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La crescita si ferma, anche negli Usa

Il paradiso di tutti i neoliberisti – gli Stati Uniti – non sta affatto bene. Nonostante stampino la moneta che media tutte le principali transazioni commerciali, nonostante immissioni di liquidità spaventose, nonostante gestiscano le statistiche interne (disoccupazione, in primo luogo) con criteri alquanto arbitrari, nonostante un deficit e un debito pubblici che non consentirebbe loro l'ingresso nella Ue, e cento altri "nonostante", la "crescita" Usa si va arrestando di nuovo.
A certificarlo, per ora, è Moody's, la terza della triade di agenzie di rating che fa il bello o cattivo tempo sui titoli di tutto il mondo. La revisione al ribasso non è drammatica – a +1,7% dal +2,0% stimato in precedenza, mentre resta invariata a +2,3% la stima di crescita per il 2017 – ma si collega strettamente alle incertezze manifestate dalla Federal Reserve sull'opportunità di un aumento dei tassi di interesse proprio ora.
La Fed è la principale banca centrale del pianeta e ovviamente ogni sua decisione ha conseguenze globali, anche se presa in base a criteri e interessi strettamente nazionali. E' del resto cosa verificata abbondantemente nella storia degli ultimi decenni che gli Usa utilizzino moneta e influenza imperiale per "scaricare" altrove i propri problemi economici, nel mentre "succhiano" il meglio (risorse naturali o produttive) dal resto del mondo.
E' stata la Fed a inaugurare la politica dei "tassi zero" – su cui ora piange Bundesbank lamentando la scarsa redditività per le banche tedesche – costringendo di fatto tutte le altre banche centrali a fare altrettanto, in alcuni casi arrivando anche a tassi negativi (un controsenso economico, per cui chi presta denaro riceve alla restituzione un po' di meno). Una scelta che ha contribuito a tenere a galla il sistema finanziario globale dopo l'esplosione di Lehmann Brothers e la crisi ancora in corso, ma che non può strutturalmente avviare alcuna crescita duratura, visto che contribuisce a creare deflazione e quindi rinvio degli investimenti.
La Fed, quasi un anno fa, aveva annnciato un "graduale ritorno alla normalità monetaria", ovvero a tassi di interesse positivi, promuovendo un primo rialzo moderatissimo (dallo zero assoluto a 0,25%) e annunciandone almeno altri tre per l'anno in corso.
Non ce ne sono stati altri, invece, perché l'economia Usa ha ricominciato ben presto ad ansimare; e, come spiegano tutti i neoliberisti, se alzi i tassi di interesse l'attività economica viene "raffreddata".
La pubblicazione delle minute dell'ultima riunione della Fed rivela che le incertezze si traducono in spaccature dentro il Fomc (il direttivo), tra chi vorrebbe procedere comunque ai rialzi e chi – a cominciare dalla presidente Janet Yellen – preferisce attendere dati macroeconomici più chiari.
Il rialzo a settembre appare a questo punto abbastanza probabile, ma è anche l'ultima data utile del 2016, perché l'incrocio con le elezioni presidenziali costringerà la banca centrale a non fare variazioni nell'appuntamento successivo – dicembre – per non mettere il nuovo presidente appena eletto in una posizione che non ha contribuito a determinare.
A frenare il "ritorno alla normalità" ci sono anche fattori geopolitici con riflessi economici importanti, come la Brexit, la crisi bancaria europea (niente affatto superata), e persino il referendum italiano.
Ma bisogna sempre ricordare che le stelle polari delle scelte della Fed sono soltanto due: trassi di infazione e tasso di disoccupazione, ovviamente riferiti ai soli Stati Uniti. E mentre la prima appare ancora adesso ben lontana dall'obiettivo ritenuto ottimale (il 2% annuo), la dinamica occupazionale – drogata da criteri come quello per cui "chi lavora per un'ora in una settimana risulta occupato" – viene vista ancora come "positiva" e "in rafforzamento". E chi se ne frega – negli uffici che decidono le sorti del mondo – se quei posti di lavoro sono ormai "lavoretti" sottopagati (l'occupazione cresce soltanto in settori altamente precari come ristorazione, distribuzione, cura della persona, ecc) e quelli "buoni" non si trovano quasi più.
Le statiche esibite sono insomma "positive", ma l'economia non marcia. E dire che il governo Obama non ha certo seguito la linea dell'austerità alla tedesca, visto che il deficit federale del 2016 raggiungerà i 600 miliardi di dollari (160 più dello scorso anno), mentre lo stock del debito salirà dal 75 all'86%. Con questo andamento, prevede lL’Office of Management and Budget del presidente, tra 30 anni potrebbe arrivare al 146%.
Anche per gli Stati Uniti c'è ormai un problema demografico irrisolvibile con i criteri fin qui usati. La popolazione invecchia, il tasso di natalità crolla (anche nelle classi poverissime), la tradizionale politica dell'immigrazione è frenata dalla paura di importare altri problemi (dalle tensioni etniche al "terrorismo). Dunque la spesa sociale – anche in un paese che quasi non ne prevede – aumenta più velocemente del Pil. Ma amenta anche la quota di ricchezza che viene appropriata da un ristretto numero di "locupletati", come certificato da tutte le statistiche sulle diseguaglianze di reddito, in rapida crescita.
In effetti, non c'è troppo da invidiare il prossimo presidente, chiunque esso sia…
 

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