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La Bielorussia nel mirino USA e UE

E' passato un quarto di secolo da quel 8 dicembre 1991 allorché, nella Belavežskaja pušča di Bielorussia, fu sancita a tavolino la fine dell'Unione Sovietica; ma lo spettro di quella potenza continua a tormentare i sonni occidentali. Ogni ombra, ogni riflesso ricurvo che, anche solo nella distorsione ideologica curata dai creatori delle immagini deformanti, ricordi il paese dei soviet, è immediatamente destinata all'ostracismo. E' così con la Russia di Putin che, pur nel giubilo delle privatizzazioni a oltranza, viene presentato come il nuovo gensek bolscevico. E' così, e non da ora, con la Bielorussia di Aleksandr Lukašenko.

Venticinque anni dopo che, come scrive su Vzgljad Andrej Babitskij (dal passato non certo comunista: ha lavorato negli anni '90 a Radio Svoboda) Mikhail Gorbaciov, sotto lo slogan della perestrojka, “decise di conferire completa autonomia alle Repubbliche e il potere passò nelle mani delle “nuove entità formatesi nella torbida schiuma di un cataclisma storico: nazionalisti, bordelli dell'economia di mercato, bande liberali”; venticinque anni dopo che i media occidentali, come ha detto il segretario del PCFR Gennadij Zjuganov, trionfarono nella loro campagna sul “democraticismo” e il “liberalismo” di Boris Eltsin, che doveva condurre alla sua nomina a presidente della RSFSR e, successivamente, a quella politica che dai Čubajs e Gajdar è planata senza grossi scossoni ai Ministri liberali del governo Medvedev; nel momento in cui le privatizzazioni dell'economia russa procedono a ritmo serrato (è di ieri la notizia del passaggio di circa il 20% delle azioni del colosso Rosneft in mano alla anglo-svizzera “Glancor” e al fondo sovrano del Qatar); in questo momento, riprende slancio la campagna – per la verità, solo attenuata nel recente passato – per attizzare una majdan bielorussa.

Ammonterebbe a 520mila $, secondo pravda.ru, il fondo stanziato dall'Ufficio per le questioni della democrazia, diritti umani e lavoro del Dipartimento di stato USA, per l'addestramento di “giornalisti indipendenti” bielorussi e media che trasmettano sia in lingua bielorussa, che russa. L'obiettivo, si dice nel progetto, è quello di “allargare l'accesso all'obiettività dei cittadini bielorussi”. I fondi verranno devoluti a quelle ONG che presenteranno un progetto “adeguato” e, forti della sovvenzione, si incaricheranno di organizzare speciali corsi di formazione a giornalisti locali e redattori, su come scrivere le notizie, condurre inchieste e produrre contenuti multimediali in conformità con "gli standard giornalistici internazionali": scrivere cioè le “notizie giuste”. Ai giornalisti selezionati per tali corsi, verranno assicurate “condizioni di lavoro confortevoli”, con l'aiuto anche di giuristi e psicologi, affinché possano garantire una completa "interazione con il pubblico" nella divulgazione di “temi importanti per la società". Viaggi, conferenze, corsi di formazione e altre spese sono naturalmente a carico del Dipartimento di stato.

Uno dei punti cardine del piano, continua pravda.ru, è quello secondo cui il progetto debba portare a  riforme rapide e a lungo termine in Bielorussia, sul modello di quelle programmate, con lo stesso intervento finanziario che, nel 2016, ha instradato 5 milioni $ per il sostegno ai media in Bosnia-Erzegovina, 6 milioni $ in Sri Lanka, 700mila $ per la “cooperazione” coi giornalisti del Bangladesh, altri 6 milioni $ in Moldavia. E' superfluo ricordare, conclude pravda.ru, a cosa abbia portato lo stesso identico progetto in Ucraina, con le ONG locali forti di 14 milioni $ devoluti dal National Endowment for Democracy (NED) ed è molto probabile che lo stesso NED, che già due anni fa aveva sponsorizzato i media “indipendenti” in vista delle elezioni presidenziali, poi vinte da Aleksander Lukašenko con l'83% dei consensi, si aggiudichi il fondo per la Bielorussia.

Oltreoceano si giudica dunque ancora insufficiente l'attività condotta, a dispetto di ogni “dittatura” russa o bielorussa, da emittenti quali Euroradio.FM (partner della statunitense Agenzia per lo sviluppo USAID), "Carta 97”, “Il nostro campo”, che tranquillamente scrivono della “cinica dittatura del regime Lukašenko” che “infama la Bielorussia nel centro d'Europa”. Insufficiente, evidentemente, anche l'attività del Consiglio USA per le Trasmissioni (BBG), che ha chiesto al governo americano 751 milioni $ per contrapporsi alla propaganda russa e ha già ricevuto, secondo Victoria-fuck-the-UE-Nuland, 22,6 milioni – più di quanto stanziato per l'Ucraina – oltre ai fondi a disposizione per l'estensione dei programmi di “Svobonaja Europa” e “Golos Ameriki”.

Il tutto, osserva Vladimir Sergeev su rusvesna.su, secondo il piano UE del 2008 “Partenariato orientale”, per l'integrazione di Ucraina, Georgia, Azerbajdžan, Armenia, Moldavia e Bielorussia. Dopo il risultato raggiunto con Tbilisi e Kiev, a Bruxelles si ritiene  giunto il momento della Bielorussia. Così, il 5 dicembre scorso, è giunta a Minsk una delegazione UE per una visita di quattro giorni, per discutere le prospettive di “cooperazione tecnica” per il periodo fino al 2020, considerata la “preoccupazione” europeista per il bilanciamento di Minsk tra UE e Mosca, che, a parere di Bruxelles, propenderebbe troppo a favore della Russia.

Non era stato così anche per Viktor Janukovič?

 

Fabrizio Poggi

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