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Crisi Qatar, così lontana così vicina

L’embargo ci sarà, ma non farà male al clan al-Thani. Nutrire e assistere due milioni e mezzo di qatarioti non rappresenta un’emergenza e a vanificare la linea dura voluta dai due Salman sauditi, affiancati dagli emiri-servitori di Bahrein e Emirati Arabi Uniti più l’Egitto golpista di al-Sisi, si sono apertamente schierati Turchia e Iran. I cui presidenti, che s’erano già spesi in rassicurazioni verso la governance di Doha, hanno riaffermato gli intenti.

Erdogan ribadisce come gli accordi firmati a fine 2014, che nei mesi seguenti hanno istituito una base militare nei pressi della capitale qatariota, non verranno cancellati come vorrebbero i sauditi. L’uomo forte di Turchia lancia il paragone con la base aerea statunitense di al-Udeid, sostenendo che i suoi soldati, attualmente un centinaio che potrebbero diventare mille, hanno tutto il diritto di restare in quel luogo come fanno i diecimila marines, ai quali non viene rivolta nessuna richiesta di ritiro.

Gli iraniani hanno già aperto le proprie acque nel Golfo Persico e il proprio spazio aereo a qualsivoglia ponte per far giungere ogni rifornimento e assistenza a una nazione diventata alleata in affari. L’enorme giacimento di gas presente nei fondali marini su cui affacciano i due Stati (South Pars) risulterebbe il maggiore scoperto negli ultimi tempi e la vicinanza strategica nel suo sfruttamento porta la leadership di Teheran a difendere coi denti le sorti della famiglia al-Thani. Se essa non può dormire fra due guanciali, perché un’accentuazione dell’instabilità nell’area potrebbe farle perdere taluni business miliardari come i Mondiali di calcio del 2022 cui l’emiro Tamim tanto teneva, con ricadute sui trasporti della Qatar Airways e indotto, dall’altro avere al fianco potenti attori regionali di sponda sunnita e sciita attenua quasi del tutto gli effetti dell’isolamento. Sicuramente quello economico, ma lo stesso fronte politico dovrà riconsiderare la linea d’attacco ribadita ieri al Cairo dagli arabi intransigenti. Lo abbiamo già sottolineato: con quest’accelerazione i sauditi mettono a repentaglio la propria creatura del Consiglio di Cooperazione del Golfo avviata nel 1981.

Perché il Kuwait s’è smarcato dall’obbedienza cieca e chiede a Riyad di rivedere la sua posizione, lo stesso Oman, certo tutt’altro che potente, resta in bilico. Ma la monarchia saudita, creando uno scontro fratricida fra le componenti più attive economicamente in ambito globale e del ruolo politico dell’economia energetica (se stessa e il Qatar), introduce un ulteriore scossone in una regione che registra sei anni pieni d’instabilità e quattro di ferocissima guerra per il ridisegno di confini fra nazioni esistenti (Siria, Iraq, Yemen) e nuove entità (Rojava e Daesh). Se da una parte il Consiglio non conosceva da tempo l’omogenità economico-finanziaria, proprio a seguito del desiderio di potere e potenza del clan al-Thani e dello spregiudicato epigono che attualmente lo guida, è anche vero che il blocco delle petromonarchie s’era a lungo presentato vicino nei pensieri e nelle prospettive politiche ai tempi in cui la Lega Araba era una realtà su grandi temi internazionali come la questione palestinese.

Sicuramente le spaccature avviate su quel fronte fra le Intifade sostenute e il realismo politico che hanno diviso Fatah e Hamas, hanno avuto ripercussioni fra gli stessi emiri. Ma è attorno alle altre intifade arabe, definite primavere, che s’è consumata una frattura all’occhio attuale inconciliabile fra i conservatori Saud, depositari per autoproclamazione di tradizione politico-religiosa, e i rampanti qatarioti. Sia chiaro il clan al-Thani è conservatore come lo sono i Salman padre e figlio, e come lo erano i capibastone di entrambe le famiglie, che hanno resistito (anche grazie a Sette Sorelle, Cia, Nato) a trasformazioni e rivolte pur difficilmente attuabili in realtà tenute sotto la bolla dell’affarismo petrolifero.

Allo stesso modo i due Paesi hanno cullato la tradizione del verbo wahabita , progenitore assieme al deobandismo pakistano, della pratica jihadista armata che raccoglie quarant’anni di scontro aperto e occulto contro vari nemici. Hanno nutrito e finanziato i mujaheddin afghani, e i combattenti islamici di vari fronti, passando da Qaeda all’odierno Isis e alla galassia delle micro formazioni che nel piccolo e grande Medio Oriente a essa si rapportano. Perciò, come hanno fatto notare anche parecchi commentatori mainstream, non c’è nulla di più stonato dell’accusa di sostegno al terrorismo lanciata dall’Arabia Saudita al Qatar, essendo le due nazioni (e non solo loro) responsabili dello sciagurato passo, che comunque piace a certi grandi del mondo attivi nell’industria delle armi e della “sicurezza”.

Gli apprendisti stregoni in kefia che “ammodernano” i propri paradisi nel deserto con grattacieli e costose follìe, come le piste da sci succedanee appendici ad ambienti falsificati – tralasciando dialettica di pensiero, usi, costumi, problemi, compresa una personale identità da proporre al mondo concorrente e compartecipante – nonostante i petrodollari presentano le stesse contraddizioni che un gran pezzo di mondo arabo non ha risolto né col terzomondismo presto tramontato o fallito in misere dittature personali, né col neocolonialismo di ritorno cui si prestano da tempi antichi e recenti liberisti di mercato con tanto di partiti e Parlamento. E’ uno dei motivi per cui lo spettro dell’Islam politico, della Fratellanza Musulmana o altre Confraternite, è tornato a rappresentare un simbolo e una speranza di cambiamento dove la laicità pseudosocialista o capitalista hanno fallito.

Su questo terreno si continua a giocare una lunga sfida con contraddizioni e carenze da parte di tutti. E nel passaggio epocale dal secolo della liberazione laica a quello che considera l’Islam la soluzione, quale Islam fra i vari proclamati e da alcuni considerati tutti inesorabilmente uguali (sic) c’è da discutere e studiare, un pezzo di mondo si misura. Un mondo che molto ci è vicino, sebbene tanta politica globale rifiuta di considerarlo.

 

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