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L’Italia si sgonfia? Facciamo come in Francia!

Lettura politica dei Rapporti ISTAT e ANVUR delle ultime settimane

Mentre il governo tenta di modificare artificiosamente i numeri, quando con trovate che lasciano il tempo che trovano quando con vere e proprie manomissioni falsificanti, i dati parlano chiaro, e questa volta sono quelli dell’andamento demografico dell’Italia analizzati dall’ISTAT (Istituto nazionale di Statistica) a dare le vertigini. Si nasce meno, si muore di più, si sceglie meno il Bel Paese quale terra d’arrivo, continuano a ingrossarsi le fila di coloro che abbandonano la nave (con un saldo positivo a favore delle fughe all’estero, con buona pace di Salvini & Co.). Mai dati così pessimi dai tempi del ciclo delle due guerre mondiali.

A completare il puzzle ci pensa poi un’altra fotografia, quella offerta dal rapporto Anvur (Agenzia Nazionale di Valutazione del sistema Universitario e della Ricerca) sullo stato dell‘alta formazione e della ricerca in Italia: in un contesto in cui l’imperativo pare essere “Dovete morire prima (o almeno andarvene), perché ci serve solo un ben definito bacino di forza lavoro a basso costo”, è normale riscontrare un totale disinvestimento in quegli ambiti che dovrebbero rappresentare il motore del futuro di un sistema-paese. Per uscire dalla crisi senza le ossa rotte bisognerebbe investire in istruzione. Bene, è esattamente quello che l’Italia non ha fatto. E’ pensiamo non sia un caso, dato che è un dato che la accomuna a quei paesi ai quali pare sia stato affidato il ruolo di colonie interne nella cornice dell’Unione Europea.

L’Italia sembra oggi un palloncino, di quelli bucati, in cui qualcuno può far finta di soffiare e soffiare ma quello non vuole saperne, e continua a sgonfiarsi. Solo che non stiamo giocando. E se la crisi strutturale è tutt’altro che prossima a finire, le politiche della classe dirigente al governo mostrano la corda, e tracciano il profilo di ciò per cui sono state pensate. Così, anche se fatica a rendersene conto, una grande porzione della società potrebbe trovare in questi numeri i motivi stessi in base ai quali stringere alleanze tra italiani e stranieri, tra giovani e anziani, tra occupati (sempre più precari) e disoccupati, tra abitanti del Sud e del Nord della penisola. La solidarietà nazionale e generazionale dal punto di vista degli sfruttati sarebbe tutt’altra cosa rispetto a quella neoliberale attualmente imposta nel dibattito teorico e nelle sue ricadute di politica economica.

Le lotte dei lavoratori e degli studenti francesi in sciopero e in piazza durante queste settimane e proprio in queste ore sembrano confermare che oltralpe questo concetto sia stato assimilato. A partire dalla contestazione alla Loi Travail, la copia del nostro Jobs Act, hanno accettato di scendere in campo contro i dispositivi politici ed economici del proprio governo in combutta con Bruxelles.

Ora tocca a noi dimostrare, seppur in ritardo, di poter essere all’altezza della sfida.

1) ANDAMENTO DEMOGRAFICO

L’Istituto nazionale di Statistica (ISTAT) ha pubblicato il report del Bilancio Demografico Nazionale relativo ai dati sulla popolazione nazionale e straniera presente in Italia e sui flussi migratori in entrata e in uscita.

I dati parlano chiaro: la popolazione è in calo per la prima volta dopo più di novanta anni, la crescita demografica è latente, mentre aumentano i decessi, e il saldo migratorio rispetto all’estero è sempre più positivo.

È necessario interpretare questi dati alla luce della realtà economica e sociale e delle scelte politiche attuate negli ultimi anni per comprendere a fondo la gravità che questi indicatori statistici segnalano.

Calo dei residenti

Per quanto riguarda i dati a livello aggregato-nazionale, nel corso del 2015 il numero dei residenti ha registrato una diminuzione consistente per la prima volta negli ultimi novanta anni, determinando un saldo complessivo e negativo (-130.061 unità). Il calo riguarda esclusivamente la popolazione di cittadinanza italiana (141.777 residenti in meno) a fronte di un aumento della popolazione straniera (11.716 unità), portando così i cittadini stranieri residenti nel nostro Paese a circa 5 milioni (su un totale di circa 61 milioni di abitanti).

Disaggregando i dati e distinguendo per macroregioni geografiche, dai dati è possibile rilevare unaccrescimento del divario Nord-Sud, sia dal punto di vista demografico che sociale. La popolazione residente si riduce maggiormente al Sud

(-0,28%) e nelle isole (-0,34%), circa il doppio rispetto al Centro e al Nord; la percentuale di popolazione straniera sul totale cresce sensibilmente nel Meridione (circa 5 punti percentuali) mentre risulta negativa nel Nord Italia.

Crescita demografica e mortalità

Il calo delle nascite e l’aumento dei decessi della popolazione italiana sembrano andare a braccetto: le prime diminuiscono costantemente dal 2008 (-17 mila rispetto al 2014), i secondi sono stati circa 50 mila in più rispetto allo scorso anno. Il saldo naturale (differenza tra nati e morti) è negativo per 161.791 unità, dato storico visto che bisogna risalire al periodo della Prima Guerra Mondiale per riscontare valori più elevati.

Il numero dei nati non raggiunge il mezzo milione (485.780) e le nascite sono state 16.816 in meno rispetto al 2014 (-3,3% a livello nazionale). È evidente come il contesto di precarietà economica e insicurezza sociale incidano negativamente sulla crescita demografica. Il “bonus bebè”, lanciato l’anno scorso dal governo Renzi con l’intento di invertire questa tendenza, vista anche l’esigua somma (una replica degli 80 euro, stavolta alle neo-mamme), non riesce a contrastare tale fenomeno, che si va accentuando e aggravando sempre più dallo scoppio della crisi, anche a livello europeo.

Il numero di decessi registrato nel 2015 è superiore di circa 50 mila unità a quello del 2014 e, anche qui, si registra un valore storico, visto che risulta essere il più elevato dal 1945. Al di là del semplice aspetto “fisiologico” dei decessi che ci si può attendere in una popolazione che invecchia, il dato del 2015 è così marcato, tanto da far girare la testa anche all’Istat, che per darne una spiegazione ricorre alla “concomitanza di fattori di diversa natura, congiunturali e strutturali”. Provando a dare una lettura di questi “fattori”, è evidente come, da un lato, le congiunture relative ai continui tagli alle pensioni e ai servizi pubblici della sanità costringano gli individui, specialmente in età anziana e a basso reddito, a dover fronteggiare un trade-off tra consumi primari e cure mediche; mentre dall’altro lato, i fattori strutturali si riferiscono a un messaggio non più tanto occulto: “dovete morire prima”. In entrambi i casi, ogni soluzione è buona, pur di riappianare i conti dell’Inps.

Il crescente invecchiamento (almeno per chi resiste al massacro sociale dell’austerità) e la mancanza di “forze fresche” comportano una consistente riduzione della popolazione in età attiva (15-64 anni), che nel 2015 si attesta al 64,3%. Ben più chiara è la situazione sociale se, invece di utilizzare un dato statistico-anagrafico, si interpreta la realtà sottostante attraverso le categorie di possessori di forza lavoro e di esercito industriale di riserva. Alle nuove misure di sfruttamento giovanile, introdotte dall’Alternanza Scuola-Lavoro (tirocini obbligatori, non retribuiti, presso enti pubblici e privati, che coinvolgono sia gli studenti dei licei che degli istituti tecnici) e dal fallimentare progetto di Garanzia-Giovani (all’interno del quale i tirocini e le altre prestazioni di lavoro andrebbero retribuite, ma ben che va si riducono a meri rimborsi spese) si affiancano le previsioni di Boeri sull’eventualità di andare in pensione a 75 anni (sempre che questa non rappresenti una strategia già in corso d’opera). La questione è abbastanza semplice: estendere quanto più possibile la vita lavorativa di una persona, sfruttarla (sì, ma a tutele crescenti) per estrarre fino all’ultima goccia di pluslavoro possibile, per finire al tanto meritato riposo. In pratica, potete morire per i ritmi produttivi massacranti, di fame, per mancanza di cure; a voi la scelta, basta che vi sbrighiate a farlo.

Movimento migratorio con l’estero

Rispetto al 2014 aumentano sia gli immigrati che gli emigrati ma con intensità decisamente diverse:mentre i flussi in entrata dall’estero registrano solamente lo 0,9% in più, le emigrazioni crescono di quasi 8 punti percentuali. Il saldo tra i flussi in entrata e in uscita è pari a 133 mila unità. Siamo di fronte a una emigrazione che veramente si può definire di “massa”: vanno via tutti, dai giovani agli anziani, dai lavoratori non qualificati a quelli qualificati, da chi va a studiare all’estero a chi scappa dalla disoccupazione. I dati confermano la tendenza ad abbandonare l’Italia, certamente non per scelta (eccetto qualche raro caso), quanto per necessità di trovare lavoro e/o condizioni di vita migliori. E difficilmente all’estero la fortuna aspetta a braccia aperte, visto che i giovani costretti ad emigrare si trovano, per la maggior parte, a fare lavori poco qualificati e spesso pagati al salario minimo. Ecco perché nonostante il movimento migratorio con l’estero mostri un saldo positivo, si registra contestualmente una flessione rispetto agli anni precedenti: anche il mito di “far fortuna altrove” (in confronto alla situazione desolante in Italia) inizia a vacillare?

Continua, invece, a consolidarsi il movimento migratorio interno, che vede una crescita degli spostamenti di popolazione dalle regioni del Mezzogiorno a quelle del Nord e del Centro. Le regioni meridionali stanno diventando il sud (Italia) del sud (Europa), fornitori di forza-lavoro a basso costo e territorio di risorse da mettere a valore al minor prezzo possibile.

2) STATO DELL’UNIVERSITA’ E DELLA RICERCA

Il rapporto è stato pubblicato alcune settimane fa dall’Agenzia Nazionale di Valutazione del sistema Universitario e della Ricerca.

All’interno dei paesi dell’OCSE, l’Italia copre il 18° posto in classifica con il suo 1,27% del PIL investito in ricerca e sviluppo, al pari merito con la Spagna e lasciandosi dietro solo Russia, Turchia, Polonia e Grecia.

La media dell’UE a 15 è del 2,06%, ma anche se allarghiamo lo sguardo all’UE a 28, la media (1,92%) rimane sensibilmente maggiore del valore italiano.

“Il solo Piemonte”, si legge nel Rapporto, “presenta quote di spesa in R&S prossime alle medie dei paesi UE e OCSE”. Quello stesso Piemonte dove all’Università e al Politecnico di Torino, tra gli atenei italiani in corsa per garantirsi un posto nella fascia di “Serie A”, si iscrivono ormai solo i ricchi. All’Unito, la popolazione studentesca rientrante nella fascia Isee tra 20 e 30 mila euro è diminuita del 15% in due anni: su 18 mila studenti, 2500 sono spariti dai radar. È la fascia più delicata, perché per un soffio non usufruisce delle borse di studio e degli sconti sulle tasse. Se prendiamo la soglia dei 35 mila euro, gli studenti mancanti sono quasi quattro mila. In cambio, la fascia d’Isee oltre 85 mila euro è passata da 19.417 studenti a 22.912. Una situazione forse meno marcata al Poli, ma anche qui tra aspiranti ingegneri e architetti la fascia più bassa è passata da 8.207 a 7.855 in un anno, la più alta da 5.526 a 7.213. Dati su cui in futuro bisognerà tornare, per comprendere le reali contraddizioni sempre più politiche che questi dati evidenziano, in un contesto in cui l’università di massa (e le caratteristiche delle mobilitazioni che ci ha abituato a conoscere) rappresenta uno scenario sempre più lontano.

I finanziamenti statali dedicati all’istruzione superiore sono diminuiti del 21% tra il 2008 e il 2014; nello stesso periodo è calata la quota di personale impiegato in R&S nel settore pubblico (e dell’istruzione superiore) ma è aumentata in parallelo in quello privato.

Il più grave tallone d’Achille è il progressivo definanziamento dei programmi destinati alla ricerca di base come PRIN e FIRB, il cui approccio è analogo agli europei FP7 e Horizon 2020 del pilastroExcellent Science. Il Fondo per le Agevolazioni alla Ricerca (FAR) non è stato finanziato negli ultimi tre anni. Il Fondo Ordinario per il finanziamento degli enti e istituzioni di ricerca (FOE)continua a calare dal 2011 mentre l’ultimo programma bandito, denominato SIR (Scientific Independence of young Researchers) risale al 2014.

Il FOE, “raggiunge un massimo nel 2011, per poi decrescere negli anni successivi”. Per l’anno 2015, la somma è 1666 miliardi di euro compressivi.

In questa situazione l’ultima spiaggia rimane l’accesso ai finanziamenti europei. Sul fronte diHorizon 2020, appena cominciato, l’Italia, riporta il Rapporto, ha già avviato 5000 progetti, cui se ne devono aggiungere altri 1700 già approvati ma non ancora partiti, su un totale di 180 000 progetti finanziati da Bruxelles. I fondi derivanti da Horizon 2020 per l’Italia nel 2014 (dati Eurostat) sono pari a 456, 4 milioni di euro. Ma, nonostante il buon risultato, si tratta comunque di meno di quanto porti a casa la Spagna (570 milioni), la Danimarca (773 milioni) e poco di più dell’Estonia (415 milioni), solo per citare qualche esempio.

Segnala il Rapporto ANVUR, infatti, che nonostante il tasso di successo sia pari al 10,6%, questi sia “significativamente inferiore rispetto ad altri importanti Paesi europei”. In linea con i Paesi UE, invece, il tasso di partecipazione alle proposte: 12,7%. Il ritorno economico che ne risulta è di “0,66 centesimi (0,71 teorico) per ogni euro investito dall’Italia nel programma quadro”. Ovvero, riusciamo a riportare a casa meno della quota di finanziamento del fondo europeo che il Paese trasferisce in Europa.

Secondo il Rapporto ANVUR, il “divario maggiore si registra nel programma ERC del pilastroExcellent Science, dove la percentuale di progetti basati in Italia (in termini di finanziamenti) si ferma al 5% e il tasso di successo italiano è minore della metà di quello complessivo”.

“La percentuale di iscritti ai corsi di dottorato provenienti da altri atenei o dall’estero, pur in lieve aumento, rimane insoddisfacente”. C’è poco da aggiungere a questo commento degli autori del Rapporto.

Per chiudere, segnaliamo un elemento che ci pare fondamentale per intuire le tendenze che si profilano di fronte a noi, e per riuscire ad agire tempestivamente entro di esse. Ovvero: i dati disaggregati sono piuttosto diversi tra le diverse aree della penisola.

Questo a conferma di uno scenario in cui, come visto per il caso del Piemonte, un generale disinvestimento nel sistema formativo non escluda la creazione di poli d’eccellenza, rivolti ai pochi destinati ad andare a competere per un posto nella classe dirigente transnazionale di domani. Questa osservazione, insieme a quella estrinsecabile dalla lettura dei dati ISTAT secondo cui alle nostre latitudini nonostante la generale incapacità da parte del capitale in crisi di sfruttare al meglio le forze produttive si assista comunque a un allungamento dell’età lavorativa, ci sembra condensi i nodi politici più interessanti di cui tenere conto per la programmazione dell’attività a venire.

Campagna Noi Restiamo

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