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Borghesia e imprese: forze propulsive della mafia

 

Era indirizzato allora a classi dirigenti, intellettuali e politiche, imbelli, frantumate e chiuse nel loro particulare, ostili o indifferenti al riscatto unitario della nazione. Malgrado la paludata retorica del centocinquantesimo anniversario si avverte la stessa indifferenza se non la stessa ostilità nei confronti di un risveglio di valori civili e democratici che sottragga il paese all’obbrobrio internazionale ed al collasso ultimativo degli interessi più elementari della comunità nazionale. E’ vero, negli ultimi mesi, nelle ultime settimane è emersa un’altra Italia, ahimé ancora minoritaria, che sta avvertendo quel moto di vergogna di leopardiana memoria e che si sta mobilitando con lo spontaneismo dell’intollerabilità per dire basta allo strazio e al grande scempio del berlusconismo: le donne, gli operai rappresentati da agguerrite minoranze sindacali, i giovani e gli intellettuali – ancora pochi, troppo pochi – che stanno uscendo da un trentennale letargo.

Non di questo vogliamo parlare in queste brevi annotazioni, ma di quel particulare che cementa in una crosta rivoltante, deleteria e criminosa la borghesia imprenditoriale italiana.

I fatti al di là e al di sopra delle opinioni:

1) Secondo la Kris Network of Business Ethic l’evasione fiscale è cresciuta del 10,1% nei primi 11 mesi del 2010 ponendo così il nostro paese al primo posto in Europa con il 54,4% del reddito imponibile evaso. Sono state così sottratte all’erario imposte superiori ai 159 miliardi di euro. Il Dipartimento delle Finanze ha comunicato che nel 2008/2009 undici milioni di italiani non hanno pagato l’Irpef e che solo l’uno per cento dei contribuenti ha dichiarato più di centomila euro l’anno. I redditi dichiarati da lavoro dipendente e da pensione sono stati di 33.500 euro; i redditi d’impresa di 19.792 euro; quelli da lavoro autonomo 44.452. E, udite, udite, il 50% degli italiani, esclusi i pensionati e i lavoratori dipendenti, ma quasi tutti negozianti, artigiani, tassisti, commercialisti, ecc. hanno dichiarato tra i 12.000 e i 14.500 euro l’anno.

2) Secondo Transparency International l’Italia, per quanto riguarda la corruzione nella pubblica amministrazione, lo scorso anno è precipitata al 67° posto nella graduatoria mondiale di 178 nazioni, quattro punti al di sotto del Rwanda.

3) Gli “stress tests” o “controlli di rischio” effettuati dal Comitato dei Supervisori Bancari europei su 90 istituti ha espresso dubbi sullo stato di buona salute di una trentina degli istituti stessi o sulla veridicità dei dati da essi forniti. Le banche italiane avrebbero i conti in regola, ma, come ha commentato ufficiosamente un vice-presidente della BCE, i bilanci presentati da alcuni dei nostri istituti di credito “are as clear as mud”, “sono trasparenti come la mota”. Si manifesta sorpresa a Francoforte per il gran numero di istituti bancari e sportelli soprattutto nel meridione (Corigliano Calabro, un paesone di 29.000 abitanti da noi visitato, conta ben 13 banche i cui clienti dovrebbero essere quasi tutti pensionati e agricoltori) e, sempre a Francoforte, si esprime qualche perplessità sulla capacità e sui mezzi di cui dispone Bankitalia per controllare i flussi di liquidità o l’origine di depositi superiori ai 5.500 euro (procedure GIANOS e denunzie “volontarie” di operazioni sospette).

4) Il “fatturato” annuo della criminalità organizzata viene calcolato dalle autorità inquirenti con stime approssimative per difetto sui 130-160 miliardi di euro, a cui vanno aggiunti i milioni o i miliardi del riciclaggio denunziati con scadenze ormai settimanali da pubblici ministeri, carabinieri e Guardia di Finanza (IOR, Credito Cooperativo Fiorentino e via dicendo).

E veniamo al dunque: facendo un semplice conto della spesa, tra evasione ed elusione fiscale, proventi di una corruzione endemica nella pubblica amministrazione e quelli della criminalità organizzata, condoni espliciti ed impliciti, si potrebbe arrivare ad un gran totale di 500 miliardi di euro, circa un terzo del PIL: un mare di liquidità illecita su cui galleggia quello che Prodi ha definito “un paese povero abitato da gente ricca e carente di regole”.

Che questa “gente ricca” si identifichi con una borghesia e un’imprenditoria di stampo mafioso ne erano convinti Falcone e Borsellino, ne aveva scritto l’allora magistrato del pool antimafia Giuseppe Di Lello nel saggio “Giudici” (Sellerio, 1994), lo aveva documentato nel contesto del capoluogo campano Giorgio Bocca in “Napoli siamo noi” (Feltrinelli, 2006), il migliore esempio di giornalismo investigativo dell’ultimo mezzo secolo, e poi ne hanno parlato e continuano a parlarne con narrazioni, testimonianze, atti giudiziari Roberto Saviano, Marco Travaglio, Peter Gomez, Milena Gabanelli e poi ancora con il riserbo dettato dalle inchieste in corso quei pubblici ministeri – pochi e coraggiosi – che conoscono a fondo il ruolo determinante della criminalità organizzata nell’economia oltre che nelle istituzioni nella politica e nella società in genere del nostro paese.

Per non parlare poi delle inchieste de “L’Express” del 9 agosto u.s., degli accenni tutt’altro che velati dell’Economist e del “Financial Times”.

Con fugaci e misurati accenni si è occupato del tema Giuseppe Pisanu: l’ex-Ministro degli Interni del Berlusconi bis ed ora presidente della commissione parlamentare antimafia ha alluso all’esistenza di una “borghesia mafiosa”. Un’osservazione tardiva ma veritiera anche se carente per difetto perché è ormai convinzione diffusa negli ambienti finanziari internazionali che la borghesia italiana, soprattutto quella imprenditoriale, media e grande, non è mafiosa perché infiltrata o dominata dalla criminalità organizzata; non subisce, non convive con essa, ma la promuove, la remunera legittimandola nell’alta e media finanza, nelle istituzioni, nella politica, nelle amministrazioni nazionali e regionali; a tutti gli effetti ed in tutti i suoi strati economici, di ceto, di reddito e di comportamenti sociali, è l’incontrastata e sempre sottaciuta forza propulsiva di tutte le mafie nazionali.

Dovrebbe essere questa, oggi ingigantita all’ennesima potenza, la vergogna del poeta di Recanati.

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