La Germania ha annunciato che spenderà più di 40 miliardi per dismettere le sue centrali a carbone. L’intesa è stata raggiunta giovedì 16 gennaio dal governo della Germania e dalle amministrazioni delle sue quattro regioni minerarie, che hanno lanciato il “processo di abbandono progressivo” del carbone.
La notizia è stata rilanciata dalla stampa italiana con grande enfasi. «Svolta verde», «lo stop inizia subito», «decisione storica» . Sono solo alcuni titoli di alcune grandi testate italiane che tendono a far credere che la cosa sia già in fase di realizzazione. Ma non è così: quel processo sarà molto lungo, complesso e non del tutto chiaro e m, tuttavia, la grande stampa italiana ci teneva tanto a fare, anche questa volta, la solita figuraccia.
Quando la Germania chiuderà la sua ultima centrale a carbone, un bambino nato quest’anno avrà 18 anni. È troppo tardi, dicono i critici. Ed hanno ragione.
Di vero c’è solo un documento firmato che impegna la Germania a non essere più dipendente dal carbone soltanto a partire dal 2038. Ma soprattutto Il piano sarà operativo soltanto dopo l’approvazione da parte del Parlamento federale che dovrebbe arrivare alla fine della prossima primavera.
Inoltre, in cambio della chiusura delle centrali, le aziende hanno ottenuto rimborsi stratosferici da parte dello Stato. Al colosso RWE, ad esempio saranno versati ben 4,3 miliardi di euro di indennizzi nei prossimi 15 anni. In particolare, 2,6 miliardi in cambio della chiusura del bacino minerario della Renania del Nord-Westfalia. E altri 1,75 per Brandeburgo, Sassonia e Sassonia-Anhalt. Nelle stesse regioni, poi, sarà attuato un vasto piano di pre-pensionamenti e riconversioni. Solo per RWE l’abbandono della lignite implicherà la scomparsa di seimila posti di lavoro. Una transizione che dovrebbe costare circa 40 miliardi di euro.
La maggior parte delle 84 centrali a carbone attualmente in servizio in Germania non verrà chiusa prima del 2030, come denunciato da Olaf Bandt, presidente dell’associazione ecologista BUND. Se si considerano gli impegni mondiali in termini di riduzione delle emissioni di CO2 attendere altri 18 anni per dire addio al carbone sembra una decisione non proprio coerente. «Occorrerebbe farlo subito, i mezzi tecnici esistono. È una questione di volontà politica. Il 2035 è assolutamente troppo lontano», ha commentato su Twitter l’associazione ecologista Ende Gelände. Tanto più che, mentre si approva un calendario di chiusure degli impianti a carbone, la stessa Germania si appresta a metterne in servizio una nuova. Si tratta della Datteln 4, che sarà operativa a partire da quest’anno: un impianto da 1.100 megawatt, costato la bellezza di 1,5 miliardi di euro.
Infine, la stessa coerenza vorrebbe che il piano di chiusure nazionale fosse seguito anche da politiche conseguenti all’estero. Non pare proprio che sia di questo avviso la Siemens ed il suo amministratore delegato Joe Kaeser, contro il quale il 13 gennaio sono scese in piazza migliaia di persone ad Amburgo. Il giorno prima, infatti, il dirigente ha confermato la partecipazione del gruppo ad un gigantesco progetto per lo sfruttamento di una miniera di carbone in Australia che assieme al gruppo indiano Adani, dovrebbe produrre 27 milioni di tonnellate all’anno. «Un’iniziativa catastrofica», secondo la divisione tedesca del movimento ecologista Fridays for Future.
Insomma, la dura realtà è questa qui e certo l’intesa tedesca del 16 gennaio scorso non rende il mondo meno lontano dall’aver risolto il problema dei cambiamenti climatici, come, peraltro, era già stato ampiamente dimostrato dall’avvilente fallimento della Cop 25 di Madrid che ha compelatamente ingnorato i suggerimenti dello Special Report sul “1.5 degrees Celsius” redatto dal Gruppo intergovernativo sul cambiamento climatico (Intergovernmental Panel on Climate Change – IPCC) in Corea nell’ottobre del 2018.
Il rapporto mostrava come le emissioni globali dovrebbero essere dimezzate entro il 2030, per poi essere totalmente azzerate al massimo entro il 2050. Se infatti si dovesse continuare ad emettere CO2 ai ritmi odierni, ci si attende che la temperatura del Pianeta superi il grado e mezzo di aumento entro pochi anni.
Secondo gli esperti e scienziati dell’IPCC un aumento di 2 gradi Celsius della temperatura media globale è assai più pericoloso di quello che si pensava nel 2015, quando fu firmato l’Accordo di Parigi. Il nuovo rapporto dell’IPCC sottolinea rischi significativamente più elevati per il genere umano, la biosfera e le economie,
Pertanto si dovrebbe limitare l’aumento della temperatura globale media a 1,5 gradi, invece che a 2 gradi e ciò farebbe una grande differenza per la vita negli oceani e sulla terra. Proteggerebbe centinaia di milioni di persone dalle ondate di calore estreme, dimezzerebbe l’aumento della popolazione che soffrirà la scarsità d’acqua e aiuterebbe a raggiungere gli obiettivi dello sviluppo sostenibile e di sradicare la povertà. Siamo già a 1 grado Celsius sopra i livelli preindustriali.
Se le temperature continueranno a crescere alla velocità attuale, il livello di 1,5 gradi verrebbe raggiunto tra il 2030 e il 2052. Un ulteriore aumento di 0,5 gradi aumenterebbe di molto i rischi e gli impatti dei cambiamenti climatici. Già con 1,5 gradi si potrebbero destabilizzare le calotte glaciali, uccidere fino al 90 per cento dei coralli e causare gravi problemi agli ecosistemi marini, all’Artico e alle persone.
Il degrado ambientale in generale, e i cambiamenti climatici in particolare, sono già oggi tra le cause scatenanti di notevoli spostamenti di popolazioni sfollate costrette ad abbandonare i loro territori per sfuggire a siccità, inondazioni, carestie. Questa tendenza sta purtroppo aggravandosi e con un aumento di 2 gradi i flussi migratori sarebbero certamente ingestibili e incontrollabili.
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