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L’autonomia differenziata è eversiva: uccide i diritti, disgrega la Repubblica

L’autonomia differenziata viene da lontano, ma è con la revisione del Titolo V del 2001, che vengono introdotte le prime modifiche costituzionali che riducono la potestà legislativa esclusiva dello Stato a favore di quella concorrente delle regioni, primo passo per diventare esclusiva.

All’Art. 116 si introduce infatti la possibilità di poter accedere a forme particolari e ulteriori di autonomia. Di tale possibilità si faranno ben presto interpreti Veneto, Lombardia ed Emilia Romagna, che svolgeranno in segreto trattative con il governo di centro-sinistra presieduto da Paolo Gentiloni, il quale firmerà le pre-intese, sebbene in carica solo per gli affari correnti, quattro giorni prima delle elezioni del 4 marzo 2018.

Le pre-intese chiedono di far passare alle Regioni quasi tutte le materie previste dai terzi commi degli artt. 116 e 117 del Tit. V della Costituzione riformata nel 2001, precisamente 23 per Veneto e Lombardia, 15, ma consistenti, per Emilia Romagna: si tratta di materie strategiche ed importanti che coinvolgono profondamente la vita quotidiana dei cittadini: scuola, università, ricerca, sanità, ambiente, lavoro e contratti, infrastrutture, trasporti, lavoro, energia, beni culturali ecc.

Alle prime si aggiungeranno poi altre regioni per cui si arriverà ad avere 20 sistemi regionali completamente diversi, alcuni ricchi, altri poveri, ed uno Stato svuotato  delle funzioni di indirizzo e governo.

Le regioni, si finanzieranno trattenendo la maggior parte dei tributi erariali maturati nel proprio territorio, privando così lo Stato del fondo di solidarietà e perequazione, fornito dalle regioni più capienti, per compensare i territori meno ricchi e poveri, soprattutto al Centro Sud, stante l’obbligo dell’invarianza di spesa ai sensi dell’Art. 81 della Costituzione.

Di fatto l’Autonomia differenziata porta allo smantellamento dello Stato sociale e dei principi di uguaglianza e solidarietà nazionale previsti dalla Costituzione: i diritti fondamentali (alla salute, ad un ambiente salubre, all’istruzione, al lavoro, al movimento…) non saranno più uguali su tutto il territorio nazionale, anzi non saranno nemmeno più diritti, perché dipenderanno dalle risorse stanziate.

Questa non è l’autonomia voluta dai padri costituenti, che viaggia insieme alla solidarietà e che vede i territori tra loro interdipendenti, nell’ambito di un quadro definito dallo Stato: questa è autarchia e volontà di secessione. Non è nemmeno prima gli italiani, ma prima chi ha di più, e vuole mantenere il suo di più. Si tratta di un progetto immorale ed iniquo, come il liberismo che lo ha generato.

In questo quadro Sud e Isole rischiano una deriva irreversibile, perché partono da una situazione già svantaggiata per il minor gettito fiscale, ma soprattutto perché negli ultimi venti anni, a questi territori sono stati scientemente sottratti finanziamenti, si parla di 62 miliardi almeno, attraverso un iniquo calcolo della spesa storica pro-capite, calcolata sull’età media, che al Sud è più bassa, e sui servizi esistenti o zero esistenti anziché su quelli necessari.

In verità, l’Art. 117 del Tit. V, prevedeva la “determinazione dei livelli essenziali delle prestazioni concernenti i diritti civili e sociali che devono essere garantiti su tutto il territorio nazionale”, i cosiddetti LEP, punto ribadito dalla legge 42/2009 attuativa del federalismo fiscale. Ma tale determinazione non è mai avvenuta, dal 2001 ad oggi, per ragioni politiche e di convenienza: se fossero stati stabiliti, infatti, vi sarebbe stato un riequilibrio della spesa a favore del mezzogiorno e a scapito del Nord.

Quindi si è continuato a calcolare il fabbisogno secondo la spesa storica, con l’esito paradossale che i comuni che non spendono, per scarsità di risorse o perché del tutto privi di alcuni servizi, in  base alla spesa storica registrano fabbisogni standard inferiori, o addirittura nulli, rispetto ai territori del centro-nord e delle grandi città, dove l’offerta di servizi è ampia e diffusa sul territorio, hanno livelli di spesa più alti e quindi maggiori fabbisogni standard.

Cioè i finanziamenti sono stati distribuiti in base alla regola “tanto hai speso, tanto ti sarà dato”, generando il paradosso che chi meno ha, meno riceve, mentre chi più ha, più riceve. Questo è avvenuto soprattutto al sud.

In questo modo, soprattutto negli ultimi 20 anni, quando la crisi era più forte, si è verificato un enorme travaso dal Sud al Nord di risorse finanziarie, ma anche di risorse umane qualificate.

Un esempio lampante è dato dalla sanità, il cui definanziamento, ancora maggiore al Sud, ha prodotto un progressivo aumento della mobilità sanitaria, che ha comportato, per un milione di ricoveri,  il drenaggio verso il Nord, di quasi 5 miliardi: utili a ripianare i bilanci e i debiti delle aziende ospedaliere del Nord. Altri dati confermano il grande furto al Sud: la spesa media pro capite, che è stata nel 2017 di 11.309 euro nel Mezzogiorno e di 14.168 euro nel Centro-Nord; il fabbisogno standard che va da 727 euro pro capite della Toscana ai 535 della Calabria; la spesa media pro capite per gli asili nido che va dai 1944 euro dell’Emilia Romagna ai 60 della Calabria; il fabbisogno sociale che va dai 119 euro pro capite dell’Emilia Romagna ai 60 della Calabria.

Complessivamente già attualmente, i Comuni poveri ricevono solo il 43% dei fabbisogni reali, perché i ricchi non partecipano alla perequazione e quindi lo stato riesce a coprire solo il 22.5% del fabbisogno.

Ciò significa che funzioni fondamentali e diritti costituzionali, come istruzione, servizi sociali, trasporto pubblico locale, asili nido, polizia locale, rifiuti, nel 50% dei 6700 comuni delle 15 regioni a statuto ordinario, non sono stati svolti o lo sono stati solo molto parzialmente.

Quindi non è vero, come dice la propaganda dei sostenitori dell’Autonomia differenziata, che  la spesa al Sud sia maggiore, ma è l’esatto contrario, cioè è il Nord che spende di più, per cui Lombardia, Veneto ed Emilia Romagna non sono in coda per minore spesa, ma sono in testa per maggiore spesa. Se questa è la situazione attuale, col regionalismo che si vuole imporre, il divario aumenterà fino a separare nettamente un’Italia del Centro-Nord da un’Italia del Sud.

Se in 20 anni le cose sono andate così, la Legge Quadro proposta dal ministro Boccia non potrà impedire che il disegno secessionista vada a termine, perché in essa si prevede che qualora entro 12 mesi dalla data di entrata in vigore della  legge di approvazione dell’intesa non siano stati determinati i livelli essenziali delle prestazioni, gli obiettivi di servizio e i relativi fabbisogni standard, le funzioni sono comunque attribuite con decorrenza dal 1° gennaio dell’esercizio immediatamente successivo e le relative risorse assegnate.

Ma che cosa si vuole veramente con l’Autonomia differenziata? Si vuole agganciare il sistema produttivo e l’economia italiana del Centro Nord alle regioni forti dell’Europa centrale, secondo un progetto che trova consenso trasversale in tutti i partiti. Questo è l’approdo della scelta fortemente liberista fatta dall’Europa  soprattutto a partire da Maastricht e Lisbona. In base a tale scelta l’integrazione europea si farà, se si farà, tra regioni forti, in grado di reggere i livelli di competitività oggi presenti a livello internazionale.  E’ qui che vuole arrivare i Centro-Nord, e, in quest’ottica, il Sud è visto come una zavorra di cui liberarsi.

Peraltro il Centro-Nord, dopo la crisi inizia nel 2007, ha perso molti punti nei confronti dei paesi ricchi dell’Europa centrale, e non è più tra le locomotive trainanti del continente. Una parte del Centro-Nord italiano rappresenta, di fatto, la periferia degli agglomerati dell’Europa centro- settentrionale che marciano a ritmi più sostenuti, ospitano produzioni fortemente specializzate e integrate col terziario avanzato, hanno centri di ricerca e innovazione all’avanguardia e sistemi di istruzione universitaria di livello internazionale.

Lottare contro l’Autonomia differenziata significa opporsi a un tale disegno, perché anche il Nord, se vuole rilanciarsi, non lo potrà fare inseguendo la Germania, ma attraverso politiche  che valorizzino la complementarietà tra Sud e Nord Italia e sanino, innanzitutto, la scandalose disuguaglianze esistenti. Proprio il contrario di quello che si sta facendo spingendo sull’autonomia differenziata.

L’unica via «possibile» per il recupero del ritardo accumulato dall’Italia in Europa è tenere insieme le due parti del Paese e farle crescere insieme. Se dovessero prevalere i fautori dell’aggancio alle economie forti del centro e Nord Europa, le regioni del Nord per raggiungerli e stare al passo, finirebbero per appaltare al privato i servizi e indirizzare le risorse incamerate sui settori produttivi e finanziari, con la conseguente emarginazione dei territori più deboli delle stesse regioni del Centro Nord.

Invitiamo tutti a partecipare e sostenere la mobilitazione lanciata dal Comitato nazionale contro ogni Autonomia differenziata, che sta organizzando in tutta Italia, nella settimana dal 9 al 14 dicembre, la “Staffetta per l’unità della repubblica e dei diritti “ per il ritiro di ogni Autonomia differenziata,  con presidi, mobilitazioni e lezioni in piazza.

Il comitato sta raccogliendo molte adesioni, tra cui quella della Flc Cgil nazionale, tra le prime organizzazioni a mobilitarsi, segno che la consapevolezza della gravità di questo disegno ultraliberista si sta diffondendo.

*Comitato nazionale contro l’autonomia differenziata

 

 

 

 

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1 Commento


  • Manlio Padovan

    Certo, il problema si è appesantito a danno del sud. Ma a me pare che da sempre, da quella famigerata unità fatta con i piedi, il nord ha sempre rubato al sud: anzi, l’unità fu fatta per andare a derubare il sud. Non mi pare che manchino le fonti di informazione sull’argomento.
    A leggere bene Sciascia e Consolo, per esempio, si impara che l’autonomia alla Sicilia fu data al solo scopo di lavarsene le mani. Così la Chiesa ha potuto approfittarne e proteggere la mafia e i suoi padrini e picciottti.
    Non abbiamo il senso dello Stato, della comunità nazionale.

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