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La lotta al jihadismo la dovrebbero fare anche i nostri alleati arabi

È in Afghanistan che è caduto il vero Muro, dieci anni prima di quello di Berlino, quando la vittoria dei mujaheddin, alleati dell’Occidente, sull’Armata Rossa è stata resa possibile dai petrodollari dell’Arabia che impone l’ortodossia del wahabismo, ideologia fondante del regno dei Saud

da Il Sole 24 Ore
L’Isis può perdere la partita in Iraq e in Siria, ma la sua ideologia resiste. Sarebbe una pericolosa illusione pensare che una sconfitta militare del Califfato possa costituire la fine del jihadismo, ideologia che si è diffusa negli ultimi decenni dall’Afghanistan all’Iraq, dal Medio Oriente all’Asia centrale, dal Nordafrica al Sahel fino a penetrare mortalmente in Europa con la propaganda tra i giovani musulmani di seconda generazione che sfrutta l’emarginazione e le spinte al nichilismo, e riempie il vuoto lasciato dalle ideologie novecentesche. Per usare le parole di Olivier Roy, uno dei massimi studiosi del fenomeno, si tratta di un’islamizzazione dell’antagonismo piuttosto che una radicalizzazione dell’Islam storico. Il jihadismo viaggia sul web e galleggia anche sui nostri vuoti di senso. Non finirà presto.
Gli esempi del contrario sono diversi, a partire da al-Qaida, casa madre in Iraq dell’Isis: l’uccisione di Bin Laden in Pakistan nel 2011 non fu la fine del gruppo terroristico come non lo era stata la perdita dei santuari afghani dopo le Torri Gemelle e la guerra del 2001. Le tracce di al-Baghdadi, autoproclamato califfo dato più volte per morto, sono svanite ma nessuno, dopo gli attentati in Spagna, può pensare che la sua scomparsa rappresenterebbe quella dell’Isis.

Sono passati 16 anni dall’inizio della guerra al terrorismo lanciata dagli Usa in Afghanistan e non solo questa non è terminata ma gli stessi americani mostrano una sostanziale indifferenza ai guai che con la guerra del 2003 in Iraq hanno provocato in Medio Oriente, trascinando il terrorismo in Europa. Nel 2014 sono stati a guardare l’ascesa dell’Isis senza fare nulla. Oppure a Washington sono solo realisti: siamo di fronte a problemi e interessi, che non si risolvono con un’amministrazione presidenziale.
Perché i jihadisti continueranno a costituire un problema? I cambiamenti sono continui anche nella galassia jihadista ma di solito ci limitiamo ad analizzarli quando esplodono in casa nostra. Abbiamo sempre parlato di antagonismo tra Isis e al-Qaida, un bipolarismo che finora ci ha fatto comodo per spiegare gli eventi. Ma anche qui c’è una trasformazione. Dal gennaio scorso in Siria si è formato un ampio fronte Hayat Tahrir al-Sham con circa 30mila combattenti che diventerà cruciale in quel governatorato di Idlib che sta diventando la nuova capitale del jihad, a stretto contatto con il confine turco.

Tra poco forse dovremo fare i conti con un jihad diffuso che si affiancherà ai marchi di fabbrica conosciuti dell’Isis e di al-Qaida. E anche l’Isis cercherà nuovi santuari fuori da Siria e Iraq. I candidati sono lo Yemen, dove l’Arabia Saudita non riesce a vincere contro gli Houthi sciiti, la Libia, il Sahel ma anche il Sinai, area strategica tra Egitto, Israele e Palestina, una sorta di “no man’s land” dove la branca egiziana dell’Isis è responsabile dei più sanguinosi attentati degli ultimi anni.
Il jihadismo non si fermerà domani perché viene da lontano e la sua crescita ci riguarda direttamente. A Damasco si trova la tomba di Ibn Tamiyyah, teologo sunnita morto nel 14° secolo, ispiratore di molti movimenti integralisti contemporanei. È singolare ma significativo che nella Siria di oggi il suo sepolcro sia ridotto a una lapide sbreccata, quasi illeggibile tra l’erba alta e gli sterpi. Questo voluto stato di abbandono, agli occhi dei sunniti, è simbolo evidente dell’empietà del regime di Damasco, una delle tante ragioni profonde per cui i jihadisti anti-Assad vogliono eliminare il clan degli alauiti.
Ma chi ha sostenuto questi movimenti radicali per abbattere Assad, alleato dell’Iran, se non la Turchia, il Qatar, l’Arabia, con l’esplicita approvazione di Usa ed europei? Taymiyya viene citato nei comunicati dei jihadisti per giustificare la guerra santa a sciiti e alauiti, oltre che naturalmente a tutti gli altri miscredenti. Tutto ciò però non sarebbe bastato a fare del jihadismo un’ideologia vincente se non ci fosse stata l’invasione sovietica dell’Afghanistan nel 1979.
È in Afghanistan che è caduto il vero Muro, dieci anni prima di quello di Berlino, quando la vittoria dei mujaheddin, alleati dell’Occidente, sull’Armata Rossa è stata resa possibile dai petrodollari dell’Arabia che impone l’ortodossia del wahabismo, ideologia fondante del regno dei Saud: tutti quelli che non aderiscono a questo dogma sono definiti ipocriti, eretici o miscredenti. Il vero monoteista deve uniformarsi alla sharia che deve essere applicata alla lettera. È questa l’ideologia di al-Qaida che è poi stata trasferita all’Isis di al-Baghdadi e alla galassia jihadista.
La lotta al jihadismo, dal punto di vista militare, di sicurezza e culturale, la dovrebbero fare anche i nostri alleati arabi, compratori di armi e partner d’affari, che manovrano questi movimenti. Ecco un’altra ragione che alimenterà ancora a lungo il jihadismo. Basta saperlo.

 

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