Unione Europea sta così attraversando una intensa e prolungata crisi economica che colpisce le fondamenta della sua esistenza come progetto politico.

Il disequilibrio della struttura istituzionale dell’Unione Economica e Monetaria con le crisi economiche e finanziarie hanno fatti sì che i vari membri si trovassero a dover affrontare nuove riduzioni ai costi pubblici e alle riforme strutturali; queste riforme riguardano soprattutto il diritto al lavoro, la protezione sociale e le negoziazioni collettive.

Le raccomandazioni sociali dirette agli Stati membri dell’UE sottolineano i tagli della spesa pubblica, in particolare che i costi sulla salute, sulle pensioni devono diminuire, i salari devono rispondere ai criteri di competitività, quindi i costi del lavoro si devono abbassare; non si parla invece o si accenna solo al fatto che i modelli sociali dei vari paesi dovrebbero incidere positivamente sulle diseguaglianze, assicurare ai cittadini più alti livelli di vita ecc. Tra i paesi del Nord Europa e i paesi del Sud, i quali sono quelli su cui più forte con sempre più vigore i “pacchetti anticrisi” che vanno a incidere sempre di più sulla vita del mondo del lavoro e del lavoro negato. E la giustificazione a queste misure è stata che “i lavoratori europei avevano vissuto al di sopra delle proprie possibilità” dal momento che il modello sociale europeo prevedeva livelli di protezione sociale troppo elevata, una legislazione del lavoro che proteggeva “rigidamente” i lavoratori e un indebitamento sempre maggiore delle famiglie.

Il perdurare della crisi economica ha fatto sì che il livello e la qualità della vita dei lavoratori europei si sia notevolmente impoverita e la crescita del livello di povertà e esclusione sociale sia sempre più alto.

Non tutti i paesi infatti hanno accusato la crisi nello stesso modo: Grecia, Spagna, Portogallo, Italia e Irlanda hanno avuto importanti perdite delle diverse forme di remunerazione al fattore lavoro.

Secondo i dettami della Troika il modo di risolvere la crisi è semplice: basta stabilizzare la situazione finanziaria dei governi e delle banche per tornare a uno scenario di crescita e prosperità. E quindi: aumento delle tasse, dirette e indirette, abbassamenti dei costi del lavoro e della protezione sociale, diminuzione dei salari minimi, riduzione delle indennità sociali e maggiore facilità per le imprese nei licenziamenti attaccando i diritti del e al lavoro solo se i vari paesi adottano queste misure possono ricevere gli aiuti necessari per ridurre il debito pubblico ed essere accettato al “ballo mascherato della euro stabilità”.

Le alleanze politiche del mondo del lavoro devono affrontare una sfida storica. Anche in questo caso è chiaro ad esempio che la Grecia da sola non ce la può fare ma ha bisogno del supporto di un’area, di un sistema bancario nazionale, della nazionalizzazione dei settori strategici, di una nuova moneta di conto perlomeno per la compensazione interna (più o meno lo stesso percorso attuato nei paesi dell’ALBA e ora da noi viene indicato come esempio di alleanza politica ed economica). Probabilmente l’unica via è dire no all’attuale Unione Europea e uscire dall’euro ma non con il tornare alle monete nazionali o un nazionalismo di ritorno ma attraverso un’ipotesi che parta dal basso nella logica della complementarietà produttiva che includa il Nord Africa e l’Est Europa in cui si è trasferito il fordismo, in modo da integrare risorse primarie ed energetiche, fordismo e servizi.

Uscire dall’euro proponendo una nuova moneta per Paesi con strutture produttive più o meno simili è l’unica alternativa realizzabile, che permetterebbe sia di mantenere un margine di negoziazione con le istituzione comunitarie e con la Banca Centrale Europea sia di creare un nuovo blocco politico istituzionale capace di realizzare un modello di accumulazione favorevole ai lavoratori.

Dobbiamo infine riprendere ancora un punto dell’analisi di Tinbergen che ci sembra molto significativo, ovvero la necessità da lui ribadita di un raffronto continuo del piano con l’evoluzione della situazione reale, per giudicare la pertinenza delle politiche applicate e per essere in grado, se necessario, di apportare le dovute correzioni.

Inoltre, scrive Tinbergen, “per la prosecuzione della politica dello sviluppo si devono formulare periodicamente nuovi piani e ciò richiede la conoscenza del punto di partenza del nuovo piano. Anche questo può essere senz’altro visto come una tecnica statistica, ma non manca di interesse sapere se la situazione reale che si è verificata mostri che non si sono raggiunti gli obiettivi prefissati”.

Se esiste questa differenza – prosegue – “il nuovo piano può esserne influenzato; in dipendenza dalle cause presumibili delle differenze e dal modo di vedere la questione da parte dello Stato si può infatti decidere di perseguire uno sviluppo più elevato o di adattare i piani alla realtà”[32].

L’assenza di una capacità effettiva da parte del Partito che esercita la direzione politica di suscitare una reale discussione interna e una significativa partecipazione da parte di tutti i lavoratori è infatti un sicuro indice di pericolo da cui bisogna ben guardarsi.

Da subito è possibile inceppare i meccanismi di potere dei centri-polo, delle aree del sistema di dominio del modo di produzione capitalista, come sta tenacemente realizzando l’alleanza dell’ALBA in America Latina.

In tutti i casi la fuoriuscita rappresenterebbe un’opzione di attacco al sistema del capitale europeo, confermando comunque l’intenzione politica di mettere in discussione da subito le istituzioni comunitarie con un progetto completamente alternativo che è inevitabile si debba mantenere e anzi rafforzare nel tempo inglobando i paesi dell’Africa Mediterranea e dell’Est Europeo nella iniziale area alternativa che vede insieme i paesi della periferia mediterranea, dell’Europa. È appunto questa che chiamiamo l’ALBA euro-afro-mediterranea.

Senza la critica e l’autocritica, il processo di pianificazione rischia di fossilizzarsi e di non essere più in grado di rispondere alle necessità della produzione e della popolazione nel suo complesso, venendo meno così alla sua funzione.

Si pone quindi infine il tema anch’esso operativo ma che pone da subito l’orizzonte strategico della rottura, dell’“abbandono” delle aree capitaliste come l’Europolo su basi di praticabilità immediata.

L’euro è servito per rinforzare i padroni esportatori dei paesi centrali dell’Europolo, cioè il polo imperialista europeo, e per indebolire la posizione commerciale e subordinare la dinamica di accumulazione nei paesi periferici del Mediterraneo alla divisione internazionale del lavoro imposta dai paesi centrali.

Da molto tempo vive un dibattito non solo tra marxisti sull’opportunità per un’area di paesi, a struttura economico-sociale simile, di realizzare l’ “abbandono” o il “distacco” da quella che Hosea Jaffe ha chiamato nel 1994 “l’azienda mondo” identificando con questa i poli di dominio del sistema capitalista internazionale con le istituzioni e gli organismi che si è dato (FMI, Banca Mondiale, BCE, WTO, UEM, ecc.). Tutto ciò non è stato un mero esercizio teorico ma ha avuto ed ha delle esperienze concrete che rendono tale ipotesi realisticamente praticata e praticabile. Si pensi ad esempi storici dal Kemala ieri all’ALBA. oggi. In tali esperienze, con tutte le possibili diversità si sono affermati modelli di sviluppo autodeterminati, incentrati sulle risorse e le economie locali, valorizzando al contempo le proprie tradizioni culturali e produttive. Si è anche dimostrato che sapendo valorizzare le proprie risorse si può rinunciare a tante merci inutili importate e funzionali ad un sistema di consumismo insostenibile.

È in questo contesto che va affrontata dunque la questione dell’equilibrio da trovare tra pianificazione centrale generale e decentramento settoriale e regionale, equilibrio le cui forme non sono mai date a priori da un modello astratto, ma devono essere trovate nella prassi concreta e dialettica del processo rivoluzionario.

Oggi più che mai, in un momento di crisi sistemica del modo di produzione capitalistico, crisi economica ma anche ambientale, alimentare, sociale, culturale, delle stesse basi della civiltà borghese della stessa forma Stato la pianificazione dello sviluppo come gestione razionale della società è un imperativo assoluto che deve essere perseguito a livello internazionale e che richiede per questo che si rafforzino le prospettive di classe per l’uscita dal sistema capitalistico e per la costruzione del Socialismo nelle forme possibili per il XXI secolo.

Il passaggio ad un modo di produzione altro, meglio il passaggio alla società socialista, presuppone ovviamente non solo l’esplosione dell’oggettività drammatica in cui si presenta la crisi ma la presenza organizzata della soggettività rivoluzionaria che può indirizzare la classe verso i percorsi reali di superamento del modo di produzione capitalistico.

Ciò che possiamo assicurare è l’impossibile esistenza, a medio-lungo termine, del capitalismo. Ecco perché la nostra analisi non ha a che fare con una visione immediata di fine del capitalismo per “autodistruzione” e quindi in una sorta di teoria del crollismo. In assenza di un confronto di classe radicale e con forza soggettiva organizzata capace concretamente di una ricerca di soluzioni, il sistema troverà ancora delle modalità attuative dei capitalismi per far sopravvivere il modo di produzione capitalista.

Cambio del sistema politico, riforma economica con produzioni già da subito fuori profitto a compatibilità socio-ambientale, riappropriazione pubblica dei mezzi di comunicazione, controllo diretto dei poteri costituzionali, sono l’agenda minima per il rilancio di una mobilitazione per una resistenza offensiva culturale e politica sul terreno immediato del socialismo.

Un’alternativa mondiale per la trasformazione radicale deve essere un progetto che contenga un significato transnazionale, con da subito una strategia che si muova in un orizzonte capace di determinare processi politici che, anche nei momenti rivendicativi tattici, abbiano sempre chiara la strategia politica per il superamento del modo di produzione capitalista e di costruzione del socialismo possibile.

E allora buona lettura, buona cultura, buone lotte!

La vittoria è inevitabile!

___________ 

 

PIANO, MERCATO E PROBLEMI DELLA TRANSIZIONE METODI DI ANALISI DEI SISTEMI ECONOMICI LOCALI E SETTORIALI Copyright 2018, Edizioni Efesto ©

Libreria Efesto – Via Corrado Segre, 11 (Roma) 06.5593548 – info@edizioniefesto.it www.edizioniefesto.it

Collana: theoretikà

Autore: Luciano Vasapollo

Impaginazione e copertina: Francesco Manzo | graframan.com


[1]   Marx, K. (1972).

 

[2]   Ibidem.

 

[3]   Perché la Germania finora ha aperto le frontiere solo ai siriani – http://www.ilsole24ore.com/art/commenti-e-idee/2015-09-13/perche-berlino-apre-solo-siriani-081352.shtml?uuid=ACkMJ1w.

 

[4]   Gramsci, A. (1975), pag. 311.

 

[5]   Marx, K. (1994).

 

[6]   Vasapollo, L. (2011), pag. 517.

 

[7]   Vedi Vasapollo, L. Echevarria, E. e Jam, A. (2007).

 

[8]   Cfr. Vasapollo, L. (2011).

 

[9]   Mazzone, A. (1987).

 

[10] Hobsbawm, E. J. (2011).

 

[11] Martínez Heredia, F. (2011).

 

[12] Si veda ad esempio Castro Ruz, F. (2012).

 

[13] Tinbergen, J. (1967).

 

[14] Ivi, pag. 64.

 

[15] Ibidem.

 

[16] Ivi, pag. 36.

 

[17] Ivi, pag. 44.

 

[18] Ivi, pag. 52.

 

[19] Ivi, pag. 46.

 

[20] Ivi, pag. 74.

 

[21] Ivi, pag. 89.

 

[22] Ivi, pag. 150.

 

[23] Bourdet, Y. (1977), pag. 189.

 

[24] Ivi, pag. 43.

 

[25] Ibidem.

 

[26] Ibidem. Va sottolineato, di passaggio, l’approccio profondamente innovativo che caratterizza a Cuba la riflessione di Che Guevara Ministro dell’Economia e dell’Industria in merito alle potenzialità delle tecniche più avanzate e dell’informatizzazione. Siamo in questo caso nei primi anni Sessanta! Su questo dibattito il testo di riferimento è ancora Vasapollo, L., Echevarría E. e Jam, A. (2007). Per gli scritti di Che Guevara si può consultare Guevara, E. (1969).

 

[27] Bourdet, Y. (1977) pag. 190.

 

[28] Ivi, pag. 194.

 

[29] Vasapollo, L. (2011), cap. III.

 

[30] L’acronimo “PIGS” in inglese significa maiali, termine usato in maniera dispregiativa dai poteri forti europei per indicare i popoli dei paesi mediterranei cioè del Sud, come una volta erano chiamati Terroni i nostri genitori che emigravano dal Meridione d’Italia senza lavoro, senza speranze per offrire forza lavoro super sfruttata nelle fabbriche dei padroni del Nord per lo sviluppo del sistema capitalistico italiano.

 

[31] “Cfr. Degryse C., Jepsen M., Pochet. P., (2014).

 

[32] Tinbergen, J. (1967), pagg. 200-201.

Indice

RINGRAZIAMENTI DI LUCIANO VASAPOLLO

9 Introduzione

 “Rivoluzione è la convinzione profonda che non esiste potenza al mondo capace di sconfiggere la forza della verità e delle idee”, Fidel Castro 9

37 Parte prima

CRISI SISTEMICA CAPITALISTA E COMPETIZIONE INTER-IMPERIALISTICA

Capitolo 1 Caratteri della crisi sistemica del modo di produzione capitalistico 39

Capitolo 2 Dalla scienza economica borghese alla critica marxista all’economia politica e della politica economica 57 Capitolo

3 Critica della teoria tradizionale delle transazioni economiche come semplici interscambi relativi 71

Capitolo 4 Prospettive a medio e lungo termine dell’economia capitalistica 89

Capitolo 5 Capitalismo e pianificazione 103

Capitolo 6 Dall’alba per la rottura dell’Unione Europea. Costruire la strategia dell’alternativa di classe  per il superamento del modo di produzione capitalista 107

117 Parte seconda

TEORIA E METODI DELLA PIANIFICAZIONE NELLA TRANSIZIONE AL SOCIALISMO

Capitolo 1 Problemi della transizione al socialismo 119

Capitolo 2 Modi del fare scienza della pianificazione  127

Capitolo 3 Il processo di pianificazione 139

Capitolo 4 Strumenti della pianificazione a breve termine 147

Capitolo 5 Strumenti della pianificazione a medio e lungo termine 159

Capitolo 6 La pianificazione. Alcune esperienze e la sua importanza nel socialismo 167

185 Parte terza

 MODALITÀ STORICO-ATTUATIVE DELLA PIANIFICAZIONE IN NUESTRA AMÉRICA

 Capitolo 1 Fasi storiche della pianificazione cubana 187 Prima fase. 1959-1975 per il sistema di Gestione e Pianificazione dell’economia (SDPE)  187 Seconda fase. 1975-1989. Il grande salto 201 Terza fase. Dal 1990 ad oggi. Problemi dello sviluppo autodeterminato. 207

Capitolo 2 Breve storia del piano settoriale a Cuba. Un caso studio: il turismo 233

Capitolo 3 Pianificazione e transizione al socialismo in Venezuela 243

Capitolo 4 Stato e sviluppo economico e sociale in Bolivia 251 Capitolo 5 Aspetti del modello della transizione in Ecuador 263

269 Parte quarta

LE NUOVE FRONTIERE DELLO SFRUTTAMENTO E LA NUOVA CATENA DEL VALORE

Capitolo 1 Comunicazione deviante e lavoro mentale nel cuore delle metropoli imperialiste 271

Capitolo 2 Le nuove dinamiche economico-produttive impresse dall’accelerazione  della crisi sistemica capitalista internazionale: l’esempio italiano 279

Capitolo 3 La transizione al socialismo: un altro sistema è possibile perché è necessario 299

307 A mo’ di conclusioni. Verso quale transizione?

321 Bibliografia

 

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