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L’Unione Europea lavora per i capitali che fuggono a Panama

Segui il denaro… Il vecchio insegnamento che guida ogni investigatore serio vale soprattutto per le direttive dell’Unione Europea. C’è ancora qualche sprovveduto che crede che sotto questa sigla ci sia l’Europa, con il solito corollario, di diritti, libertà, welfare, ecc. Noi scriviamo spesso l’esatto contrario: l’Unione Europea è una gabbia tessuta da trattati interstatuali che spesso non vengono neanche letti dai ministri che li sottoscrivono (specie quelli italiani, pare…), da direttive e prescrizioni univocamente miranti a rendere il capitale multinazionale e finanziario libero di scorazzare, piegare stati e governi, stravolgere legislazioni e costituzioni per drenare risorse altrimenti indisponibili per gli appetiti degli avvoltoi.

Naturalmente, dimostrare questa realtà è abbastanza complesso, anche se la tragica vicenda greca dovrebbe aver spiegato anche al più illuso come stanno in realtà le cose. Però sembra che non basti mai.

Il problema che oscura la comprensione risiede nel carattere altamente tecnico, spesso straordinariamente complicato e assolutamente fantasioso, del funzionamento delle scatole societarie entro cui opera il capitale; soprattutto quello finanziario, ma anche quello industriale. Una sorta di hic sunt leones davanti a cui la ricerca non può che interrompersi. Di fronte a tanta complessità studiata apposta per dissolvere la natura in fondo semplice dell’appropriazione privata, molti rinunciano a capire e si affidano a formule retoriche (“l’Europa” resta in prima posizione, ma anche la cultura d’impresa sta sempre ai vertici) che a loro volta nascondono invece di rivelare.

Un esempio concreto di questa complicatezza viene da due articoli de IlSole24 Ore che legano strettamente la costituzione di società off shore a Panama con una direttiva del 2005, quella sul risparmio, abilmente studiata per essere aggirata.

per una strana circostanza l’Europa aveva previsto di tassare solo i conti intestati a persone fisiche e non quelli delle società. L’imposta era studiata per essere aggirata, come si può ricostruire oggi incrociando i Panama Papers con i file non ancora pubblicati della Lista Falciani”.

Si parla dell’”euroritenuta”, che in teoria avrebbe dovuto recidere il legame tra capitali generati o basati in Europa e i paradisi finanziari.

La ricostruzione tecnica, nei limiti di spazio di un articolo giornalistico, è abbastanza chiara sul giornale di Confindustria. Qui converrà soffermarsi, invece che sugli intrecci da spy story che sembrano la caratteristica principale dei movimenti del capitale, sul risultato prodotto: una evasione fiscale gigantesca, incoraggiata e agevolata dall’Unione Europea, che è andata a ingrossare le dimensioni del capitale finanziario in grado di operare su qualsiasi mercato con effetti sistemici.

Se confrontiamo gli effetti di questa direttiva con quelli, ben più stringenti e soffocanti, previsti dalle “riforme strutturali” del mercato del lavoro, del welfare, della contrattazione (contro cui per esempio studenti e operai francesi stanno in questi giorni lottando con grande determinazione), non si può non vedere una straordinaria differenza. Che diventa a sua volta un preciso disegno “riformatore”: sottrarre reddito diritti e potere contrattuale – dunque anche peso politico – ai ceti che vivono di lavoro dipendente per accrescere la forza dispotica del capitale sovranazionale.

Un disegno che è stato ben compreso dalla “classe dirigente” italica, ma che viene utilizzato nel modo straccione che le è proprio. Il secondo articolo, infatti, riguardante i giochi avvenuto negli ultimi dieci anni intorno all’Ilva – con la famiglia Riva e altri complici – sembra quasi descrivere un format per la fuga del capitale creato in Italia, grazie al lavoro di migliaia di persone, e trasferito in Svizzera o nei Caraibi.

Sempre lamentando, naturalmente, “l’impossibilità di fare impresa” a causa del presunto eccesso di regolamentazione a tutela dei lavoratori o il costo del lavoro…

Letture non rasserenanti e in qualche misura ostiche, certo. Ma o ti informi, oppure se costretto a tacere e subire.

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I Panama papers, la lista Falciani e la profezia di Tremonti

di Angelo Mincuzzi

 

Giulio Tremonti, quella volta, l’aveva proprio azzeccata. Era il 20 ottobre 2009 e al termine della riunione dell’Ecofin in Lussemburgo, il ministro dell’Economia era andato giù pesante: «L’euroritenuta – aveva affermato – è stata sistematicamente evasa e tutti i paesi hanno subito e subiscono questa evasione». Cinque mesi prima Tremonti aveva scritto una dura lettera alle autorità svizzere denunciando l’uso di società offshore da parte delle banche della Confederazione per dribblare il pagamento dell’imposta. La prova che era davvero così spunta oggi dalle carte dei Panama Papers incrociate con i file segreti della Lista Falciani. Due facce della stessa medaglia, l’industria dell’evasione fiscale in chiave fordista.
Un documento interno della Hsbc consegnato da Hervé Falciani ai magistrati francesi e spagnoli, e finito con tutta probabilità anche tra le carte della Procura di Torino, dimostra che lo studio legale panamense Mossack Fonseca era uno dei più utilizzati dal colosso britannico quando bisognava offrire ai clienti una scappatoia fiscale attraverso società offshore per nascondere i soldi. È un file excel che contiene decine di migliaia di annotazioni scritte dai gestori della Hsbc Private Bank dopo le visite ai clienti della banca.
Ma il file è soprattutto una lettura istruttiva per capire perché l’euroritenuta adottata dall’Unione europea nel 2005 con la Direttiva sul risparmio si è tramutata in un grande flop grazie allo zampino delle banche elvetiche e degli studi legali come Mossack Fonseca. In base a quella disposizione le banche svizzere avrebbero dovuto comunicare agli altri paesi europei le informazioni sui conti aperti dai loro cittadini oppure applicare una ritenuta del 15%, poi salita al 35%, dei guadagni da dividendi e interessi. Tuttavia, per una strana circostanza l’Europa aveva previsto di tassare solo i conti intestati a persone fisiche e non quelli delle società. L’imposta era studiata per essere aggirata, come si può ricostruire oggi incrociando i Panama Papers con i file non ancora pubblicati della Lista Falciani.

Una soluzione per tutti
Tra i clienti degli istituti elvetici, nel 2005, l’arrivo della nuova ritenuta fiscale europea comincia a generare il panico. Ma i gestori hanno già pronta la soluzione: chiudere i conti personali e trasferire gli averi su conti intestati a società offshore nei paradisi fiscali, scatole vuote il cui unico scopo è non pagare l’imposta. Alla Hsbc la chiamano “soluzione Esd”, dove Esd sta per European savings directive.
In quel 2005, dunque – e per la verità anche negli anni successivi – a rimetterci sono i paesi europei che non incassano quanto dovrebbero dall’imposta. E a guadagnare sono le banche e gli studi legali come Mossack Fonseca, specializzati nella costituzione e nell’amministrazione di scatole vuote. Nei Panama Papers e nella Lista Falciani sono racchiuse le prove di uno dei più grandi sabotaggi degli ultimi decenni, attuato dai colossi del private banking con la complicità dei grandi studi legali nei paradisi fiscali.

Nel 2005 create 35 finte società al giorno
Per mettere insieme le due facce della medaglia – Panama Papers e Lista Falciani – bisogna allora bloccare l’immagine al 2005. I grafici elaborati in questi giorni dall’International Consortium of Investigative Journalism, che ha analizzato gli oltre 11 milioni di documenti dei Panama Papers, permettono di ricostruire il primo tassello. Uno tra tutti in particolare. È quello che fotografa il numero di società registrate da Mossack Fonseca negli ultimi 38 anni, 210mila offshore domiciliate a Panama, nelle Isole Vergini Britanniche, nelle Seychelles e a Niue, un’isoletta del Pacifico. Il picco si osserva chiaramente nel 2005, quando Mossack Fonseca fonda 13.287 offshore. Più di 35 al giorno considerando anche le domeniche e i festivi. È una affannosa catena di montaggio. Un record. Negli anni successivi la curva scende fino alle circa 4mila società del 2015. Teniamolo a mente, questo dato.

Il sistema delle scatole vuote
moneyE ora spostiamoci a Lugano, nella sede della Hsbc. È il 23 giugno 2005 quando uno dei gestori della banca incontra una cliente italiana, una donna che risiede a Genova. Nel “visiting report” inviato all’ufficio compliance della Hsbc, il gestore annota che la cliente ha ereditato una casa a Tortona, in provincia di Alessandria, e ha una proprietà a Miami, in Florida. Deve trasferire gioielli, monete d’oro e orologi antichi da una cassetta di sicurezza del Credit Suisse di Lugano alla Hsbc e deve investire il cash (circa 700mila euro) in strumenti finanziari. Ma non vuole pagare l’euroritenuta. «La cliente – annota il gestore, senza immaginare che le sue parole finiranno nelle mani dei magistrati – ha accettato la mia proposta di (aprire) un semplice conto intestato a una società. A causa delle nuove regole interne dobbiamo andare noi stessi direttamente alla Mossack Fonseca per acquistare la compagnia. Abbiamo chiesto una lista e loro hanno scelto il nome Bluelake Marketing SA. Tutti i documenti devono essere pronti per settembre e li firmeremo direttamente a Genova».
Dunque, il gestore della banca consiglia alla cliente una scappatoia per non pagare le imposte e commettere un reato, l’evasione fiscale.
A questo punto entra in scena Mossack Fonseca, che registra una scatola vuota a Panama alla quale viene intestato il conto bancario della cliente italiana. Ecco che il gioco è fatto. Nessuno potrà mai mettere in relazione la Bluelake Marketing SA con la signora di Genova e tutti sono contenti. Tutti tranne il Fisco italiano (e quindi anche noi), che non incasserà quanto gli è dovuto. Per giunta i documenti della nuova società offshore verranno firmati a Genova, dove forse il gestore svizzero non ha l’autorizzazione a operare.

Efficienza svizzera a Panama
A Panama, intanto, gli uomini della Mossack Fonseca dimostrano un’efficienza svizzera, non certo latinoamericana. Anzi, si sono addirittura portati avanti, tanta è la richiesta di scatole vuote che arriva dall’Europa. Due giorni prima che la cliente genovese della Hsbc decida di servirsi dello schermo di una offshore, alla Mossack Fonseca avevano già risolto il suo problema. La mattina del 21 giugno davanti al notaio Benigno Vergara Cardenas si presenta l’avvocato Rigoberto Coronado dello studio legale Mossack Fonseca con lo statuto della Bluelake Marketing SA, i cui azionisti sono la Dulcan Inc. e la Winsey Inc, altre scatole vuote dello studio panamense che compaiono in centinaia di altri atti istitutivi. Un capitale sociale puramente formale di 10mila dollari diviso in 100 azioni al portatore fa sì che la società possa cambiare proprietario anche dieci volte nel giro di un minuto.
La offshore della signora genovese viene registrata ufficialmente nel Registro pubblico di Panama il 24 giugno, un giorno dopo la richiesta del gestore della Hsbc allo studio legale panamense. Una rapidità encomiabile. Oltre ai due finti azionisti, la società schiera ben cinque componenti nel consiglio di amministrazione tra presidente, segretario, vicesegretario, tesoriere e sub-segretario: tutti fantocci della Mossack Fonseca.

Il costo di una società: 1.300 dollari
Nell’estate del 2005, dunque, si saldano le due facce della medaglia che permette di capire cosa succede dietro le quinte dell’evasione fiscale internazionale. La ricca signora genovese ha ottenuto un reddito aggiuntivo grazie ai soldi evasi al fisco, la banca ha incassato la sua commissione e Mossack Fonseca ingrassa. Il tariffario che emerge dai documenti interni della Hsbc prevede generalmente una spesa di 1.300 dollari per ogni società creata: 800 per la Mossack Fonseca e 400 alla banca. Moltiplicati per migliaia di società sono una cifra di tutto rispetto.
E se nel frattempo qualche magistrato o qualche agente della Guardia di Finanza fosse inciampato per caso nella Bluelake Marketing SA alla ricerca dei suoi reali beneficiari avrebbe scoperto che la offshore era controllata dalla Dulcan e dalla Winsley, a loro volta controllate da altre due società, la Guixolex e la Rolika, a loro volta controllate da Jurgen Mossack, uno dei fondatori dello studio panamense, figlio di un nazista delle Waffen-SS, il braccio militare delle SS, fuggito a Panama dopo la Seconda guerra mondiale. Di casi così, nei visiting report della Lista Falciani ce ne sono migliaia.
Un gioco ben collaudato, l’asse Panama-Svizzera, svelato dalle carte dei Panama Papers e della Lista Falciani. Mossack Fonseca aveva relazioni con centinaia di banche e utilizzava 14mila intermediari, tra studi legali, professionisti, società finanziarie, trustee e fiduciarie. I Panama Papers rivelano che Hsbc ha creato 3.200 società nel paese latinoamericano ma Mossack Fonseca lavorava complessivamente con 500 istituti di credito che hanno istituito più di 200mila offshore. La Hsbc non era sola. Tra quelle carte c’è ancora tanto da scavare.

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Quel filo tra Mossack Fonseca e la vendita delle azioni Ilva

di Angelo Mincuzzi

C’è un filo sottile che lega i Panama Papers e la Mossack Fonseca alla vendita di un pacchetto azionario del 2,95% dell’Ilva posseduto dalla famiglia Amenduni e ceduto alla società lussemburghese Allbest nel 2007. Un’operazione da 180 milioni di euro i cui dettagli non sono ancora del tutto chiari e che coinvolgono la famiglia argentina Werthein e le Assicurazioni Generali.
Il punto di partenza è la società Daedalus Overseas Inc. fondata a Panama nel gennaio 1993 da Katia Solano De Bernal e Francis Perez, due segretarie dello studio legale Mossack Fonseca. La società, con un capitale di 10mila dollari suddiviso in 100 azioni nominative o al portatore, ha la sede sociale al secondo piano dell’Arango-Orillac Building, negli uffici della Mossack Fonseca.
Insieme alla Bright Global SA di Tortola, nelle Isole Vergini Britanniche (società che è stata molto probabilmente creata dallo stesso studio legale panamense), la Daedalus Overseas risulta azionista della Allbest SA, la società lussemburghese che nel 2007 ha rilevato dalla famiglia Amenduni il 2,95% dell’Ilva, la società siderurgica della famiglia Riva oggi in amministrazione controllata. Una normale operazione industriale, che aveva consentito agli Amenduni di ridurre la loro partecipazione nell’Ilva al 10,05% in un momento di forti frizioni con l’azionista di controllo Emilio Riva. Ma qui cominciano le stranezze.

Ilva-Taranto-RivaPur non avendo formalmente nulla a che fare con la famiglia Riva, la Allbest aveva la sua sede legale presso lo stesso domicilio della Utia, la società lussemburghese dei Riva che controllava il 39,9% della Riva Fire e a cascata l’Ilva Spa. Al momento della costituzione della società (il 22 dicembre 2006), inoltre, gli azionisti della Allbest erano rappresentati da Alain Thill, lo stesso professionista che sei anni dopo, nell’assemblea del 3 agosto 2012, sottoscriverà per conto della Monomarch Holding (la società olandese dei Riva che controllava Utia), l’aumento di capitale della stessa Utia. Nel marzo 2009, poi, tra gli azionisti della Allbest è comparsa anche la Companies & Trust Promotion, società presente nella Limbo e nella Canoe, due delle holding lussemburghesi della famiglia Ligresti, che conducono anch’esse a Panama.

Dei misteri della Allbest aveva parlato per primo il giornalista (oggi parlamentare) del Corriere della Sera, Massimo Mucchetti. E, come ha rivelato Claudio Gatti in un’inchiesta sul Sole 24 Ore, intorno alla Allbest non è mai stata fatta chiarezza. L’operazione di acquisizione della quota dell’Ilva non sarebbe stata poi così lineare e sarebbe finita tre anni fa al centro di un’indagine interna voluta dall’ex amministratore delegato delle Generali, Mario Greco. Infatti il 26 giugno 2007 le Generali avevano sottoscritto 180 milioni di un bond quinquennale della Allbest. Secondo un parere “pro veritate” dello studio legale Portale-Visconti, commissionato dalle Generali e rivelato dal Sole 24 Ore, «le somme ritratte dal collocamento del bond venivano utilizzate da Allbest per rimborsare un prestito-ponte ottenuto dalla Banca Svizzera Italiana impiegato per acquistare da Valbruna Nederland BV – società facente capo alla famiglia Amenduni – un pacchetto di azioni di Ilva Spa pari al 2,95% del capitale sociale, dietro il pagamento di un corrispettivo di 180 milioni». Banca Svizzera Italiana è una sussidiaria di Generali. Amenduni è azionista di Generali. Nel 2012 una società della famiglia Werthein si dichiarava soggetto di controllo di Allbest.
Chissà se i Panama Papers e le 200mila email trafugate alla Mossack Fonseca riusciranno a dipanare la matassa.

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