Il Consiglio statunitense per le denominazioni geografiche ha deciso di mutare la trascrizione internazionale del nome della capitale ucraina: dal 17 giugno cambierà da “Kiev” in “Kyiv” e, come si compete, la decisione è stata assunta dal padrone.
Ciò che invece Washington non ha cambiato, o ha adattato ai tempi, è l’elenco delle città della Russia verso cui sono puntati i missili americani, rispetto alla lista messa a punto sessant’anni fa contro l’URSS. Allora, il primo colpo nucleare era previsto sugli aerodromi bielorussi di Bykhov e Orša, in cui erano stanziati i bombardieri strategici M-4 e Tu-16, seguiti poi da altri 1.100 aeroporti; dopo, sarebbe toccato a Mosca, Leningrado, Gorkij, Kujbyšev, Sverdlovsk, Kazan, Novosibirsk, Omsk, e poi Pechino, Varsavia,ecc.: in queste e in alcune altre decine di città, l’obiettivo era costituito dalla popolazione civile.
Al momento, quantomeno in apparenza, quella del lancio di missili nucleari sembra “l’ultima opzione” e la contrapposizione USA-NATO con Mosca si manifesta con il dispiegamento di uomini e mezzi sempre più vicino ai confini russi e manovre militari ininterrotte. A inizio giugno hanno preso il via le esercitazioni “Saber Strike” in Estonia, Lettonia, Lituania e Polonia, e le “Baltops”, al largo delle coste baltiche di Germania, Polonia, Lituania, Lettonia, Svezia e Danimarca. Nelle prime, sono coinvolti circa 18.000 soldati di 19 paesi; alle seconde, partecipano 43 navi, due sommergibili, 60 aerei e 8.600 uomini di 22 paesi. Dal 15 al 25 giugno, 18.000 uomini partecipano alle manovre “Dragon-19” in Polonia.
Tale costante e ripetuto spiegamento di forze assume contorni più netti di collisione, anche alla luce di quanto enunciato da Vladimir Putin al recente forum economico di Piter. Dodici anni dopo il discorso di Monaco, nota il politologo russo Aleksandr Khaldej, con cui aveva avvertito che l’Occidente era sull’orlo di un pericoloso confronto, ora Putin ha illustrato la dottrina di contrapposizione globale con gli USA, non riconoscendo più il sistema di dominio mondiale degli Stati Uniti.
Mosca lancia una sfida totale a quel sistema, dice Khaldej e, in questo confronto, “si unisce con la Cina e con quei soggetti mondiali che non hanno perso la volontà di salvarsi dal giogo americano”. Mosca dichiara apertamente l’esistenza di due blocchi: con gli USA e contro di essi e, per la prima volta, Putin ha annunciato l’obiettivo di dividere l’Europa dagli Stati Uniti, mostrando, con l’esempio del “Nord Stream 2” – su cui la Germania, nonostante le minacce di Trump, non intende fare marcia indietro – la non corrispondenza degli interessi europei con quelli USA.
L’Europa non è più nemmeno un vassallo per gli Stati Uniti, ha detto in pratica Putin, ma è diventata una preda.
Naturalmente, in questa Europa c’è chi ambisce da tempo a ergersi a paladino degli interessi USA e rafforzare al contempo il proprio ruolo sul vecchio continente: lo hanno mostrato, per l’ennesima volta, i colloqui di Donald Trump col Presidente polacco Andrzej Dudą alla Casa Bianca. “Più esercito USA sul fianco orientale della NATO”, titolava tre giorni fa il polacco Rzeczpospolita, dando trionfalmente notizia dei colloqui, che però non hanno sortito i risultati sperati da Varsavia. Niente “Fort Trump” e niente Divisione USA, infatti, cui ambiva Varsavia, ma un aumento di “soli” mille soldati yankee.
Ci sono oggi in Polonia circa 13.500 soldati “alleati”, di cui 6.800 americani, scrive Rzeczpospolita. Di stanza in una dozzina di luoghi; ci sono unità corazzate, aerei, unità logistiche e di comunicazione, oltre a forze speciali; 4.000 soldati a rotazione costituiscono il battaglione multinazionale NATO a Orzysz. Una base missilistica a Redzikowo, con silos per razzi SM-3 “Block IIA”; alla base di Łask, dal 2012 è presente personale americano con caccia F-16.
Ma i colloqui Trump-Dudą avevano anche sfumature anti-tedesche: non a caso, alla vigilia di essi, l’ambasciatore tedesco in Polonia si era opposto pubblicamente a una base militare americana permanente in territorio polacco. Il fatto è che, osserva rubaltic.ru, se militarmente “Fort Trump” sarebbe diretto contro la Russia, in termini politici è non meno diretto contro la Germania e la “Vecchia Europa” nel suo complesso. Per ora, i polacchi devono accontentarsi del trasferimento (pagato da Varsavia 2 miliardi di dollari) dei mille soldati americani dalla Germania in Polonia e dovranno acquistare, come vuole Washington, caccia F-35.
A Piter, Putin ha definito gli Stati Uniti predoni, briganti, pirati, ricorda Khaldej; e non si tratta di un’allegoria emotiva, ma è un diretto tentativo di delegittimare l’egemonia americana: un predone non è un normale concorrente, è un criminale, con cui si parla il linguaggio della forza. Putin non ha semplicemente detto: “Se continua così, la guerra di tutti contro gli Stati Uniti è non solo legale, ma anche giusta” e “Russia e Cina sono pronte a rispondere a questa guerra!“; Putin ha detto di più: ha annunciato pubblicamente che “il re è nudo!” e lo ha fatto per gli europei, chiedendo uguali condizioni di sviluppo; ma, condizioni uguali significano per gli USA perdita della leadership, mentre la musica comincia a esser diretta da Europa, Cina, Russia.
E’ così che Mosca e Bruxelles stanno discutendo il passaggio a euro e rubli nel commercio dei prodotti energetici. E’ così che, mentre The National Interest si chiede se “Is Now the Time to Invade Iran?” e 55 anni dopo “l’incidente” del golfo del Tonchino, di fronte a un nuovo “incidente del golfo”, quello di Oman e in margine al vertice della Shanghai Cooperation Organisation (SCO), conclusosi venerdì a Biškek, il leader iraniano Hassan Rouhani si è rivolto a Putin chiedendo un’ulteriore espansione della cooperazione russo-iraniana. E’ così che ieri, alla Conferenza su cooperazione e rafforzamento della fiducia in Asia, a Dušanbe, Xi Jinping ha affermato che gli stati asiatici devono cercare modi per costruire una nuova architettura di sicurezza integrata nella regione.
Contrapposizione, dunque; insieme a un intreccio di interessi per cui, secondo uno studio riportato dalle Izvestija, la Russia è tornata tra i primi dieci paesi europei con i maggiori volumi di investimenti esteri diretti e, tra i paesi investitori, proprio gli USA sono uno dei primi, insieme a Germania, Cina, Francia e Italia. Da parte sua, la Russia, secondo il rapporto annuale BP, mantiene il quarto posto per le forniture di gas liquefatto (GNL) in Europa, con una quota del 10%, dietro a Qatar (32%), Algeria e Nigeria (17% ciascuna) e davanti a Norvegia (6%) e USA (5%).
Contrapposizione che si manifesta anche nel confronto tra mezzi militari USA e russi, in una concorrenza che prevede anche scontri diretti tra armi avversarie, per accaparrarsi nuovi clienti sul mercato delle armi. Così, Business Insider ha stilato l’elenco di una decina di tipi di armamenti USA che Mosca dovrebbe temere. La pubblicazione di tale elenco, a detta di Svobodnaja Pressa, rappresenterebbe un tentativo di riabilitare le forze armate americane, cui, in base alla simulazione di un conflitto tripartito condotta dalla RAND Corporation, era stata pronosticata la sconfitta in caso di guerra con Russia e Cina senza l’uso di armi nucleari.
Il primo posto dell’elenco è tenuto dal caccia-bombardiere F-35 che, secondo Business Insider, non ha concorrenti. Ma, osserva Vladimir Tučkov, intercettare un F-35 non è affatto un problema per i sistemi missilistici russi S-300, S-400 e S-500. Dopo i F-35, vengono i Eurofighter Typhoon, della generazione 4++, cui però non sono da meno i Su-35 o i Su-30. Ai B-52, B-2 e B-1B, Mosca può rispondere con intercettori MiG-31BM, o S-35S, Su-30, MiG-35, Su-27, oppure con caccia Su-34.
Contro gli aerei antisom “Poseidon”, i vascelli russi possono ricorrere ai missili “Kalibr”, con il rischio però di rivelare la posizione del sommergibile, contro cui la NATO schiera anche fregate di Italia, Francia, Spagna, Norvegia e Danimarca. L’elicottero “Apache”, che Business Insider mette al 6° posto, non riveste alcun pericolo per le difese russe, dato il suo limitato raggio d’azione. Più o meno la stessa cosa per i carri tedeschi “Leopard-2”, gli americani “Abrams” e i britannici “Challenger-2”, non in grado di tener testa, afferma Tučkov, ai nuovi T-72 e T-90 per manovrabilità, velocità e portata di tiro.
Alle portaerei classe “Nimitz”, con 70 caccia “Super Hornet” ciascuna, Mosca contrappone il bombardiere Tu-22M3, armato di missili con 1.000 km di portata. Al 9° posto il complesso missilistico USA “Patriot”, un’arma essenzialmente difensiva, peraltro ripetutamente screditata in Medio Oriente. In ultimo, i sommergibili classe “Virginia” di quarta generazione, armati di 26 siluri e 12 missili “Tomahawk”, effettivamente pericolosi per le difese russe, che possono opporre solo vascelli di terza generazione, oppure aerei e navi di superficie antisom. Ma le armi russe che sopravanzano in maniera assoluta quelle USA e NATO sono i sistemi missilistici “Iskander” e gli ipersonici “Kinžal”, oltre ai razzi su aereo “X-101”, con portata di 5.500 km.
Dunque, Mosca non pare aver problemi a tener testa e anzi sopravanzare – in alcuni casi, per superiorità tecnica; in altri, per numero – il dispiegamento militare USA e NATO. Tanto più che, come osserva ora l’esperto militare Nikita Mendkovič su stoletie.ru, si possono avanzare quantomeno seri dubbi a proposito della vecchia tesi secondo cui la fine dell’URSS sia stata causata dalle eccessive spese militari e, oggi, il mutato posizionamento mondiale e la diversa situazione economica, possono consentire a Mosca di investire nel settore militare.
Dunque, scrive Mendkovič, nel 1988 Ševardnadze calcolava le spese militari al 19% del PNL; nel 1990, Gorbaciov al 20%; nel 1991, il capo di stato maggiore Lobov a 1/3 del PNL. In una recente intervista, V. Falin, ex membro del CC del PCUS, le ha stimate, per il periodo brežneviano, al 22-23% del PNL.
“Una tale difformità di dati suggerisce che quelle stime fossero arbitrarie, tanto più che” dice l’esperto, secondo “le statistiche ufficiali, la spesa militare sovietica era relativamente modesta: nel 1968, 16,7 miliardi di rubli (2,6% del PNL ai valori del 1980); nel 1975-’76, 17,4 miliardi (2,8%); nel 1980-’84, 17,1 miliardi (2,7%); nel 1987, 20,2 miliardi (3,2%)”.
Fino al 1974-1975, afferma Mendkovič, i Servizi USA ritenevano che la spesa militare sovietica non superasse il 6-8% del PNL, meno di quella americana dal 1962 al 1971 (7-10%). Nel 1976, le stime statunitensi elevarono la spesa militare sovietica dal 6 al 12-13% e, nel 1985, al 15-17%. Mendkovič ipotizza che dietro quelle cifre al rialzo ci fosse la lobby militare-industriale USA, interessata a presentare al Congresso la minaccia sovietica.
Così, lo spauracchio militare-industriale sovietico, creato dai Servizi USA, convinse la leadership americana a lanciare un nuovo round della corsa agli armamenti (il programma Strategic Defense Initiative, o “Star Wars”) per costringere l’URSS ad aumentare le spese militari a un livello inaccettabile. In quel momento, Gorbaciov aveva appunto bisogno di argomenti che giustificassero la riduzione delle spese militari sovietiche, per utilizzarli contro l’opposizione “conservatrice” del CC e condurre una politica estera di “concessioni asimmetriche” all’Occidente sul disarmo. Per evitare accuse di capitolazione, doveva dire che la corsa agli armamenti danneggiava enormemente l’economia sovietica e, per farlo, ricorse ai dati della CIA.
Da calcoli successivi, è risultato che la spesa militare nel 1985 e 1986 rappresentava rispettivamente l’8,4% e l’8,1% del PNL: dunque, del tutto comparabile con quella statunitense. Quella sovietica era leggermente maggiore, ma questo perché nel complesso militare-industriale sovietico, il 45% dei lavoratori erano impegnati nella produzione civile: aspirapolvere, frigoriferi, fornelli elettrici, motocicli. Tale de-specializzazione del complesso militare-industriale aveva i suoi vantaggi: in periodo di pace, era possibile sfruttare i suoi fondi con il massimo beneficio e, in caso di guerra, facilitava la loro conversione.
Qual è dunque la ragione della crisi economica dell’URSS degli anni ’80, si chiede Mendkovič, che pure non fa parola delle “riforme” di mercato avviate sin da inizi anni ’60. Nel 1985-1989 l’URSS si trovò di fronte al problema “dell’equilibrio del commercio estero, causato tra l’altro dalla caduta dei prezzi del petrolio; insieme al caotico aumento degli investimenti e all’aumento dei redditi”, ciò provocò un “deficit di bilancio, compensato da un aumento dell’offerta di moneta e da prestiti esteri. Certamente, questi problemi di bilancio non furono l’unica ragione del crollo dell’Unione Sovietica, ma dettero un contributo tangibile ai processi negativi di fine anni ’80”.
“Il progetto sovietico non si era esaurito e non è morto da solo” ha scritto il filosofo russo Sergej Kara-Murza; “aveva malattie della crescita e di “superlavoro”, una discrepanza tra un certo numero di suoi istituti e la nuova condizione della società. In queste condizioni è stato liquidato dai nemici nella guerra fredda, anche se con le mani di tre forze della società sovietica: parti della nomenclatura del PCUS, parti dell’intellighenzia (i cosiddetti “occidentali”) e parti del mondo criminale. Succede che un individuo forte e intelligente venga aggredito da un pidocchio tifoide e muoia: ciò non cambia le sue qualità da vivo. Per la scomparsa dell’URSS, possiamo solo concludere che i suoi sistemi immunitari erano deboli”.
A parziale conferma, l’ex Segretario di stato James Baker: “negli ultimi 40 anni abbiamo speso trilioni di dollari, per riportare la vittoria sull’URSS nella guerra fredda. Il fattore essenziale: abbiamo trovato i traditori”; e l’ex direttore della CIA Robert Gates: “Avevamo capito che l’URSS non la si prende né con la pressione economica, né con la corsa agli armamenti, né tantomeno con la forza. La si poteva liquidare solo con un’esplosione interna”.
Di fronte a una nuova corsa al riarmo, oggi, a scombinare le carte in tavola, potrebbero esserci altri problemi interni alla Russia degli oligarchi, in cui oltre il 51% delle famiglie con figli (dati governativi) è al di sotto della soglia di povertà. Ma questo è un altro discorso.
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