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Gli Usa accelerano sulla guerra dei dazi

Il secondo tempo della guerra commerciale aperta dagli Usa contro la Cina e il resto del mondo è parecchio più tempestoso del primo. Fin qui, infatti, il valore dei prodotti cinesi esportati verso gli Usa era di appena 3 miliardi (acciaio e alluminio, in difesa della morente siderurgia stelle-e-strisce). Pechino aveva risposto in modo esattamente simmetrico, colpendo con l’aumento delle tariffe 128 merci americane “old style” (carne di maiale, vino, ecc), per un importo identico.

Ora, invece, Trump sta per dare il via all’aumento dei dazi su oltre 1.300 prodotti per un totale di circa 50 miliardi di dollari. Soprattutto, l’elenco dei prodotti prova che gli Usa puntano a privare Pechino (o fargli costare molto di più) le merci “strategiche” per colmare il gap tecnologico residuo tra i due paesi.

E’ del resto la motivazione ufficiale della presidenza col ciuffo: una risposta al presunto furto cinese di segreti industriali, con violazione della proprietà intellettuale di software, brevetti e tecnologia “made in Usa”.

Sul punto, molto demagogico, è bene fare chiarezza, altrimenti non si capisce di cosa si sta parlando.

Da oltre 30 anni Stati Uniti e paesi europei (ma anche il Giappone e in parte la Corea del Sud) hanno delocalizzato in Cina molte linee produttive – dai cellulari ai computer, alle automobili, ecc – sfruttando il costo del lavoro più basso. Le autorità cinesi hanno favorito questa corsa allo sfruttamento della propria manodopera imponendo, in cambio, la condivisione del know how, ossia dei brevetti.

Il tutto attraverso la firma di contratti liberamente stipulati tra le multinazionali e il governo cinese.

Non si capisce dunque in base a quale principio il governo Usa – a 30 anni dall’inizio di questo processo fondativo della “globalizzazione” – possa accampare diritto a una “proprietà intellettuale Usa” contrattualmente venduta (con ricavi stratosferici) una volta per tutte.

E’ qui che diventa esplosivo il conflitto tra carattere privato dell’accumulazione capitalistica e interessi geopolitici “nazionali”, con l’America che scopre improvvisamente di aver segato il ramo su cui era seduta (la superiorità tecnologica) in cambio di un sostanzioso ma illusorio “piatto di lenticchie” (un mare di profitti industriali riversato dentro i mercati finanziari, alla ricerca del massimo rendimento nel più breve tempo possibile).

Il paradosso è solo apparente, come sempre. Il capitale basato negli Stati Uniti – industriale o finanziario – ha portafogli gonfi e progetti di ulteriore espansione globale, ma gli Usa (come Stato e sistema-paese) sono in declino inarrestabile. E la necessità di mantenere il controllo della popolazione entro i limiti della governabilità richiede che vengano rotti una serie di meccanismi ormai consolidati da decenni di “libero commercio”, proteggendo le produzioni residue ancora attive sul proprio territorio ed eventualmente favorire il rientro di un certo numero di attività.

La reazione di Pechino denota pazienza e forza, anche sul piano “legale”. Da una parte reagisce in misura “proporzionata”, evitando la tentazione di superare in valore la mossa americana; in fondo sta da tempo sviluppando il mercato interno, rendendo la propria economia meno dipendente dalle esportazioni. Dall’altra minaccia di ricorrere a quel World Trade Organization (Wto) che era stata un’invenzione vincente per il dilagare della cosiddetta globalizzazione.

L’ironia della Storia non potrebbe essere più evidente: la Cina “comunista” che si appella alle regole del libero commercio contro il paese simbolo del capitalismo e del free trade.

Sul piano intellettuale è una situazione estremamente stimolante. Su quello geopolitico, ovviamente, è un montare di tensioni sempre più complicate da gestire e sciogliere.

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