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Kiev: due anni dopo confessano i cecchini neonazisti di euromajdan

Il 20 febbraio 2014 fu il giorno più tragico della euromajdan ucraina, con le decine di morti in majdan Nezaležnosti (piazza Indipendenza) a Kiev e nelle strade adiacenti.
Il 20 febbraio 2016, mentre qualcuno degli “attivisti” di due anni fa, ricorda, con macabra dovizia di particolari, come avesse fatto fuoco sugli agenti indifesi (quelli che vari media occidentali definirono i “feroci mastini” di Janukovič), sparando loro alla nuca con fucili di precisione, alcune centinaia di manifestanti sono tornati sul Kreščatik, la via principale di Kiev. Del resto, la verità su chi fossero i cecchini che quel giorno avevano sparato sia sugli agenti che sulla folla, non era rimasta a lungo nascosta. I “bravi” non avevano tardato a prendersi il merito delle fucilate e già il 26 febbraio 2014, di ritorno da Kiev, l’allora Ministro degli esteri estone Urmas Paet, in una conversazione telefonica con l’ex responsabile degli affari esteri UE, Catherine Ashton, le raccontava come i cecchini di euromajdan fossero collegati ai caporioni della rivolta.
Complessivamente, secondo i dati del Ministero della sanità ucraino, tra il 30 novembre 2013 e il 14 aprile 2014, si registrarono 106 morti ammazzati, di cui 49 nella sola giornata del 20 febbraio.
E questa mattina, riferisce la Tass, i manifestanti hanno devastato gli uffici delle banche russe “Alfa-bank” e Sberbank e delle imprese di Rinat Akhmetov, il magnate del Donbass che gli “euromajdanisti” accusano di collusione con i “terroristi” della Novorossija. Secondo il canale tv ucraino “112”, protagonisti della bravata mattutina sarebbero stati, sotto gli occhi benevoli della polizia, gli squadristi di OUN (il nome riprende quello dei filonazisti di settanta anni fa), staccatisi da Pravyj Sektor.
Ma la giornata del 20 febbraio 2016 racchiude in sé non solo il ricordo dei tragici avvenimenti di due anni fa, bensì rappresenta quasi una sintesi della strada percorsa in questi due anni dall’Ucraina del golpe organizzato, preparato, diretto e attuato sotto l’immediata e aperta regia statunitense. Una strada che è ben lungi, per ora, dal trovare uno sbocco. Dopo la sceneggiata, consumatasi lo scorso 16 febbraio, della finta sfiducia al governo guidato dal pupillo di Victoria Nuland, Arsenij Jatsenjuk, oggi l’ex georgiano-yankee Mikhail Saakašvili, dopo aver parlato di un “golpe oligarchico”, è tornato a dire che la crisi in Ucraina è solo agli inizi.
E pare che lo stesso presidente Petro Porošenko si sia reso conto da tempo di tale realtà, oltre che della precarietà della propria posizione; senza attendere di essere rimbrottato dal premier – “il presidente dovrebbe mordersi la lingua”, aveva detto Jatsenjuk – il magnate Porošenko non ha certo aspettato gli ultimi sviluppi per mettere al sicuro la propria posizione: da tempo sta trasferendo all’estero la sede delle proprie imprese, non solo della più famosa Roshen, ma anche di attività minori. RT riporta un servizio di InoTV, secondo cui le imprese di proprietà del presidente evitano di pagare le tasse in Ucraina, attraverso società offshore a Panama e in Belize. Alcune produzioni alimentari di Porošenko viaggiano dall’Ucraina alla Turchia attraverso l’inglese KULBERG INT. TRADING LLP; secondo la legislazione di sua maestà, le imprese marcate LLP (Limited liability partnerships) pagano le tasse nel paese in cui sono registrate: nel caso specifico, in Belize.
Ciò accade in un paese in cui, se il parlamento non è in grado di sfiduciare il premier imposto e guidato d’oltreoceano, si sente però così forte da decidere questioni vitali per la popolazione affamata, quali la toponomastica, nazionale e straniera. Dopo la legge che impone alle amministrazioni locali di cambiare i nomi di città e villaggi che ricordino il passato sovietico, ecco che ora si va direttamente al cuore del problema. La Russia non dovrà più chiamarsi Russia (da tempo a Kiev si va dicendo che Mosca avrebbe usurpato il nome dell’antica Rus) ma Moscovia e il nome Russia dovrebbe essere attribuito all’Ucraina. Lapidario il commento del leader crimeano Sergej Aksënov: “Una risata e si prosegue oltre”. D’altronde in Crimea ne sanno qualcosa del nazionalismo ucraino e delle mire, anche attuali, sulla penisola. Nonostante l’ex premier ucraino Nikolaj Azarov non escluda il riconoscimento, da parte di Kiev, della Crimea come russa, i tentativi per la sua riconquista non sono neanche tanto nascosti. L’ex primo ministro del presidente Janukovič cita l’esempio dell’attuale Kaliningrad, l’enclave russa che un tempo, col nome di Könisberg, era la capitale della Prussia, ma che oggi a “nessun leader tedesco verrebbe in mente di chiedere indietro alla Russia. Così a nessun leader occidentale verrà in mente di chiedere il ritorno della Crimea”.
E, però, sono all’ordine del giorno i propositi di “riconquista” della penisola, soprattutto da parte del medžlis dei tatari di Crimea emigrati in Ucraina. Oltre il tentativo di blocco economico della Crimea, messo in atto a novembre dagli attivisti del medžlis, in combutta con i neonazisti di Pravyj Sektor, sono noti i legami dei tatari ucraini con i gruppi terroristici turchi (soprattutto i Lupi grigi) per la preparazioni di azioni diversive sulla penisola. E a più riprese si è scritto dei legami tra alcuni battaglioni neonazisti e i gruppi islamisti che tentano azioni terroristiche in territorio russo; si è scritto di reparti ceceni che, in Dobass, sono schierati dalla parte di Kiev, riforniti di armi da quegli stessi stati che armano gli islamisti in Siria, cioè Qatar, Kuwait, Emirati arabi e Arabia Saudita. Si sa dei reparti di Pravyj Sektor (e del premier Jatsenjuk) che a suo tempo avevano combattuto contro i russi in Cecenia. Si “sussurra” dei legami segreti tra Kiev e Isis: terroristi ceceni, per loro stessa ammissione, hanno combattuto in Siria dalla parte degli islamisti e in Ucraina dividono gli acquartieramenti con Pravyj sektor. Si ricorda come, a dicembre 2014, dopo il sanguinoso assalto di una banda islamista a Grozny, costato la vita a 14 poliziotti ceceni, alla Rada ucraina deputati del Partito radicale e comandanti di battaglioni neonazisti proponessero di aprire un secondo fronte contro la Russia, fornendo appoggio e basi ai terroristi ceceni e daghestani e come uno dei capi del battaglione “Azov”, il deputato Igor Mosijčuk invitasse a stimolare azioni del tipo di quella di Grozny in tutta l’Asia centrale. Come sempre, però, i media di regime nostrani glissano sulle gesta di neonazisti ucraini e islamisti ceceni quando sparano sui civili del Donbass: si parla solo di “movimenti indipendentisti ceceni”. Il terrorismo che dice di rifarsi all’Islam è tale solo se attacca gli interessi occidentali; in caso contrario, si tratta di insorti per giusta causa!  
Forse anche per questo, per le sue recenti dichiarazioni contro le trame dei gruppi terroristici islamisti, per le dimostrazioni di fedeltà, proprio nel momento della massima tensione di Mosca nella lotta contro il terrorismo foraggiato da Turchia e petromonarchie, che è cresciuto di molto l’apprezzamento dei russi nei confronti del “principale musulmano” di Russia, il leader ceceno Ramzan Kadyrov. Tenendo a mente cosa significhi e, soprattutto, cosa abbia significato la Cecenia per il cittadino russo medio, non è di poco conto che secondo un sondaggio del VTsIOM oggi il 62% degli intervistati dichiari di sapere chi è Kadyrov e quale ruolo rivesta; di questi, la metà lo tiene in alta considerazione, mentre nel 2007 appena l’11% lo aveva in simpatia. Dichiara di aver fiducia in lui il 15% (il doppio del 2007) e solo il 9% non ha fiducia in lui e il 2% dice di temerlo. Il 50% ritiene che egli porti solo vantaggi alla Russia e il 57% lo considera un buon alleato di Vladimir Putin. 

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