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La Turchia sul piano inclinato

In queste ore i media e i governi di Unione Europea, Stati Uniti e Nato stanno alzando decisamente i toni nei confronti di quel governo turco che nelle concitate ore di venerdì si sono ben guardati dal difendere. Tutti ricordano insistentemente ad Ankara che per far parte dell’Alleanza Atlantica o per avere qualche speranza di entrare a far parte del club dei 28 (o 27?) occorre rispettare democrazia, diritti umani e stato di diritto.

I toni sono così esasperati che il Commissario all’allargamento dell’Unione Europea, Johannes Hahn, ha detto esplicitamente ciò che in molti pensano: che i nomi delle migliaia di poliziotti, militari, funzionari pubblici, magistrati arrestati o sospesi in queste ore erano evidentemente inseriti in liste nere di proscrizione da tempo compilate dalla cupola dell’Akp.

In particolare è la possibile reintroduzione nel paese della pena capitale, cancellata nel 2004 quando la Turchia procedeva apparentemente a tappe forzate verso l’adesione all’UE, ad aver suscitato le ire e la preoccupazione di capi di stato, ministri e popolari analisti. Quegli stessi che da sempre hanno chiuso gli occhi di fronte alla pena capitale inflitta, senza neanche una parvenza di processo, a migliaia di guerriglieri e civili curdi abbattuti come mosche da quegli stessi militari il cui operato venerdì a Bruxelles non sembra esser dispiaciuto del tutto. Se da 48 ore le foto dei soldati denudati, legati e ammassati l’uno sull’altro come i prigionieri di Abu Ghraib meritano le prime pagine dei nostri quotidiani e le aperture dei tg, lo stesso non accadeva quando Erdogan era un utile e docile servitore degli interessi occidentali in Medio Oriente.


Eppure chiudeva giornali e incarcerava giornalisti e dissidenti senza troppi complimenti, e faceva il lavoro sporco per conto della Nato finanziando e addestrando nelle sue basi migliaia di ‘ribelli’ presto rivelatisi tutt’altro che moderati. Quando la democraticissima Unione Europea ha siglato con Ankara l’infame accordo sui migranti – sei miliardi di euro più la concessione della libera circolazione per i cittadini turchi in cambio del contenimento di milioni di profughi da tenere alla larga dalle nostre coste anche a costo di sparargli – il ruolo del regime erdoganiano come finanziatore e protettore del terrorismo jihadista che faceva strage nelle città europee era ampiamente noto. Eppure davvero poche furono le voci critiche che si levarono dalle stanze continentali dei bottoni e dalle redazioni.


E’ con una incredibile dose di ipocrisia che Bruxelles agita ora contro Ankara (ma non contro Kiev, e ne avrebbe ben donde) una questione – quella dei diritti umani – finora colpevolmente ignorata. Apparentemente sono Nato e Ue a bacchettare e ricattare la Turchia, ma la verità è che è esattamente il contrario: è Erdogan che sembra sul punto di rompere con i vecchi padrini dopo averne ampiamente ostacolato i piani. Quando Ue e Nato gli chiedevano di rompere i ponti con lo Stato Islamico e di unirsi alla campagna militare contro Daesh, Erdogan ha risposto che lo avrebbe fatto solo se avesse ottenuto l’ok all’invasione della Siria. Quando Usa e Ue premevano affinché mettesse fine ai bombardamenti sulle città curde il regime islamo-nazionalista ha reagito invitando i censori internazionali a farsi i fatti propri.


Poi, sull’onda del completo fallimento della sua strategia isolazionista – prima la rottura con il fronte occidentale, poi anche la crisi con Israele e la Russia – Erdogan ha tentato nelle ultime settimane di rimediare, ricucendo sia con Tel Aviv che con Mosca. Una pezza peggiore del buco agli occhi di Ue e Usa, che dopo aver subito le bizze e i ricatti di Erdogan assistevano al suo repentino avvicinamento ad alcuni dei propri maggiori competitori. E’ plausibile quindi pensare che alle smanie di indipendenza e di grandezza del ‘sultano’ qualcuno abbia pensato di porre fine utilizzando la vecchia ma apparentemente rodata pratica del putsch militare.

Uno “strano” golpe, lo abbiamo definito. “Strano” non perché Erdogan ‘se lo sia fatto da solo’, suggestione su cui insiste da giorni un sempre meno autorevole Corriere della Sera, ma per le sue timidezze, per la sua disorganizzazione, e perché la rapida sconfitta dei militari ribelli segna un punto di rottura tra Ankara e Ue/Nato che potrebbe avere, almeno nel breve periodo, gravi conseguenze per Bruxelles e Washington. Gli Usa e la Nato hanno bisogno della Turchia per mantenere un piede – e l’agibilità militare – in un Medio Oriente che ormai pullula di potenze rivali e dove l’intervento militare russo ha ulteriormente indebolito l’egemonia a stelle e strisce. Bruxelles, alle prese con le minacce di Brexit, deve affrontare problemi analoghi, e non può permettersi di perdere un paese chiave sul suo fianco orientale dal punto di vista economico e geopolitico.

Quale che sia stato il livello di partecipazione, di sostegno o semplicemente di assenso al tentativo di colpo di stato da parte di Usa e Ue, a nessuno è sfuggito quel roboante silenzio delle cancellerie europee e dell’amministrazione Obama durante quelle quattro ore di sanguinosi scontri per la supremazia tra Istanbul ed Ankara.


Non sfugge a nessuno che le accuse rivolte da Erdogan al suo ex socio Fethullah Gulen, ospite negli Stati Uniti ormai nel 1999, sono soprattutto strali rivolti verso la Casa Bianca. Mentre alcuni generali e soldati che operavano nella base di Incirlik finivano in manette con l’accusa di tradimento, le autorità di Ankara staccavano la corrente all’impianto militare utilizzato da centinaia di militari a stelle e strisce per i raid in Siria. Una efficace manifestazione della vendetta turca contro il paese considerato l’ispiratore dei fatti del 15 luglio.

La notizia sul rifiuto tedesco di concedere a Erdogan l’asilo mentre era in fuga dai golpisti potrebbe non riferirsi a una vicenda reale ma essere un efficace modo per puntare l’indice contro Frau Merkel, segnalata così come sponsor degli ammutinati.

Che il tentativo di rimozione forzata di Erdogan non sia andato a buon fine e che anzi il controgolpe stia concedendo al capo del regime turco un potere senza precedenti la dice lunga sul declino della capacità egemonica degli Stati Uniti (e delle potenze europee) in Medio Oriente. Come scrive efficacemente Mario Platero su Il Sole 24 Ore (“Le sfide globali di un’America assediata”) “Washington si trova in stato d’assedio su tre fronti diversi: la tenuta del suo ordine interno, la credibilità del suo ruolo di leadership globale e, soprattutto, la tenuta del suo modello economico. (…) Ciascuna delle sfide è allo stesso tempo figlia e madre delle altre”.

Il fallimento delle trame ordite dagli apprendisti stregoni potrebbe accelerare quelle tendenze “autonomiste” del governo turco che il progettato regime change mirava a bloccare. A meno che Erdogan, temendo che un eventuale prossimo tentativo possa andare a buon fine, non capisca l’antifona e torni nei ranghi.
Ma per ora il controgolpe attuato da un Erdogan scaltro e vigile – come ammesso da Ankara gli ammutinati sono stati scoperti, lasciati fare e attirati in una feroce trappola – ha riportato in sella il “sultano” che solo pochi giorni fa sembrava traballare a causa dei suoi fallimenti in politica estera ed in economia. Ampiamente sostenuto da un vasto blocco sociale costruito negli anni a partire da una strategia ideologica (islamismo più nazionalismo sciovinista) e materiale (clientelismo, assistenza, promozione sociale di ampi settori di popolazione rurale urbanizzata) sembra che Erdogan possa cementare il suo potere sfruttando i madornali errori compiuti dai militari ammutinati e dai loro sponsor.

Una Turchia “sganciata” dalla filiera di Stati Uniti e Unione Europea rischia di creare una nuova variabile impazzita in un contesto già reso esplosivo dalla destabilizzazione. Come ormai da tradizione, un altro ex alleato – o pedina – degli Usa tenta di andare per la sua strada. Se Noriega è stato facile rimpiazzarlo, Erdogan pare un osso più grosso e più duro. E’ il segno dei tempi e del piano inclinato su cui precipita a velocità sempre maggiore il sistema.


Ma i sogni di gloria e di potenza del ‘sultano’, tramontata la possibilità di un’area geopolitica neo-ottomana a guida turca dal Nord Africa al Caucaso passando per il Medio Oriente, potrebbero scontrarsi con un contesto internazionale niente affatto benevolo. Se Erdogan spera di approfittare delle contraddizioni e della competizione tra Usa, Ue e Russia, le sue ambizioni potrebbero essere stritolate da una micidiale manovra a tenaglia.

Le mire erdoganiane sulla Siria sono state frustrate dall’intervento russo e il massacro della popolazione curda del sudest turco potrebbe non bastare a impedire l’affermarsi di un semistato curdo nel confinante Rojava siriano che gode del potenziale placet di Washington, Bruxelles e Mosca.

Se per ora Ankara tenta di uscire dall’isolamento in cui si è cacciata ricucendo con Israele e la Russia, è evidente che nello scenario attuale di competizione globale le alleanze internazionali – e in questo Erdogan è maestro di trasformismo – non possono che essere relative, mutevoli e a geometria variabile. Per non parlare di una crisi economica che potrebbe esplodere tra le gambe del ‘sultano’ come una bomba a tempo e scomporre rapidamente quell’apparentemente coeso blocco sociale che oggi osanna il nuovo Ataturk e manifesta agitando le sue gigantografie. Le ampie e non più collaborative infiltrazioni jihadiste e l’insorgenza armata curda potrebbero fare il resto.


In questo quadro un punto di vista antagonista non può lasciarsi ingabbiare nella logica del tifo, né tra i diversi attori della competizione globale, opposti ma simmetrici, né tantomeno tra le forze che si scontrano nel paese. L’autoritarismo e il fanatismo islamista erdoganiano – rimpinguato dal nazionalismo fascistoide dei Lupi Grigi – e il nazionalismo sciovinista e atlantista degli oppositori all’attuale regime – nostalgici però di quello precedente – non rappresentano che due facce della stessa medaglia.

 

Marco Santopadre

 

 

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