Le milizie popolari curde sono state negli ultimi anni protagoniste – insieme alle forze armate siriane e alle milizie provenienti da Libano, Iran e Iran e grazie al fondamentale contributo russo – della durissima battaglia per impedire che quei territori finissero nelle mani delle organizzazioni fondamentaliste islamiche al servizio degli interessi delle potenze sunnite e in una prima fase degli stessi Stati Uniti.
Sconfitto il tentativo di affermarsi attraverso il criminale sostegno ai tagliagole dello Stato Islamico e di Al Qaeda, il regime di Ankara ha scelto la via dell’intervento militare diretto pur di conquistare la propria fetta di Siria, impedire la saldatura territoriale e politica tra i cantoni curdi ed imporsi rispetto al suo tradizionale alleato – gli Stati Uniti – rivelatosi sempre più debole e incerto in un’area in cui intervengono ormai quasi tutte le potenze mondiali e regionali.
Approfittando della sponda recentemente fornita da Mosca, interessata a contrastare l’assedio Usa e ad assicurarsi uno sbocco militare ed energetico sul Mediterraneo in grado di bypassare il blocco prodotto dal golpe filo Nato in Ucraina, il regime islamo-nazionalista turco tenta per la seconda volta di mettere i piedi in Siria e di impedire che ai propri confini si possa costituire un’entità in grado di indicare la strada dell’autodeterminazione possibile anche a milioni di curdi turchi.
Le milizie e le organizzazioni popolari curde, insieme a quelle delle altre etnie e confessioni del Rojava, hanno dato vita a un esperimento di convivenza, emancipazione progressista e laicità che nonostante difficoltà e contraddizioni costituisce un esempio prezioso in un Medio Oriente balcanizzato da decenni di destabilizzazione, guerra imperialista e di settarismo. L’invasione, ribattezzata paradossalmente “Ramoscello d’ulivo”, non solo semina morte e distruzione in un territorio già martoriato e colpisce soprattutto la popolazione civile, ma si serve delle milizie jihadiste opportunamente riciclate.
Per questo la Rete dei Comunisti aderisce e partecipa alla manifestazione nazionale che si svolgerà sabato 17 febbraio a Roma esprimendo piena solidarietà alla popolazione curda che armi alla mano difende la propria terra dal secondo esercito della Nato per importanza.
Anni di guerra, conseguenza della destabilizzazione imperialista e degli appetiti delle petromonarchie del Golfo e della Turchia, hanno finora provocato 500 mila morti, 5 milioni di profughi interni ed esterni ed altri milioni di persone sotto la soglia di povertà, oltre che una enorme distruzione delle infrastrutture economiche e civili.
In questo quadro una soluzione giusta e duratura per il popolo curdo – le cui sacrosante rivendicazioni nazionali furono frustrate dalla spartizione condotta alla fine della Prima Guerra Mondiale dalle maggiori potenze coloniali dell’epoca – non potrà che affermarsi all’interno di una soluzione complessiva che coinvolga tutti i popoli e gli stati del Medio Oriente e senza le ingerenze delle potenze esterne alla regione.
Una soluzione non può che partire da un immediato cessate il fuoco e dal ritiro delle forze armate turche che violano oltretutto la sovranità territoriale di Damasco, oltre che dall’espulsione dal paese delle milizie jihadiste composte per lo più da mercenari stranieri.
Occorre denunciare e bloccare l’escalation provocata nelle ultime settimane dai bombardamenti e dai blitz della Turchia, di Israele e degli Stati Uniti in un quadro di sostanziale spartizione della Siria in aree di influenza.
Il popolo curdo difficilmente troverà alleati sinceri e leali in uno scenario caratterizzato da una crescente competizione internazionale e dalla mancanza di un campo socialista e antimperialista in grado di frenare e controbilanciare gli appetiti delle diverse potenze in conflitto. Un certo grado di pragmatismo nella strategia delle dirigenze curdo siriane, nel tentativo di utilizzare le contraddizioni tra i vari attori in campo per affermare un nuovo equilibrio, è quindi comprensibile e legittimo.
Ma il diritto all’autodeterminazione di un popolo, per essere reale, non può che essere difeso in piena indipendenza ed in contrasto con le mire dell’imperialismo.
Come ha dimostrato la storia degli ultimi decenni – da Panama all’Iraq alla Libia – legare le proprie sorti allo strumentale sostegno di Washington e permettere agli Stati Uniti di impiantare in Rojava un consistente numero di basi militari, funzionali ad una ulteriore destabilizzazione del paese, rischia di rivelarsi un pericoloso boomerang e un ostacolo non indifferente al perseguimento delle proprie aspirazioni di liberazione nazionale e sociale.
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