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L’occupazione cresce, ma soltanto se è precaria

E’ triste vedere un istituto prestigioso piegare l’enfasi – nel pubblicare i dati – in modo che i media possano fare più facilmente da coro al governo. Specie in materia di occupazione, ossia della condizione vitale per l’esistenza stessa della popolazione.

Nulla da eccepire sui numeri, naturalmente, raccolti ed elaborati da ricercatori di alto livello, anche se spesso con contratti assai precari. Fosse lasciata a loro la possibilità di presentare gli stessi dati, l’enfasi laudatoria ne uscirebbe parecchio azzoppata…

Nella nota diffusa stamattina si dà conto degli andamenti del secondo trimestre del 2017, che segna una certa inversione nel numero (dunque anche nel tasso) dei disoccupati: una crescita congiunturale (+78 mila, +0,3%) dovuta all’ulteriore aumento dei dipendenti (+149 mila, +0,9%), in oltre otto casi su dieci a termine (+123 mila, +4,8%).

La nota dell’Istat riferisce quasi per caso quel che dovrebbe essere invece il dato che rivela il fenomeno più rilevante nell’attuale mercato del lavoro: la sostituzione di lavoro a temo indeterminato con lavoro a termine. Rifacendo il conto con gli stessi numeri dell’Istat, infatti, viene fuori che il totale degli occupati (78.000 in più) è dovuto alla convergenza di due fenomeni: la diminuzione degli “autonomi” (partite Iva monocommittenti, consulenti, ecc: -71.000) e la crescita senza freni dei lavoratori a termine (123.000 sui 149.000 nuovi assunti). I posti di lavoro a tempo indeterminato in più sono soltanto 26.000.

Questo in una congiuntura temporaneamente favorevole (i tre trimestri precedenti erano stati caratterizzati da un aumento della disoccupazione), registrata in termini di crescita del Pil pari allo 0,4% nel trimestre e all’1,5% su base annua.

La centralità assoluta dei contratti a termine testimonia, forse involontariamente, dell’incertezza con cui le imprese affrontano l’aumento congiunturale degli ordinativi: si prendono dipendenti usa e getta, da qui a tre o sei mesi, perché nessuno sa dire – neppure la Bce – se il tren leggermente positivo durerà più a lungo.

Fa pena dunque il concerto dei media mainstream che segnala come – tra il secondo trimestre del 2017 e lo stesso periodo dell’anno precedente – venga stimata una crescita di 153 mila occupati (+0,7%), che riguarda comunque soltanto i dipendenti (+356 mila, +2,1%), oltre tre quarti dei quali a termine, a fronte della rilevante diminuzione degli indipendenti (-3,6%).

Prenndendo in considerazione l’arto temporale di un anno, insomma, la sostituzione di lavoro stabile con lavoro precario risulta ancora più lampante.

Un piccolo esercito di lavoratori con salari più bassi e senza garanzie di continuità lavorativa, su cui dunque non viene costruita alcuna prospettiva produttiva di lungo periodo. Lo stesso calo degli “inattivi” (-0,3 punti) 15-64 anni rivela che “la riserva di grasso” in mano alle famiglie si è assottigliata, costringendo una parte a tornare sul mercato del lavoro, pronti ad accettare qualsiasi retribuzione.

Le variazioni degli stock – spiega la stessa Istat – sottintendono significativi cambiamenti nella condizione delle persone nel mercato del lavoro, misurati dai dati di flusso a distanza di dodici mesi. Nel complesso continuano a diminure le transizioni da dipendente a termine a dipendente a tempo indeterminato (dal 24,3% al 16,5%). A fronte della riduzione complessiva delle transizioni dalla disoccupazione all’occupazione (-3,1 punti), i flussi dai disoccupati verso i dipendenti a tempo determinato aumentano (+0,9 punti). Riguardo agli inattivi, per le forze di lavoro potenziali è aumentata soprattutto la percentuale di quanti transitano verso la disoccupazione (dal 18,5% al 21,3% nei dodici mesi). Ovvero cercano nuovamente un lavoro, ma non lo trovano…

Le imprese, dal canto loro, colgono in pieno la debolezza dei lavoratori (che temono di perdere il posto) e dei disoccupati (disposti a fare qualsiasi cosa per qualsiasi salario). “Le ore lavorate per dipendente crescono (+0,2%) rispetto al trimestre precedente”.

Ne risentono ufficialmente anche le retribuzioni: “in termini congiunturali si registra una diminuzione dello 0,1% delle retribuzioni e dello 0,5% degli oneri sociali e, quale loro sintesi, un calo dello 0,2% del costo del lavoro”.

Se si può gioire per risultati così, allora tutto è possibile…

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