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Trump, un “amico fidato” di Israele

Il 9 Novembre 2016, con la vittoria di Donald Trump alle presidenziali negli Stati Uniti, la destra israeliana ha esultato per l’insperato risultato elettorale considerandolo come “l’inizio di un nuovo periodo di alleanza con obiettivi convergenti”. Si è passati, infatti, dai rapporti tesi avuti con l’amministrazione Obama all’elezione di un “vero amico dello Stato di Israele con il quale poter lavorare insieme per la sicurezza e la stabilità della regione” come annunciato dal primo ministro israeliano Netanyahu. Toni ancora più entusiastici per l’ultranazionalista ministro dell’istruzione, Naftali Bennett, che ha dichiarato:“la vittoria di Trump offre ad Israele la possibilità di rinunciare all’idea della creazione di uno stato palestinese”.

Diverse dichiarazioni elettorali avevano da una parte l’intento di accaparrarsi i voti della potente lobby ebraica americana, ma sono, comunque, sembrate un vero e proprio “endorsement” nei confronti del governo israeliano di Netanyahu e della sua politica coloniale e razzista.

Dopo i proclami pre-elettorali e l’euforia post elettorale si è passati, però, velocemente ai fatti. La nomina di David Friedman, conservatore e, probabilmente,  futuro ambasciatore americano in Israele, come consigliere per gli affari americani con lo stato sionista nel nuovo team presidenziale, denota una chiara convergenza politica nei confronti di Tel Aviv. Personaggio poco conosciuto, il neo consigliere ha da subito manifestato la sua ostilità nei confronti dei palestinesi fino al punto di aver detto di “favorire apertamente l’annessione definitiva della Cisgiordania”. In un’intervista al sito jewishinsider.com Friedman ha confermato che “tra l’amministrazione Trump e Tel Aviv, il livello di cooperazione strategica, militare e tattica raggiungerà livelli mai avuti in precedenza”. Lo stesso finanziamento nei confronti di Israele “non si limiterà ai “soli” 38 miliardi di dollari in 10 anni – generoso lascito del predecessore Obama – per il MOU (Memorandum of Understanding), ma sarà incrementato ulteriormente”. Maggiori finanziamenti militari giustificati da motivi di sicurezza nei confronti dei principali nemici israeliani nella regione: Iran, Hezbollah ed i partiti palestinesi contrari alla linea politica dell’ANP (Hamas e FPLP). Stessa linea per la nomina a segretario della difesa del generale  James “Mad Dog” Mattis che recentemente ha etichettato l’Iran come “la principale minaccia per la regione mediorientale”.  Gli incarichi  fatti da Trump per il suo nuovo staff hanno rinvigorito l’azione di contrasto da parte del governo Netanyahu nei confronti dell’accordo sul nucleare siglato dall’amministrazione Obama con l’Iran. L’intesa è stata da sempre osteggiata da Israele, creando numerose frizioni con la precedente amministrazione americana. Vista la nuova linea  politica di Trump, invece, il primo ministro israeliano ha recentemente dichiarato alla stampa di voler far cambiare idea sull’intesa con la repubblica iraniana in “qualsiasi maniera”. Bisogna, però, osservare che l’accordo, raggiunto nel  luglio 2015 con l’Iran, è stato siglato da più nazioni coinvolte (il famoso 5+1: USA, Cina, Russia, Francia, Gran Bretagna e Germania) e che, quindi, sarà difficile “eliminarlo o variarlo” come dichiarato dal ministro degli esteri russo Lavrov..

La stessa sintonia di azione riguarda, ancora, il sostegno incondizionato di Trump alla colonizzazione da parte dell’entità sionista in tutta la Cisgiordania. In un’intervista rilasciata al dailymail.com, il neo-presidente ha dichiarato che “Israele deve continuare a costruire delle colonie nella West Bank visto che i palestinesi continuano a lanciare razzi e che non ci sono possibilità per un serio processo di pace”. Grande preoccupazione da parte dei  palestinesi c’è anche per ciò che  riguarda le scarse possibilità attribuite da Trump nel portare avanti i colloqui di pace “perché la soluzione dei due stati non funziona”. Grave è  la dichiarazioni fatta durante il suo incontro pre-elettorale con il primo ministro Netanyahu a New York, nel quale ha garantito la volontà di  “riconoscere Gerusalemme come capitale unica e indivisibile dello Stato di Israele”. Affermazioni condannate duramente dal segretario generale dell’OLP, Saeb Erekat, ed etichettate come “frasi che negano il dialogo di pace, il diritto internazionale e le risoluzioni ONU”.

 È di questi giorni, infatti, l’approvazione di una proposta di legge che legittima la costruzione di oltre 4mila nuovi insediamenti  coloniali su terre palestinesi. La legge, frutto di un accordo politico tra Netanyahu e Bennett, ministro e leader del partito di estrema destra “Focolare Ebraico”, punta ad un’annessione sempre maggiore della Cisgiordania. Questo “è un primo passo verso la sovranità israeliana in Giudea-Samaria (nome ebraico della regione, ndr)” secondo le parole dello stesso ministro. La reazione della sinistra sionista è stata polemica poiché “una simile legge è un suicidio nazionale e punta a togliere qualsiasi speranza alla soluzione di pace per  i due stati” come affermato dal leader laburista Herzog.

Fondamentali per la sua elezione, infine, sono stati i legami con l’AIPAC (associazione ebraica americana di sostegno ad Israele) o i suoi contatti con il quotidiano filo-sionista “Algemeiner”. Un legame profondo che arriva fino alla conversione per l’ebraismo ortodosso da parte della figlia Ivanka, moglie di Jarod Kushner, investitore nel settore immobiliare come il suocero. Proprio Kushner, con la sua omonima fondazione, è stato la pedina fondamentale sia per il sostegno da parte dell’establishment israeliano sia, soprattutto, per il business immobiliare legato alla costruzione delle nuove colonie nei territori occupati ed in Cisgiordania. Rapporti, affettivi ed economici, talmente radicati da fargli affermare “noi amiamo Israele, noi combatteremo per Israele al 100% e sarà così per sempre”. Parole che non sembrano pronunciate dal futuro presidente della più potente nazione del mondo, ma piuttosto da un “fidato amico” di Israele.

 

Stefano Mauro

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