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Scene di lotta al coltello tra gli oligarchi ucraini

E’ partita un’altra volta la guerra di tutti contro tutti ai vertici politici (ci si passi il termine) dell’Ucraina. Non che sia mai completamente cessata; ma, come spesso accade in queste situazioni, circostanze esterne costringono i protagonisti ora a sorridersi a denti stretti, ora a infilare le mani nelle tasche dei compari, fingendo di far loro dei regali, ora a raccomandar loro di starsene buoni buoni, pena possibili incidenti.
Da questo punto di vista, naturalmente, l’Ucraina dell’euromajdan non è un’eccezione: venuta su la junta golpista sotto il manto della “lotta ai politici corrotti”, per un po’ ha avuto buon gioco nel convincere parte della popolazione dei propri “ideali” europeisti, occidentali, antioligarchici, tutti conditi in salsa indipendentista, nazionale, patriottica e, soprattutto, anticomunista. Come se fossero un mistero i nomi dei magnati del gas, del carbone, della finanza, della chimica, che lottavano a coltello tra sé all’epoca del deposto presidente Janukovič (lui stesso e la sua “famiglia” ben inseriti nel sistema oligarchico) e, prima, del presidente Leonid Kučma, considerato “il padre dell’Ucraina dei magnati” e che hanno continuato a scannarsi anche dopo.
I vari
Fridman, Akhmetov, Firtaš, Kolomojskij, Timošenko, Porošenko, Pinčuk, Bogoljubov, divenuti alcuni padrini politici di se stessi, altri alleatisi con protettori politici quali l’ex capo dell’amministrazione presidenziale (con Janukovič) Livočkin, trasformatosi poi in sponsor del golpista Vitalij Klyčko, o l’ex Ministro per l’energia e premier Bojko. Come se fossero un mistero le sponsorizzazioni dei reparti e dei battaglioni neonazisti, usati dai magnati nelle guerre tra clan e, contemporaneamente, come punte avanzate terroristiche nella campagna contro il Donbass.
Le coltellate tra magnati poi non potevano non allargarsi alla cerchia dei loro padrini e delfini “politici” e coinvolgere qua e là, negli intervalli tra un’offensiva e un attacco alle città del Donbass, le strutture armate mercenarie al soldo di questo o quell’oligarca. Poi, su su, in una esibizione sempre più plateale della propria miseria sociale e nel modo tipico dei parvenu “politici” consci del proprio ruolo traballante e sempre prossimo alla fine, ecco che gli stessi ras centrali non nascondono più gli sgarbi reciproci fatti finora l’un l’altro solo alle spalle. E l’arroganza o la prepotenza crescono in genere di pari passo con la sensazione del ruolo in un primo tempo perduto e poi riacquistato; gli istituti dello stato formalizzano quindi lo status rivestito dal dato soggetto nel dato momento.
Il tribunale di Kiev ha accolto la querela avanzata dall’ex governatore della regione di Dnepropetrovsk, l’oligarca Igor Kolomojskij, ed ha considerato calunniose le accuse di contrabbando ed evasione fiscale lanciate al suo indirizzo nel luglio scorso (tra l’altro, dagli studi della TV “Studio 1+1” di proprietà dello stesso Kolomojskij) dal governatore di Odessa, l’ex presidente yankee della Georgia Mikhail Saakašvili. La disputa tra i due “dignitari” va avanti da mesi, con il presidente Porošenko che, nella lotta che lo vede da sempre impegnato contro le pretese di Kolomojski sulle strutture energetiche ucraine, ha pensato bene di far tesoro dell’esperienza dell’ex presidente georgiano nel campo delle “riforme democratiche” targate Nato. Nel conflitto, non ha mancato di inserirsi anche il primo ministro Arsenij Jatsenjuk che, sentendosi mancare sempre più il terreno sotto i piedi e consapevole delle mire di Saakašvili sulla sua poltrona, si è da subito schierato con Kolomojskij, a cui d’altronde lo legano anche i comuni nessi con Pravyj Sektor. Non scandalizzò nessuno, mesi fa, la sentenza pronunciata da Kolomojskij contro Saakašvili, paragonato a un cane rabbioso. “Gli oligarchi dominano tutto! Il Governo serve oggi gli interessi di Kolomojskij, come prima quelli di Akhmetov”, aveva ululato il virgineo Mikhail. Gli aveva abbaiato contro il prode Jatsenjuk: “non conviene all’ex presidente lanciare false accuse. Mi sono imbattuto in una nuova porzione di rivelazioni sul principale georgiano di Odessa”. Tirato direttamente in ballo, Igor Kolomojskij non aveva tardato a controbattere al “cane senza museruola” che, se “morde qualcuno, deve essere punito, insieme col padrone. In questi casi, il cane viene abbattuto. Nel nostro caso, si può rispedire per raccomandata in Georgia, perché risponda delle persone che ha morso anche lì”.
Un vero dibattito politico sulla sostanza delle cose, insomma: appalti truccati e assegnazioni a compagnie offshore o nomine di amici degli amici a capo di porti, antiporti e terminali portuali, tra cui, appunto, quello di Odessa, in odore ora anche di petrolio Isis. Insomma, se lo sponsor dei neonazisti di Pravyj sektor, Igor Kolomojskij, ricomincia a percepire un certo vento in poppa, Saakašvili al contrario, nella sua “campagna moralizzatrice” ucraina, qualche timore pare avvertirlo e comincia a perdere pezzi. Le pedine che aveva fatto arrivare dalla Georgia a dargli man forte nella lotta alla corruzione (degli altri) si fanno beccare come novellini. Due settimane fa, all’aeroporto di Borispol, è stata fermata Ekaterina “Eka” Eguladze, vice Ministro degli interni, chiamata a Kiev dalla Georgia per ripulire la polizia ucraina sul modello di quella di Tbilisi, aiutata in questo dalla ex collega (all’epoca in cui le due amiche lavoravano nell’amministrazione del presidente Saakašvili) Khatia Dekanoidze: Eka stava tentando di esportare 4 milioni di $. Ufficialmente la “corazzata anticorruzione”, in procinto di partorire, era diretta in Francia, dove vive il consorte. Secondo alcune versioni, una somma tra i 10 e i 14 milioni di $ sarebbe stata stanziata ai fini di riforma degli organi di sicurezza, ma la bella Eka e il suo principale, il Ministro degli interni Arsen Avakov, avrebbero stabilito di dirottare la valuta forte per la propria sicurezza personale.
D’altronde, può darsi che Eka Eguladze volesse allontanarsi, perché turbata dal conflitto in corso tra il suo attuale capo e l’ex boss dei tempi georgiani. La stessa amministrazione presidenziale ha sentito il bisogno di definire “vergognoso per il paese” il battibecco di strada scoppiato nelle ultime ore tra Avakov e Saakašvili. Anche in questo caso, il confronto verteva sull’alta dialettica politica: la privatizzazione delle strutture dell’antiporto di Odessa. Saakašvili accusava Avakov di “intesa col nemico” per presunti contatti con un non meglio precisato oligarca russo di “Uralkhima”; la risposta dell’ucraino era stata un bicchiere d’acqua lanciato in faccia all’ex georgiano. Saakašvili aveva detto anche, dopo che Avakov lo aveva accusato di “corruzione e abuso di potere”, che quest’ultimo controllerebbe direttamente “formazioni armate informali”. Saakašvili non ha mancato poi di lamentare come sia Avakov, sia il premier Jatsenjuk (anche lui tirato in ballo per la privatizzazione del porto) gli consiglino vivamente di “togliersi di mezzo dal nostro paese”; “ma io non me ne vado; non darò loro la possibilità di derubare la mia tanto amata Ucraina”, ha detto Saakašvili, che d’altronde non può tornare in Georgia (Tbilisi gli ha tolto la cittadinanza) dove è ricercato per sottrazione di fondi pubblici e implicazione in un omicidio. Ma anche il terreno ucraino sembra scottargli sempre più, accusato ora da deputati del “Blocco Porošenko” (nemmeno degli amici ci si può più fidare!) anche di decurtazione di denaro di un fondo a favore dei reduci dalla campagna nel Donbass: denaro finito in banchetti, spettacoli di rappresentanza, auto di lusso.
Lo spettacolo attuale viene rappresentato a una settimana dalla visita a Kiev del vice presidente USA Joe Biden il quale, intervenendo alla Rada suprema, aveva qualificato l’Ucraina come il paese più corrotto al mondo e aveva chiamato la leadership di Kiev al massimo sforzo per debellare la corruzione. Le sue parole avevano costretto il New York Times a scrivere di dubitare delle buone intenzioni di Biden, sapendo che il figlio Hunter fa parte del consiglio direttivo della Burism Holdings, una delle imprese di gas più forti dell’Ucraina, di proprietà dell’ex Ministro per l’ecologia (con Janukovič) Nikolaj Zločevskij, dal 2014, proprio quando nell’ambito di un’inchiesta sul riciclaggio, le autorità britanniche congelarono 23 milioni di $ depositati da Zločevskij nelle banche londinesi.

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