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La Costituzione ucraina e l’autonomia delle regioni

Siamo onesti; cerchiamo di non mancare di umiltà; accettiamo ciò che da secoli avremmo dovuto riconoscere, se non ci avesse fatto scudo la nostra innata mania di primogenitura nei campi più disparati del sapere. E’ tempo di ammetterlo: se non ci fosse stata l’Ucraina, nei campi fondamentali dello scibile umano saremmo ancora fermi all’anno mille, o anche più addietro. Ma non l’Ucraina in quanto nazione: no, l’Ucraina che solo negli ultimi due anni ha potuto ergersi a baluardo della civiltà occidentale e a “vallo europeo” contro la nuova Orda d’Oro semiasiatica della Moscovia. E’ proprio grazie a questa Ucraina che, a partire dalla “svolta” del febbraio 2014, siamo riusciti a stabilire che i nonni della Gioconda leonardiana erano di Odessa; possiamo affermare che Buddha è nato a Zaporozhe; non è più un mistero che furono i cosacchi a collaudare i primi sottomarini al mondo e che per Mosca è tempo di abbandonare il nome di Russia, usurpato a spese della Rus di Kiev. Ma tanto primeggiare nei campi della scienza e dell’arte sarebbe rimasto fine a se stesso, se non fosse stato coronato dalla legge fondamentale del paese: la prima Carta costituzionale al mondo. Anch’essa ucraina.

Quest’ultima scoperta è stata annunciata urbi et orbi proprio ieri, in occasione della Festa della Costituzione. L’annuncio si deve a non meglio identificati “patrioti ucraini”, che hanno pubblicato su twitter un’immagine della “prima costituzione al mondo”, dato che, scrivono i patrioti, “le Costituzioni in Europa e in USA apparvero solo 70 anni più tardi”. In effetti, la Carta redatta nel 1710 dal cosacco Pilip Orlik (per la verità, nato in territorio oggi bielorusso, ma allora appartenente alla Rec Pospolita polacco-lituana e morto nel principato di Moldavia, oggi territorio rumeno; ex funzionario di Ivan Mazepa, che tradì Mosca per la Svezia nella guerra russo-svedese) era un patto sottoscritto tra lui, in quanto getman dei combattenti di Zaporozhe e quelle truppe: “Pacta et Constitutiones legum libertatumqe Exercitus Zaporoviensis”. Patto mai entrato in vigore.

Per quanto riguarda invece la Costituzione attuale, sempre ieri, Petro Poroshenko ha detto di ritenere necessarie alcune modifiche nella parte relativa alla “Repubblica autonoma di Crimea” – che da due anni non fa più parte dell’Ucraina – senza specificare di quali variazioni dovrebbe trattarsi, accennando però a non meglio precisati “diritti dei tatari di Crimea nell’ambito dello Stato ucraino”. Molto più netto e preciso, invece, Poroshenko lo è stato a proposito dei mutamenti costituzionali riguardanti la decentralizzazione, previsti dagli accordi di Minsk sul Donbass: nessuna riforma “prima della creazione di condizioni di sicurezza nel Donbass”. Le variazioni previste, infatti, sono state approvate solo in prima lettura e Petro ha dichiarato che “le modifiche alla Costituzione non saranno votate né oggi, né domani e nemmeno il 4 luglio… tra le condizioni prioritarie” ha detto, “deve essere stabilito un pieno e duraturo cessate il fuoco” – che le truppe di Kiev si preoccupano quotidianamente di violare: ancora civili feriti, ieri e l’altro ieri – “la Russia deve ritirare tutti i propri soldati e mezzi militari dal territorio ucraino. Si deve procedere a un reale disarmo di tutti i raggruppamenti illegali e stabilire una zona di sicurezza. Solo dopo di ciò io chiederò alla Rada di votare in seconda lettura le modifiche costituzionali relative alla decentralizzazione”.

Le dichiarazioni di Poroshenko seguono quelle della cancelliera Merkel che, in un colloquio col premier ucraino Vladimir Grojsman, ha detto che non si può procedere ora alle elezioni nel Donbass “per ragioni obiettive; è pericoloso”. Qualche settimana fa, il leader della DNR, Aleksandr Zakharcenko, aveva affermato che Donetsk considerava il 14 luglio come data ultima entro la quale Kiev dovrebbe adottare il disegno di legge sulle elezioni nel Donbass, concordandolo con la leadership delle Repubbliche popolari.

Per parte sua, il Ministro degli esteri ucraino, Pavel Klimkin, già qualche mese fa aveva dichiarato di non considerare accettabile che uno status speciale del Donbass venisse fissato nella Costituzione. Questo, nonostante che, pressoché nello stesso periodo, l’allora ambasciatore USA a Kiev, Geoffrey Payett sostenesse che l’Ucraina debba ratificare le modifiche alla Costituzione relative alla decentralizzazione: “Tra i più importanti elementi del processo di riforme” aveva detto Payett, c’è “la creazione di condizioni favorevoli per la decentralizzazione e lo sviluppo dell’autodeterminazione locale”.

Più di recente, sul sito news-front.info, l’osservatore Dmitrij Rodionov pronosticava che il parlamento si sarebbe occupato della decentralizzazione, escludendo però la questione dello status speciale per il Donbass. Ciò si desume dalle dichiarazioni rilasciate dallo speaker della Rada Andrej Parubij, secondo cui, formalmente, il testo di riforma costituzionale da approvare in seconda lettura, non può essere diverso da quello adottato in prima lettura, nell’agosto 2015, allorché i deputati si erano inchinati ai sentimenti “democratici” dei nazionalisti che, fuori del parlamento, a colpi di granate avevano ucciso quattro Guardie nazionali. In effetti, la nomina di Parubij, ex “capopopolo” di majdan, a speaker della Rada nell’aprile scorso – in occasione dell’elezione di Vladimir Grojsman alla carica di primo ministro – è stata vista dai più come un segnale del fatto che Kiev ha deciso la strada militare nella questione del Donbass. Sin da aprile, Parubij ha categoricamente escluso ogni discussione sullo status speciale del Donbass, tuonando costantemente che la regione debba tornare sotto il pieno controllo di Kiev. Ancora lo scorso 8 giugno, il Ministro degli interni Arsen Avakov, aveva raccomandato al Parlamento di escludere lo status speciale per il Donbass dal tema della decentralizzazione.

E, effettivamente, nel testo di riforma costituzionale non c’è parola di uno “status speciale del Donbass”. Secondo il direttore del Centro di ricerche euroasiatiche, Vladimir Kornilov, i falchi Parubij e Avakov continuano a lavorare per la guerra e rappresentano la garanzia che Kiev non arriverà a concedere alcuna decentralizzazione al Donbass. Anche il politologo ucraino Jurij Gorodnenko prevede che la Rada arrivi a votare le modifiche costituzionali, escludendo lo status speciale del Donbass e che una reale decentralizzazione non possa venir raggiunta che dopo l’elezione di un nuovo Parlamento.

Così ieri Poroshenko, celebrando alla Rada la Festa della Costituzione e accennando all’autonomia per i 250mila tatari della Crimea “occupata dalla Russia”, autonomia che “discende pienamente dal diritto imprescindibile del popolo dei tatari di Crimea all’autodeterminazione nell’ambito di uno stato ucraino sovrano e indipendente”, si è “dimenticato” della minoranza nazionale più forte della penisola, quella del milione e mezzo di russi. E si è “dimenticato” anche e soprattutto del Donbass. In tal modo, ha scelto la strada dell’autonoma a parole, per non concederla a nessun soggetto: né in Crimea, che non ha più nulla a che vedere con l’Ucraina, né nella Bucovina, né tantomeno nel Donbass. All’inizio del mese, avendo in mente gli stretti legami con le frange più radicali dei nazionalisti turchi, Poroshenko aveva innalzato i tatari di Crimea ad “avamposto della ucrainicità”: un avamposto formato da pochi gruppi del Medzhlis che, da mesi, fuori dai confini della penisola e con l’appoggio diretto dei “Lupi grigi” turchi, sta tentando il blocco della penisola e non esita a invocare allo scopo l’intervento della Nato. Poroshenko aveva in mente quei tatari che, in combutta con Pravji Sektor, organizzano periodicamente agguati ai punti di accesso alla Crimea e tentano sortite in mare ai danni di pescherecci e navi russe. I tatari che vivono in Crimea, invece, ormai da due anni hanno passaporto russo, alla loro lingua è riconosciuto quello status ufficiale mai concesso da Kiev e Mosca riconosce la “Autonomia regionale nazional-culturale dei tatari crimeani nella Repubblica di Crimea”. Oggi Poroshenko ha bisogno di giocare la carta dei tatari crimeani, nota il politologo ucraino Oleg Soskin, ma è pericoloso “far risaltare una sola etnia; ciò contraddice anche la Costituzione. E cosa diranno gli ebrei, i bulgari, polacchi, ungheresi, rumeni… Poroshenko, poi, dovrà concedere l’autonomia ai rumeni della Bucovina settentrionale, nella regione di Černovits, o agli ungheresi dell’Oltrecarpazia”. Ma Poroshenko finge di ignorare la questione russa: secondo il censimento del 2001, in Ucraina vivono 8 milioni e 300mila russi, cioè il 17% della popolazione; ma ben il 29,6% considera il russo lingua madre. Parla russo l’85% della popolazione nella regione di Odessa, l’81% in quella di Zaporozhe, il 74% di Kharkov e il 72% di Dnepropetrovesk. Il Presidente parla di autonomia, autodeterminazione, appena quel poco sufficiente a mostrare agli sponsor occidentali di “onorare” gli accordi di Minsk sul Donbass, ben consapevole, però, che il giorno che concedesse veramente ciò di cui parla, le bombe a mano di nazionalisti e neonazisti scoppierebbero non solo di fronte al Parlamento, ma anche dentro il palazzo presidenziale.

Che abbia colpito nel segno la neonazista, ex Jeanne d’Arc delle cronache romantiche occidentali, Nadezhda Savcenko che, proprio nel giorno della Festa della Costituzione, ha dichiarato che in Ucraina “il popolo da molto tempo vive senza stato e statualità. Possiamo dunque vivere anche senza presidente”.

Fabrizio Poggi

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