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Attacchi alle petroliere. Le bugie Usa ora si vedono…

Siamo passati dalla globalizzazione alla competizione mondiale tra macroaree economiche. E quindi anche nell’informazione cominciano a farsi sentire differenze di interessi – non “morali” – che prima venivano tranquillamente tenute sullo sfondo.

Gli attacchi a due petroliere nel Golfo Persico stanno rivelando che gli Stati Uniti non possono più contare sulla disponibilità totale di tutta la stampa occidentale alle loro fandonie. Non c’è solo una “caduta di credibilità” – al generale Powell che agitava una boccettina con polvere bianca sostenendo che fosse antrace di Saddam potevano credere solo dei servi molto ben retribuiti – ma una sostanziale differenza di interessi: economici, quindi anche geopolitici e quindi anche militari (se c’è da essere coinvolti in qualche avventura mediorientale, è meglio chiarire prima cosa vuole ognuno degli squali che si prepara all’attacco).

Riproduciamo qui un articolo dell’agenzia Agi, solitamente molo “istituzionale” e schierata senza se e senza ma, che porta un titolo già significativo: “Cosa torna e cosa no nel video con cui gli Usa accusano l’Iran”.

L’analisi del video è tecnicamente precisa, anche se formalmente cauta nei termini. Soprattutto, la ricostruzione dell’”incidente” avviene dando la versione anche del comandante della petroliera giappponese attaccata, che ha parlato sempre di “ordigni volanti” un attimo prima dell’esplosione.

Curiosa deontologia, quella di un giornalismo mainstream che accetta senza fiatare la versione di un “attore esterno interessato” e silenzia sistematicamente non solo una delle due parti in causa (l’Iran degli ayatollah, “reo” di essersi autonomizzato dagli Usa fin dal 1979), ma persino la vittima. Ossia i marinai della petroliera…

Lode quindi a Francesco Russo e all’Agi per aver rotto – non solo loro- il fronte dell’omertà disinformativa (con alla testa Repubblica, Corriere e Libero).

Nel nostro piccolo anche noi avevamo notato subito la “stranezza” di un attacco a una petroliera giapponese nei giorni in cui Shinzo Abe era a Tehran per colloqui diplomatici con il premier iraniano Rouhani. E, nella pur ignobile storia delle relazioni tra paesi, mai si è visto un paese “ospitante” attaccare naviglio dell’”ospite” mentre questi è seduto al tavolo.

Al contrario, si è visto spesso il “terzo escluso” – in questo caso c’è persino l’imbarazzo della scelta, tra Usa, Arabia Saudita ed Israele – piazzare la sua bomba sotto il tavolo dei colloqui altrui.

Ma le cose che non tornano sono ache molto più concrete. A partire dalla “mina patella” che sarebbe visibile dalle foto molti metri sopra la linea di galleggiamento anziché sotto, che è lo scopo per cui vengono costruite.

Ma non vogliamo togliervi il piacere di leggere come un’agenzia ufficiale di stampa – di proprietà dell’Eni, e non ci sembra un caso – demolisce le sparate guerrafondaie della ex “sola superpotenza al mondo”.

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Cosa torna e cosa no nel video con cui gli Usa accusano l’Iran

Secondo Washington, le immagini mostrerebbero un membro dei pasdaran che rimuove una mina magnetica dallo scafo di una delle due petroliere attaccate nel golfo dell’Oman. Le immagini sembrano autentiche ma ciò non basta ad accertare le responsabilità di Teheran nell’attacco.

Francesco Russo

Per gli Stati Uniti è la prova inoppugnabile della responsabilità dell’Iran nell’attacco alle due petroliere finite in fiamme nel golfo dell’Oman. C’è invece chi lo considera una nuova “provetta di Colin Powell”, paragonandolo alle false prove con cui l’amministrazione Bush accusò Saddam Hussein di avere armi di distruzione di massa per giustificare l’invasione dell’Iraq.

Il video diffuso dalla Marina Usa che mostrerebbe, secondo Washington, un membro dei pasdaran iraniani che rimuove una mina magnetica inesplosa (in inglese “limpet mine”, ovvero “mina patella”) dallo scafo di una delle petroliere, la giapponese Kokuka Courageous, appare autentico, secondo un’analisi del New York Times, ma non per questo conferma la versione dei fatti della Casa Bianca. Versione dei fatti peraltro smentita dallo stesso armatore della Kokuka, il quale ha riferito che la nave è stata colpita da “oggetti volanti”, bollando come “false” le ricostruzioni che hanno parlato di mine o siluri. 

Colpisce inoltre la coincidenza dell’attacco a un’imbarcazione di proprietà nipponica con la visita a Teheran del capo del governo di Tokyo, Shinzo Abe, che ha incontrato il presidente della Repubblica islamica, Hassan Rohani, per provare a mediare con Washington. Alcuni analisti sostengono che frange dei Guardiani della Rivoluzione ostili a Rohani abbiano inscenato l’attacco per costringerlo a sposare una linea meno diplomatica. Una ricostruzione tutt’altro che da scartare ma che comunque non consentirebbe a Washington di puntare il dito direttamente contro il governo persiano. 

Dall’analisi del New York Times risulta che la nave raffigurata nel video, girato da un drone, è proprio la Kokuka e che il pattugliatore che la avvicina, dal quale si erge poi un uomo per rimuovere un oggetto dallo scafo, sembra dello stesso modello di quelli in dotazione ai pasdaran, a partire dal simbolo presente sulla prua. I dubbi sorgono sull’identità dell’oggetto rimosso. 

La marina Usa ha diffuso un’immagine della Kokuka che mostra da un lato il buco provocato nello scafo dall’esplosione di una mina e dall’altro un oggetto indicato come la mina patella poi rimossa da un uomo a bordo del pattugliatore. È quindi l’esplosione della prima mina ad aver provocato l’incendio? Così afferma Washington. Ma, a prescindere dalla diversa versione dei fatti fornita dall’equipaggio, c’è più di un punto che non torna.

In primo luogo le mine patella hanno di solito una carica esplosiva limitata. Adottati a partire dalla Seconda Guerra Mondiale, questi ordigni vengono utilizzati per bloccare una nave senza causare gravi danni. La questione principale è però che tali mine vengono piazzate da sommozzatori nella parte dello scafo che si trova sott’acqua, non sopra. Il motivo è che l’energia dell’esplosione si propaga dove incontra meno resistenza. Senza la pressione dell’acqua, l’onda d’urto si propaga quindi per lo più all’esterno, e non contro lo scafo, producendo perciò pochi danni.

Pur ammettendo che i Guardiani della Rivoluzione volessero compiere un gesto dimostrativo, appare quindi difficile che una mina patella, per di più piazzata sopra il piano di galleggiamento, produca un incendio come quello che ha investito la Kokuka.

Le mine patella, inoltre, vengono solitamente piazzate su navi all’ancora o attraccate, come nel caso delle petroliere saudite sabotate il mese scorso nel Golfo Persico. Farle aderire a navi in movimento, come le due petroliere attaccate tre giorni fa, è un’operazione molto più complicata. Certo, se delle mine magnetiche sono state attaccate allo scafo di una nave in movimento da un pattugliatore, e non da sommozzatori, ciò spiegherebbe perché siano state messe fuori dall’acqua e non sulla carena. Si tratterebbe però di un’operazione piuttosto raffazzonata per forze armate competenti come quelle iraniane. 

A suscitare i maggiori dubbi è infine che un pattugliatore affollato si sia avvicinato alla petroliera e un uomo abbia rimosso manualmente la mina circondato dai compagni. Si tratta infatti di un’operazione estremamente pericolosa anche nell’ipotesi che l’ordigno non contenesse il dispositivo, spesso presente nelle mine patella, che causa l’immediata detonazione in caso di tentata rimozione. In questi casi, per minimizzare i danni in caso di esplosione, viene inviato un numero molto limitato di persone, lo stretto necessario per l’operazione, non un pattugliatore affollato come quello che si vede nel video. 

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