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La guerra dei dazi. La Ue minaccia, ma spera di non doverla fare

Ci avevano provato tutti e tre, separatamente. La Gran Bretagna contando sulla comune matrice anglosassone e la recente decisioni di uscire dall’Unione Europea. La Francia del fanfarone Macron, stretto in patria da un’opposizione popolare crescente e bisognoso di risultati tangibili in politica estera (oltre al facile neocolonialismo nell’Africa del Sahel). La Germania della misurata Angela Merkel, a sua volta con grossi problemi interni e dubbiosa sulle modalità di “riforma autoritaria” della Ue, per trasformarla in un’area di lbero scambio ma a”due velocità” senza però rischiare di condividere alcunché con i paesi più deboli e indeboliti dalle sue scelte.

Tutti e tra sono tornati da Washington con le pive nel sacco: Donand Trump non ha dato alcuna rassicurazione sull’esenzione dei loro paesi e dell’intera Unione Europea dai dazi che domani il presidente col ciuffo firmerà; intanto su alluminio e acciaio, poi si vedrà.

Messi di fronte all’evidenza – l’America di Trump ritiene di poter fare accordi più vantaggiosi trattando su basi di forza e separatamente con i singoli paesi – i tre, senza neanche perdere tempo a convocare “istituzioni europee” che contano soltanto quando c’è da bastonare i paesi minori, hanno rilasciato una dichiarazione congiunta in cui minacciano “reazioni proporzionate” all’introduzione di dazi sulle merci europee: «Gli Usa non devono prendere alcuna misura commerciale contro l’Ue, altrimenti l’Ue sarà pronta a difendere i propri interessi nel quadro delle regole del commercio multilaterale».

Ma ha poche frecce al proprio arco. Costruita – grazie alla leadership tedesca – come una macchina mercantilistica classica (salari interni bloccati o ridotti per acquisire un grosso vantaggio competitivo sulle esportazioni industriali di livello medio-alto verso i mercati Usa e cinesi), la Ue è quella che più ha da perdere in una vera guerra commerciale. Perché il grosso del suo mercato interno è stato nel frattempo pauperizzato e sfamato con merci asiatiche dai prezzi imbattibili. Cambiare modello in corsa è quasi impossibile, se c’è ancora chi ci guadagna molto (Berlino).

Finiti, e da un pezzo, i fasti della globalizzazione a guida Usa, ora è la fase delle guerre: commerciali, monetarie, militari. In cui le alleanze sono labili, occasionali, rivedibili.

L’Unione Europea non è l’attore principale del grande gioco geopolitico in atto. Costruita come un mercato unico senza uno Stato propriamente detto, capace di sanzionare i membri che disattendono le sue indicazioni (sta per scattare una nuova modalità che consente di bloccare i fondi europei a quegli Stati che non “riformano il mercato del lavoro” nel modo richiesto), senza un esercito né una volontà comune, tantomeno con un qualsiasi consenso popolare, la UE è una potenza impotente verso l’esterno.

Gli attori principali sono tre, e a quelli pensano gli Stati Uniti quando fanno i calcoli globali: Russia e Cina sono i competitor dell’immediato futuro, tutti gli altri sono pedine aggiuntive – non tanto “alleati” – che possono usate per determinati obiettivi (attaccare la Siria o chiunque altro) e sacrificate per altri (difendere a colpi di dazi protezionistici la residua capacità produttiva yankee).

Anche sul piano dell’innovazione hi tech, infatti, gli Usa hanno scoperto di recente di essere vicini al sorpasso da parte di aziende cinesi, specie sulla frontiera del 5G (nuovo protocollo wifi che dovrebbe superare di molto l’ormai “vecchio” 4G) e dei processori, fino a poco tempo fa appannaggio pressoché esclusivo di multinazionali Usa.

Anche la supremazia tuttora vantata nei social network e dintorni è fortemente a rischio. Nuove piattaforme – anche qui russe e cinesi – si vanno affermando nei mercati “nazionali” o di area, con decine di milioni di utenti che non hanno più bisogno di passare per Facebook, Google o Whatsup. E’ solo questione di tempo, e altre decine di milioni potrebbero fare lo stesso se si aggraverà la “guerra commerciale” di tutti contro tutti.

La reazione di May, Macron e Merkel è dunque la classica faccia arrabbiata obbligata, ma ben poco convinta. Un alzare la voce sperando che il cane feroce si fermi, ma senza grossi strumenti per affrontarlo, se dovesse venire ancora avanti.

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