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“Se sputiamo tutti insieme, annegheremo quei bastardi”: Bob Crow in Rojava

Pur riconoscendogli un importante ruolo storico, Antonio Gramsci, nei Quaderni del carcere, solleva una forte perplessità nei confronti di ciò che chiama il ‘volontariato’, e cioè l’azione politica intrapresa da una minoranza coesa e decisa. Per Gramsci, il volontariato è complementare alla passività delle masse: ovunque si osservino fenomeni di attivismo minoritario, insomma, si potranno trovare masse passive. Tra le due opzioni, quella minoritaria e quella maggioritaria, la preferenza di Gramsci è netta: «La soluzione col volontariato è una soluzione d’autorità, dall’alto, legittimata formalmente dal consenso, come suol dirsi, dei “migliori”. Ma per costruire storia duratura non bastano i “migliori”, occorrono le più vaste e numerose energie nazionali-popolari.»

L’applicazione di questa chiave di lettura al presente ci porta in Medioriente e più precisamente nel mondo vasto e confuso dei volontari "occidentali" che si aggregano a varie forze, principalmente curde, nella guerra contro lo Stato Islamico al confine tra Siria, Iraq, e Turchia. Pur essendo un barometro poco ortodosso, i cambiamenti che si stanno verificando in questo mondo possono rivelarci qualcosa sulle condizioni di possibilità di una politica radicale di massa in Europa. Alcuni ricorderanno il clamore, e un certo entusiasmo, sollevati circa un anno e mezzo fa dalla scoperta di questo fenomeno. Oltre ai ben più noti volontari jihadisti, si scoprì che dall’Europa e dagli Stati Uniti partivano combattenti che si sarebbero schierati dall’altra parte della barricata. A occupare gran parte dell’attenzione dei media europei furono, all’epoca, i cosiddetti “Leoni del Rojava”, un’unità internazionale inserita nelle YPG, le forze armate curde in Rojava. Il profilo di questi Leoni era, in gran parte, legato a passate esperienze militari: si trattava, e si tratta, di veterani inglesi, americani, e di gente con esperienza nel mondo dei contractors privati, effettivamente mercenari moderni. E per quanto le YPG siano caratterizzate da una forte identità politica di sinistra, a volte i profili e le dichiarazioni dei Leoni sembravano cozzare con questa identità: basti ricordare le dichiarazioni di Alan Duncan, ex-militare Britannico, nelle quali tracciava un parallelismo tra la guerra allo Stato Islamico e quella condotta dalle truppe britanniche in Irlanda contro l’IRA. A circa un anno di distanza, quello che si può osservare è un cambiamento parziale nei profili dei volontari “occidentali”: dal veterano militare in cerca di azione si è passati all’attivista politico, ideologizzato ed inquadrato in una serie di organizzazioni.

Non è un caso che una delle unità che meglio rappresenta questo cambio di tendenza – la “Bob Crow Brigade” – venga dal Regno Unito, un paese nel quale, dopo anni di blairismo, si assiste ad un ritorno di una politica di massa e di sinistra. Poco conosciuto in Italia, Bob Crow era una figura centrale e atipica del sindacalismo inglese. Durante i suoi 13 anni alla guida della RMT (il sindacato dei trasporti) era riuscito a portare gli iscritti da 50.000 a oltre 80.000 e a combattere, e spesso vincere, una serie di battaglie salariali, di sicurezza, e di mantenimento di posti di lavoro grazie ad una combinazione di carota e bastone, scioperi e negoziazioni: « Gli unici membri della working class che hanno lavori ben pagati a Londra sono i membri del suo sindacato » dichiarò Ken Livingstone in occasione della morte di Crow, nel 2014 a soli 52 anni. Questi successi gli erano valsi una serie di campagne denigratorie da parte della stampa di destra, che gli rimproverava il salario, il fatto che vivesse in una casa popolare, e le vacanze in Brasile: ciò non gli impediva di dichiarare pubblicamente che i successi del sistema cubano di fronte a ’50 anni di aggressione imperialista’ erano uno dei suoi modelli di riferimento.

È significativo che le basi del successo politico e mediatico di un uomo con un busto di Lenin nel proprio ufficio e con un cane di nome ‘Castro’ siano state poste nel Regno Unito di Margaret Thatcher, prima, e della Terza Via blairiana dopo. Riflettendo sul successo di Bernie Sanders in America e di Jeremy Corbyn nel Regno Unito, Jacobin Magazine in un articolo di questa estate sottolineava il loro essere dei ‘sopravvissuti’: entrambi entrati in politica negli anni ’60 e ’70, erano riusciti in qualche modo a superare il trentennio neoliberale e la sconfitta storica della sinistra per poi riemergere e riscoprirsi politicamente convincenti. Secondo la testata americana, lo stile politico da ‘lupi solitari’ che aveva caratterizzato le carriere dei due, pur essendo stato utile in tempo di sconfitta, diventa problematico in un presente nel quale la sinistra si configura nuovamente come un movimento di massa. A differenza di Sanders e Corbyn, tuttavia, Crow non era semplicemente sopravvissuto al trentennio neoliberale: ci si era formato. La sua politica era dunque di massa, e il suo stile comunicativo lo dimostrava: «Se governassi il mondo» scriveva in un editoriale per Prospect Magazine «abolirei l’idea che le nazioni debbano essere governate da un’élite di ricchi con un’istruzione costosa ma con poca o nessuna esperienza del mondo reale. Tony Blair, Nick Clegg, David Cameron? Fighetti intercambiabili che pensano di farci un favore a governarci.» Insomma, quello che la stampa liberale definirebbe un pericoloso populista.

Per quanto la storia non si faccia con i ‘se’, è altamente probabile che la sua morte abbia privato la sinistra inglese di un futuro leader: tra le macerie del blairismo, Crow ed il suo stile avrebbero trovato un terreno fertile su cui piantarsi. Che un'unità di volontari britannici gli sia dedicata dunque testimonia non solo la presa che il vecchio leader sindacale esercitava sulle nuove generazioni, ma anche, e soprattutto, la rinascita di una politica radicale e di massa in Inghilterra. G.O., un membro della brigata, rivela a Contropiano: «La gente comune può fare grandi cose se si organizza, come ci ha dimostrato Bob [Crow] e la sua leadership dell'RMT. Dobbiamo abbandonare questa idea di non essere qualificati, di non poter partecipare alla politica. Abbiamo ricevuto critiche online per il fatto di non essere soldati professionisti. Ma il punto è proprio quello. Siamo gente comune che fa il proprio all'interno di un processo più grande. Come ogni sindacalista. Meglio siamo organizzati contro le élite, migliore renderemo il mondo, sia in fabbrica che sul campo di battaglia.» E la politica, infatti, è al centro dell'attività della Brigata. Periodicamente, attraverso Twitter, arrivano dal Rojava manifestazioni di supporto e solidarietà nei confronti di varie lotte che si svolgono nelle isole britanniche. Durante l'estate, per esempio, la stampa britannica commentò con stupore la presa di posizione dei miliziani a favore dello sciopero indetto dalla RMT contro una serie di ristrutturazioni del personale ferroviario della Southern Railways:

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È interessante notare, inoltre, come a volte si instauri, tra miliziani inglesi e combattenti curdi, un dialogo politico capace di mettere in relazione lotte diverse. Lo scorso 7 settembre, sempre tramite Twitter, viene messa online l'immagine di due miliziani armati, un uomo e una donna, volto integralmente coperto, pugno sinistro chiuso e levato in aria. Sotto di loro un pezzo di cartone con una scritta in pennarello rosso: «Ni Saoirse go Saoirse na mBan [Non c’è libertà senza liberazione della donna]: repeal the 8th ». «The eigth» è l'ottavo emendamento alla costituzione irlandese, votato nel 1983, che di fatto mette fuorilegge l'aborto e restringe l'accesso alle informazioni sulle possibilità di effettuare un'interruzione di gravidanza in Inghilterra (in Irlanda del Nord vi sono restrizioni analoghe). Il tweet della Brigata si inquadra nell'ambito di una mobilitazione internazionale contro le leggi antiabortiste irlandesi, culminata in una serie di manifestazioni tenutesi contemporaneamente in varie città europee il 24 Settembre. G.O. racconta a Contropiano i retroscena dietro questa presa di posizione. «Le nostre compagne nell'IFB [International Freedom Batallion] ci avevano chiesto del movimento femminista nei nostri paesi d'origine, e noi abbiamo detto loro che la cosa più eroica al momento erano le donne irlandesi, che si autodenunciavano dopo aver comprato pillole abortive. La questione suscitò molto interesse. Dopo l'ingresso in guerra dei curdi con il salvataggio del monte Sinjar, le YPJ parlarono con migliaia di donne Yezide liberate: fu subito chiaro che erano state stuprate, schiavizzate, o costrette a “sposarsi” con volontari jihadisti internazionali. Gli stupri sistematici dell'ISIS servivano a creare futuri jihadisti, bambini ad alto rischio di emarginazione. Le donne del Rojava lanciarono dunque una campagna internazionale, chiedendo ai simpatizzanti europei di inviare pillole abortive per aiutare le donne Yezide. L'aborto, inoltre, è completamente legale in Rojava dopo la rivoluzione, e cosi quando le compagne hanno sentito che non era così in Irlanda, ci hanno chiesto di poter dare una manifestazione di supporto.»

Oltre che in queste prese di posizione pubbliche e argomentate, il profilo maggiormente politico della Brigata può essere osservato nelle traiettorie biografiche e le riflessioni dei miliziani stessi, entrambe in forte contrasto con i profili militari dei “Leoni del Rojava”. R.D., miliziano scozzese, racconta che ciò lo colpì la prima volta che sentì parlare delle YPG era il fatto che «avevano una stella rossa sulla loro bandiera. Ciò mi fece pensare: ma chi sono questi? Mi informai, e cominciai a farmi un'idea. Era all'incirca ai tempi dell'assedio di Kobane. Cominciai a documentarmi sulle YPG, sul movimento curdo[…] e decisi che volevo partecipare. Vedevo una rivoluzione in atto e pensai, è mio dovere andare.» L'identità politica, lo si vede chiaramente in queste dichiarazioni, è stata fondamentale nel generare la mobilitazione. R.D, continua: «Per prima cosa mi documentai sul Leoni del Rojava, mi misi in contatto…. ma ciò che vidi erano essenzialmente veterani americani, o veterani da altre parti del mondo, ad ogni modo gente con coi non condividevo né la posizione politica né il background. Cominciai ad avere dubbi: era il tipo di organizzazione con la quale volevo associarmi? Con la quale partecipare a una rivoluzione?»

Se gli si chiede quale sia la sua posizione politica, R.D. risponde senza esitazione che «Mio padre è comunista, mio nonno era comunista. Da piccolo mi raccontavano storie sull'Unione Sovietica e sulla Guerra di Spagna.» Se gli si chiede quale sia il suo background sociale, invece, risponde: «Working class, delle isole Britanniche. Non mi piace usare il termine “Gran Bretagna”, percui si, isole Britanniche». Nel descrivere il percorso politico e personale che lo ha portato in Rojava, R.D. si sofferma in particolare su due elementi: la mancanza di opportunità lavorative e la mancanza di, per così dire, opportunità politiche. «Non andavo bene a scuola, la lasciai a 15 anni senza molte qualifiche. Partecipai a vari programmi di inserimento nel mondo del lavoro – uno si chiamava il Futures Project, ma sarebbe stato meglio chiamarlo il No Futures Project… Insomma, per quanto mi riguarda, lavoretti merdosi, nulla di fisso, lavori a caso nei cantieri, giardinaggio qui e lì, lavoro nei bar. Nulla con una vera prospettiva… Ci sono ancora delle fabbriche in Scozia, e qualche lavoro c'è, ma è così ambito che, anche per il lavoro più semplice, c'è sempre qualcuno con qualche qualifica più di me… è difficile, molto difficile anche solo mettere un piede dentro questi posti.» Questa forte identità di classe condiziona anche il percorso politico di R.D.: «Andavo a molte riunioni politiche, ma erano popolate da gente che non veniva dalla working class, non viveva nei quartieri working class, non aveva nessun tipo di contatto con gente di quel tipo. Erano studenti di classe media, studenti italiani, gente con la quale non riuscivo a rapportarmi. I nostri mondi erano troppo diversi.» Una situazione dalla quale R.D. esce solo tramite l'esperienza in Rojava, un posto nel quale dice di sentirsi «più a casa che in Scozia» e nel quale è abbastanza pronto a morire, almeno stando a quanto ci dichiara: «Non direi di aver paura della morte. Certo, cercherò di evitarla, ma se succede succede […] Secondo me, morire per qualcosa è meglio che stare fermi a casa e invecchiare.»

Sarebbe sbagliato dedurre, da questi colloqui con i miliziani della Brigata, che è in atto un processo di politicizzazione di massa in Europa, e non solo per la poca rilevanza statistica del nostro piccolo campione. Per quanto sia ovvio il ruolo che l’alienazione sociale e il cambiamento di clima politico giocano nel far scattare le dinamiche della mobilitazione, resta l’assenza di una rete europea capace di gestire queste energie dal basso. Per intenderci, non si tratta – almeno per ora – di un fenomeno parallelo alla mobilitazione comunista per la Guerra di Spagna, poiché ai canali strutturati di partito dell’epoca corrisponde al momento solo una buona dose di romanticismo rivoluzionario e di voglia di mettersi in gioco. La parte organizzativa della questione viene svolta da organizzazioni non Europee. E sarebbe d’altronde sbagliato aspettarsi altro: gli anni ’30 erano l’apogeo della politica di massa, mentre ciò a cui assistiamo ora non è che, al momento, un timido risveglio dopo decenni di tecnocrazia e egemonia ideologica liberale. Eppure, sarebbe ugualmente sbagliato non vedere quanto questo timido risveglio riesca a compiere. Dietro alla conferma di Corbyn alla guida del Labour Party e alla chiara sconfitta della destra del partito c’è lo stesso fenomeno che porta un giovane scozzese a combattere in Rojava, e cioè gli inizi di un processo di politicizzazione di massa. Cercarne le cause profonde andrebbe ben oltre le ambizioni di questo testo, ma è sicuro che gli elementi che emergono nelle nostre interviste – crisi economica, disoccupazione e conseguente riscoperta della realtà della stratificazione sociale, politicizzazione – giocano un loro importante ruolo.

 

Gerardo Quercia e Laura Soldini

1 “Se sputiamo tutti insieme, annegheremo quei bastardi”. Frase attribuita a Bob Crow (1962-2014)

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