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Il mondo dei “galantuomini” nelle elezioni ucraine

Quando mancano meno di due settimane al voto del 31 marzo per le elezioni presidenziali in Ucraina, secondo un sondaggio condotto su un campione di 165.000 persone dall’organizzazione “Iniziative giuridiche d’avanguardia”, lo showman Vladimir Zelenskij, creatura dell’oligarca Igor Kolomojskij (ex governatore della regione di Dnepropetrovsk, finanziatore di “Pravyj Sektor”, ecc.), sarebbe accreditato di oltre il 34% delle preferenze di voto, contro il 14,2% di Petro Porošenko, 12,9% di Julija Timošenko e 11% per Jurij Bojko, ex Ministro per l’energia con il presidente Janukovič.

Ma non è detto che vada a finire così. Soprattutto, non è detto che la faccenda si risolva, o prima o dopo il voto, in modo pacifico. Da tempo, i diversi schieramenti stanno affilando le armi, in senso letterale. Diverse formazioni armate, nazionaliste o di stampo apertamente neonazista, sono agli ordini dei differenti raggruppamenti elettorali. Più rumoroso di tutti, per ora, il “Natsionalnyj korpus”, formato sulla base del battaglione “Azov”, agli ordini del tandem affaristico Timošenko-Kolomojskij e che si contrappone al “C14” pro-Porošenko.

Sabato scorso, circa 10.000 attivisti di “Azov” hanno sfilato a Kiev, minacciando una terza majdan, ma non è un mistero che “NatsKorpus” e “Azov”, operativamente, siano sotto il controllo del Ministro degli interni Arsen Avakov e quest’ultimo avrebbe avuto assicurazioni sulla conservazione del posto sia da Porošenko, sia dalla ex bombardiera Timošenko. Quindi sembrerebbe al momento poco probabile una reale intenzione di rovesciare l’attuale presidente prima del voto, pur se il “NatsKorpus” si è già mobilitato per bloccare gli aeroporti e impedire la fuga di Porošenko, mentre il führer di “Azov” Andrej Biletsky sta reclutando giovani disoccupati promettendo carriera e denaro.

Uno scenario abbastanza accreditato è quello, comunque, di una vittoria di Porošenko, se non al primo, al secondo turno e, dopo, un’intesa tra le varie opposizioni in vista delle elezioni parlamentari per la sua messa in stato d’accusa alla Rada.

Tutto ciò, ovviamente, a prescindere dalle decisioni di Washington. Lo scandalo al Ministero della difesa e al Ukroboronprom – creste del 200-400% sulle forniture militari – avrebbe colpito seriamente l’immagine del Presidente e il caso non sarebbe esploso senza la mano dei Servizi speciali e l’intervento yankee, tanto che il rappresentante del Dipartimento di Stato, Kurt Volker non da ora sta conducendo colloqui con Zelenskij e Timošenko. Volker ha dichiarato che in questi cinque anni la società ucraina è diventata “più pro-ucraina, più anti-russa, più pro-europea, pro-NATO, con un forte senso di identità nazionale e culturale” e “io mi attendo che qualunque nuovo governo continuerà a rafforzare la democrazia, a difendere il proprio territorio e persistere nel ritorno dei territori occupati”.

D’altra parte, si fa osservare che se Porošenko dubitasse della vittoria, avrebbe da tempo imposto la legge marziale. Dato che non lo ha fatto, ciò indicherebbe che il “favorito” Zelenskij non sia altro che un candidato tecnico, uno spoiler progettato per decorare la vittoria di Porošenko. E se poi dovesse vincere un candidato ancora più russofobo, allora diverrebbe più probabile un riconoscimento delle Repubbliche popolari del Donbass da parte di Mosca. Da questo punto di vista, la vittoria di Zelenskij non promette nulla di buono, dato che il suo “regista”, Kolomojskij, fa il grosso degli affari con l’Occidente e con Israele e, formalmente, a differenza di Porošenko (che ha molti interessi in Russia), non ha nulla che lo leghi a Mosca.

Commentando alcune dichiarazioni di Julija Timošenko al Frankfurter Allgemeine Zeitung, il politologo di Lugansk, Vladimir Karasëv nota che dei tre candidati, “uno, Porošenko, da cinque anni sta massacrando la popolazione del Donbass; un altro, Zelenskij, definisce quella stessa popolazione “feccia del Donbass”; la terza, Timošenko vuole sterminare gli abitanti del Donbass con le armi atomiche. E ora scegliete!”.

Timošenko continua intanto con la storia dell’impeachment contro Porošenko, per la questione della corruzione al Ukroboronprom e il licenziamento del principale accusato Oleg Svinarčuk (ora Gladkovskij, il cognome della madre: lo ha cambiato perché l’altro suona come “custode di maiali”. Sabato scorso, i nazisti di “Azov” che manifestavano contro la corruzione governativa, lanciavano in piazza tanti maialini di gomma) sinora socio d’affari di Porošenko. Secondo il politologo Rostislav Iščenko, però, quella della “bionda del gas”, potrebbe essere solo una mossa per esercitare pressioni sul presidente, perdurando gli attacchi reciproci tra strutture di sicurezza (SBU) del Presidente e del Ministro degli interni Avakov, schierato con la Timošenko.

Su tale sfondo, ecco che si consolida (momentaneamente) l’accordo Timošenko-Kolomojskij, passando per Zelenskij. Nei piani del duo anti-Porošenko, sembra che il presidente dovrebbe esser costretto a scegliere tra dimissioni volontarie e partecipazione alle elezioni, consapevole però che si dovrà comunque arrivare a una prova di forza nelle strade e a quel punto, l’ago della bilancia sarebbero le squadre di Arsen Avakov. In caso di rinuncia (molto improbabile) di Porošenko prima del 31 marzo, Julija avrebbe quasi garantita la vittoria contro Zelenskij, se non al primo, sicuramente al secondo turno.

In generale, secondo Vladimir Karasëv, è comunque presumibile una vittoria dell’attuale presidente. Porošenko non può perdere: in caso di sconfitta, un “tragico destino attenderebbe lui e la sua famiglia e dovrà pertanto ricorrere a tutti i metodi sporchi e illegali per ottenere il risultato desiderato”. Inoltre, paradossalmente, Porošenko “va bene all’Europa, agli Stati Uniti e indirettamente anche alla Russia”. Con lui, le compagnie europee usano l’Ucraina come paese di smercio; il Dipartimento di Stato è soddisfatto della sua retorica russofobica e “Mosca, grazie alla politica aggressiva di Porošenko, può convincere i partner europei della necessità di accelerare la costruzione di un nuovo gasdotto per aggirare un paese di transito inaffidabile. Paradossalmente, anche il Donbass potrebbe dirsi soddisfatto: Porošenko presidente, per il tormentato Donbass, è l’occasione per un ritiro definitivo dall’Ucraina. In conclusione: la mia previsione è la seguente: Porošenko vincerà, Kolomojskij non sarà d’accordo, Timošenko porterà i propri elettori a majdan e la situazione sarà di nuovo fuori controllo”.

Dopotutto, i principali serbatoi elettorali di Porošenko e Timošenko sono pressoché gli stessi; ma ora entra in gioco anche il fattore “religioso”, dopo che lo scorso gennaio il Patriarca Bartolomeo ha firmato (una firma che, secondo leuropeennedebruxelles.com gli avrebbe fruttato 25 milioni $) a Istanbul, presenti Porošenko e il nazista speaker della Rada Andrej Parubij, il Tòmos che concede l’autocefalia alla Chiesa ortodossa ucraina, consegnandolo al metropolita Epifanij, eletto «primate» il dicembre precedente. Ora, il patriarcato di Mosca riconosce solo la Chiesa ortodossa ucraina con a capo il metropolita Onufrij.

Bartolomeo è stato accusato dagli ortodossi russi di aver riabilitato degli scismatici (i membri del «patriarcato di Kiev» e della Chiesa ortodossa autocefala ucraina guidati rispettivamente da Filaret e Makarij) e di aver in questo modo attentato all’unità dell’ortodossia. Filaret, bizzoso per non aver ottenuto il posto promessogli da Porošenko di capo della nuova autocefalia, chiama il suo “gregge” a sostenere Timošenko; lo stesso ha fatto il candidato alla presidenza, oligarca ed ex governatore della regione di Donetsk, Sergej Taruta e, tramite lui, è da supporre, anche il più ricco oligarca ucraino, Rinat Akhmetov, anche se al primo turno Akhmetov sosterrà Jurij Bojko, per rafforzare le posizioni del partito in vista delle elezioni alla Rada. Nella probabile prospettiva di un secondo turno, l’oligarca Kolomojskij sposterà l’elettorato di Zelenskij verso la Timošenko. Ancora una volta, però, un peso decisivo sarà quello del Ministro degli interni Avakov.

Rimane un fattore non di poco conto: il peso del mondo “affaristico sporco”. A proposito dei rapporti tra attuale presidenza, chiesa autocefala e mondo criminale, è interessante ricordare come alla consegna del Tòmos a Istanbul, accanto a Porošenko ci fosse uno dei più noti e potenti “kingpin” della regione di Dnepropetrovsk, Alexandr Petrovskij (Nareklišvili) “Narik”, di cui il portale Strana.ua segnala anche addentellati in Israele. Sarebbe stato lui (sua figlia Bogdana è moglie di Nikita Pavelko, figlio del vice capo del gruppo parlamentare del “Blocco Porošenko” alla Rada, Andrej Pavelko) a imporre la nomina nelle alte gerarchie della nuova autocefalia di Bogdan Gulyamov “Bodja”, uno dei più intimi della sua cerchia, agli inizi della “carriera” di racket a Denepropetrovsk, negli anni ’90, preso dalla “vocazione” nel 2017 e tuttora a capo di vari “enti benefici” e società sportive usati da “Narik” per riciclare i proventi delle proprie attività. “Narik” può anche vantare legami stretti col Ministero degli interni, nei cui archivi manca ogni riferimento alle sue attività (dagli uffici funebri, ai prodotti petroliferi, alle banche) e alla dozzina circa di omicidi in cui sarebbe coinvolto.

Petrovsky ha aiutato la Chiesa ortodossa ucraina a ottenere il Tòmos sull’autocefalia unicamente per considerazioni affaristiche, mettere cioè sotto controllo il flusso finanziario e i fondi statali che si riversano nella nuova struttura “religiosa”, insieme al riciclaggio dei proventi della criminalità attraverso i canali ecclesiastici.

Chiaro che Porošenko, per i propri obiettivi politici, è pronto a collaborare con le più forti famiglie del mondo criminale e, di contro, la nuova autocefalia, si trasforma in un rifugio per gli “immigrati” dal mondo criminale, come lo è lo stesso Gulyamov che, al pari di “Narik”, attraverso gli agganci al Ministero degli interni, ha potuto “sbianchettare” il proprio nome dalla maggior parte dei rapporti operativi della polizia. Non a caso, Petrovsky-”Narik”, a metà del 2018 aveva promosso il trasferimento di Guljamov alla Cattedrale dei Santi di Kiev, nel prestigioso rione “Konča-Zaspa”, residenza dell’élite finanziaria e amministrativa della capitale.

Dunque, tra gli sponsor di Porošenko, c’è oggi tutta una vasta cerchia di galantuomini in grado non solo di foraggiarne le spese elettorali, ma di orientare “spiritualmente” una discreta fetta di elettorato; così come, del resto, l’ala della chiesa ucraina uscita perdente può farlo nei confronti di Kolomojskij & Co.

D’altronde, se da Lugansk si invita a non riconoscere le elezioni presidenziali ucraine, anche secondo topwar.ru, ci sono diversi motivi per non riconoscerne la legittimità, dato che i milioni di ucraini (18-20% della popolazione) che vivono nelle regioni di Donetsk e Lugansk e in Russia, sono privati del diritto di voto; Kiev rifiuta l’ingresso in Ucraina agli osservatori russi, anche se fanno parte dell’OSCE; l’Ucraina è considerata al primo posto in Europa (e uno dei primi posti al mondo) in termini di corruzione e ciò significa un’alta probabilità di frodi elettorali. Soprattutto, da 5 anni è vietata l’attività di vari partiti e principalmente del Partito Comunista.

Il quadro della democrazia europeista pare completo.

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