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Obama gela Erdogan, il ‘sultano’ infuriato con Usa e Ue

Il presidente turco Recep Tayyip Erdogan è in viaggio per gli Stati Uniti per la seconda visita della sua presidenza, in un momento in cui le relazioni tra i due tradizionali alleati della Nato sono in forte crisi a causa delle crescenti divergenze sulla lotta allo Stato Islamico – che Ankara sostiene e Washington, seppur timidamente, combatte dopo averne tollerato lo sviluppo e la crescita – e soprattutto a causa della pretesa da parte della nuova potenza regionale di obbligare la Casa Bianca a seguire la propria agenda politica e i propri interessi nell’area.

Da tempo gli Stati Uniti chiedono al regime turco di impegnarsi contro le milizie islamiste attive in Siria e di diminuire la pressione nei confronti dei curdi siriani, sostenuti dalla scorsa estate da Washington nel tentativo di poter contare su una forza di terra all’interno di una coalizione internazionale contro Daesh che fino all’intervento russo aveva messo a segno ben pochi risultati, e quasi tutti ascrivibili alla resistenza delle Ypg curde. Da parte sua Erdogan, lungi dal cessare il sostegno ai jihadisti sia per rafforzare il suo potere all’interno del paese sia per aumentare la destabilizzazione del paese confinante, insiste con Washington per avere il via libera all’invasione della Siria allo scopo di creare una ‘zona cuscinetto’; gli Stati Uniti hanno dovuto penare non poco prima che Ankara mettesse a disposizione dei caccia Usa le sue basi nel sud della Turchia e comunque il contributo delle forze armate turche alla lotta contro Daesh è rimasto nullo.

Erdogan, presidente dall’agosto del 2014 dopo un decennio da premier, ha detto prima di partire stamattina che avrà un incontro con il presidente Usa Barack Obama, ma la Casa Bianca lo ha gelato precisando che ad incontrarlo sarà il vicepresidente Joe Biden. Un portavoce dell’amministrazione Usa si è limitato a dire che nel corso del vertice sul nucleare in programma giovedì e venerdì, Erdogan e Obama “avranno l’opportunità di parlare” anche se non è in programma alcun incontro ufficiale.
Il capo dello Stato turco è negli Usa per il vertice, ma anche per inaugurare una grande moschea nel Maryland, uno degli ennesimi tentativi da parte del regime neo-ottomano di esportare il suo modello religioso e culturale conservatore ed egemonico. Secondo il quotidiano turco Hurriyet il presidente voleva inaugurare la moschea del Maryland, presentata come l’unica negli Usa con due minareti, insieme al presidente Obama, ma anche in quel caso il leader statunitense ha deciso di declinare l’invito. Per cercare di aggirare il governo, nel corso della sua permanenza negli Stati Uniti, Erdogan ha in programma una cena con alcuni imprenditori locali e, forte della rinnovata collaborazione tra Ankara e Tel Aviv, un incontro con i leader della potente comunità ebraica statunitense.

Ad incrinare ulteriormente i già degradati rapporti tra Stati Uniti e Turchia negli ultimi giorni ci sono state le preoccupazioni pubblicamente espresse da Washington sul mancato rispetto da parte del regime turco della libertà di espressione. Le prese di posizione dell’ambasciata statunitense ad Ankara a favore dei giornalisti e degli accademici finiti sotto processo perché critici nei confronti del governo hanno irritato non poco l’establishment erdoganiano.
Inoltre l’arresto a sorpresa la scorsa settimana negli Usa dell’imprenditore turco-iraniano Reza Zarrab, coinvolto nel 2013 in un grave scandalo che ha colpito l’entourage di Erdogan, è stato accolto con soddisfazione dai nemici di Erdogan, in particolare da Fethullah Gulen, l’ex padrino e mentore del ‘sultano’ residente negli Stati Uniti e da alcuni anni suo acerrimo rivale – seppur da posizioni liberali e islamiste conservatrici – sul quale pende un mandato di cattura spiccato in patria. In un durissimo attacco alla politica Usa in Turchia, il quotidiano filogovernativo Sabah ha scritto che l’amministrazione Obama rischia di compromettere interamente i rapporti bilaterali tra i due paesi. Obama rischia di “entrare nella storia come il presidente fallimentare che ha causato la fine dei rapporti con la Turchia” ha scritto il commentatore Serdar Karagoz.

Recentemente, il Pentagono e il dipartimento di Stato hanno ordinato alle famiglie del personale del Dipartimento della Difesa statunitense di abbandonare il sud della Turchia ‘per motivi di sicurezza’. La misura interessa circa 650 persone tra familiari di soldati e del personale diplomatico presenti finora nelle zone sudorientali e sudoccidentali del paese, in pratica quelle interessate dalla repressione contro la guerriglia e i movimenti popolari curdi ma anche le zone dove più forte è il radicamento e l’infiltrazione di gruppi e cellule dello Stato Islamico o di movimenti turchi collegati a Daesh. Come se non bastasse, il Dipartimento di Stato ha invitato i turisti statunitensi a evitare di viaggiare in Turchia sempre per ‘motivi di sicurezza’, un duro colpo ad un settore turistico già in caduta libera.
D’altronde di giorno in giorno si fanno più insistenti le voci di un nuovo attacco dei jihadisti sul suolo turco dopo l’attentato di Istanbul che ha fatto strage di turisti – due israeliani, due israelo/americani ed un iraniano – lo scorso 19 marzo.
Secondo gli allarmi diffusi finora, l’Isis starebbe preparando un attacco imminente contro una scuola o un asilo nido ebraico in Turchia; secondo le voci l’obiettivo dell’attentato potrebbe essere la sinagoga di Istanbul nell’antico quartiere di Beyoglu, che ospita anche un centro giovanile e una scuola. A rivelare i piani di un attacco definito ‘imminente’ sarebbero stati sei membri dello Stato Islamico arrestati nella città di Gaziantep, a poche decine di chilometri dal confine con la Siria e da tempo base logistica in suolo turco dei jihadisti. Nel mirino degli attentati dell’Isis ci sarebbero state le celebrazioni del Newroz curdo – quasi tutte vietate dal regime turco – e poi il derby di calcio tra Galatasaray e Fenerbahce, match per questo sospeso e posticipato dalle autorità.

Ma, come sempre, il regime turco non sembra particolarmente preoccupato della possibilità di un nuovo attacco terroristica jihadista, quanto piuttosto dalle critiche e dal dissenso. Nei giorni scorsi il presidente in persona ha proferito in televisione un durissimo atto d’accusa contro i diplomatici stranieri che hanno osato presenziare venerdì ad un’udienza del processo a carico di due giornalisti – Dan Dundar ed Erdem Gul, rispettivamente direttore e caporedattore del quotidiano Cumhuriyet – accusati di reati gravissimi per i quali la corte ha chiesto l’ergastolo più altri 30 anni di reclusione perché accusati di aver diffuso notizie false e segreti di stato – corredati però da foto e filmati – a proposito del sequestro di alcuni camion di proprietà dei servizi segreti turchi pieni di armi dirette ai jihadisti in Siria. Dopo tre mesi di reclusione in condizione di quasi totale isolamento, i due giornalisti sono stati scarcerati per ordine della Corte Costituzionale turca ma poi le autorità hanno imposto che il processo nei loro confronti si svolga ‘a porte chiuse’.

Dopo l’irruento j’accuse presidenziale il governo ha formalmente protestato nei confronti dei paesi i cui rappresentanti diplomatici si erano affacciati al processo, accusati dalle autorità di Ankara di “ingerenza”. «Questa non è la vostra nazione, questa è la Turchia», ha tuonato Erdogan. «Chi siete? Che cosa ci fate lì?» ha detto Erdogan rivolto ai diplomatici impiccioni in un infuocato intervento televisivo da Istanbul, in cui ha accusato i rappresentanti di alcuni governi di aver voluto realizzare una «dimostrazione di forza», sfidando la sua autorità e mettendo in discussione la versione ufficiale dei fatti diffusa dal governo. Tra i paesi messi all’indice come parte di una macchinazione internazionale contro la Turchia ci sono l’Italia, la Germania e la Gran Bretagna, oltre agli Stati Uniti.

Inoltre, alcuni giorni fa, il presidente turco ha convocato l’ambasciatore della Germania ad Ankara per esprimere le sue rimostranze a proposito di un programma andato in onda sulla televisione tedesca: due minuti di satira trasmessi dall’emittente pubblica NDR durante i quali una canzoncina prendeva in giro Erdogan, raffigurato nel lussuoso ed enorme palazzo presidenziale che si è fatto costruire, e nel quale si diceva che “Un giornalista che scrive qualcosa che non piace a Erdogan finisce subito in galera”.

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