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Economia ferma e la finta “crescita dell’occupazione”

Nei giorni scorsi sono stati pubblicati dall’Istat i dati relativi alla stima preliminare del Pil:

Nel secondo trimestre del 2019” si legge nel comunicato stampa dell’Istituto Nazionale di Statistica “si stima che il prodotto interno lordo (Pil), espresso in valori concatenati con anno di riferimento 2010, corretto per gli effetti di calendario e destagionalizzato, sia rimasto stazionario sia rispetto al trimestre precedente, sia nei confronti del secondo trimestre del 2018. Il secondo trimestre del 2019 ha avuto una giornata lavorativa in più rispetto al trimestre precedente e una giornata lavorativa in più rispetto al secondo trimestre del 2018. La variazione congiunturale è la sintesi di una diminuzione del valore aggiunto sia nel comparto dell’agricoltura, silvicoltura e pesca, sia in quello dell’industria e di un aumento in quello dei servizi. Dal lato della domanda, vi è un contributo nullo sia della componente nazionale (al lordo delle scorte), sia della componente estera netta. La variazione acquisita per il 2019 risulta nulla.”

In altre parole il Pil, indicatore utilizzato dagli economisti come termometro per misurare la ricchezza di un paese, sembra non crescere più.

La crescita, appunto, se c‘è, è impercettibile, appena sopra il livello dello zero. Più specificatamente nel secondo trimeste del 2019 la crescita rispetto ai mesi precedenti è stata nulla, così come la crescita tendenziale, cioè rispetto al secondo trimestre 2018. E oramai siamo giunti al quinto trimestre consecutivo in cui la variazione congiunturale si attesta intorno allo zero.

Il dato sulla crescita zero nel secondo trimestre era atteso” ha affermato il ministro dell’Economia, Tria, commentando i dati sopra riportati “perché riflette il rallentamento in atto nell’economia dell’eurozona”. Dunque ha ammesso ufficialmente che l’economia italiana sia in stagnazione, pur invitando “a perseverare nello sforzo di rilanciare la crescita” e ritenendo ancora raggiungibile l’obiettivo dello 0,2 per cento per il 2019, sancito dal Documento di Economia e Finanza in aprile.

Indubbiamente non giova il rallentamento del commercio mondiale. La stessa economia tedesca è in flessione e la crescita complessiva dell’Eurozona non va oltre lo 0,2 per cento nel secondo trimestre, secondo i dati pubblicati da Eurostat. Fattori che hanno il loro peso su un paese che si basa molto sulle esportazioni come l’Italia. Tuttavia anche i consumi interni sembrano al palo, come afferma da tempo Confcommercio che ne denuncia la “scarsa dinamicità”.

A questi dati si aggiungono quelli ancor meno confortanti dello Svimez (Associazione per lo Sviluppo del Mezzogiorno) che per il Sud paventa esplicitamente lo spettro della recessione.

Dopo un triennio 2015-2017 di (pur debole) ripresa del Mezzogiorno” si legge nelle anticipazioni sul rapporto Svimez 2019 “si riallarga la forbice con il Centro-Nord. Tengono solo gli investimenti in costruzioni, crollano quelli in macchinari e attrezzature. Prosegue il declino dei consumi della P.A. e degli investimenti pubblici. Al Mezzogiorno mancano quasi 3 milioni di posti di lavoro per colmare il gap occupazionale col Centro-Nord. Il dramma maggiore è l’emigrazione verso il Centro-Nord e l’estero”.

L’Italia afferma lo Svimez, farà registrare una sostanziale stagnazione, con un incremento lievissimo del Pil dello 0,1 per cento: “Al Centro-Nord dovrebbe crescere poco, dello 0,3 per cento, mentre nel Mezzogiorno l’andamento previsto è un calo dello 0,3 per cento”.

Al calo della crescita economica al sud si aggiunge il declino demografico aggravato da un’emigrazione in aumento che non viene compensata nemmeno dai flussi migratori: nel rapporto prima citato, infatti si evidenzia come gli emigrati dal Sud – tra il 2002 e il 2017 – siano stati oltre 2 milioni, di cui 132.187 nel solo 2017. Di questi ultimi, 66.557 sono giovani (50,4 per cento, il 33 per cento dei quali laureati).

Insomma dai dati enunciati da due istituti pare emergere in prospettiva un quadro poco rassicurante per l’economia italiana.

Per questo sembrano sorprendenti i dati occupazionali, resi noti anche stavolta dall’Istat, che certificano una continua discesa della disoccupazione che a giugno ha toccato il 9,7%, la percentuale più bassa degli ultimi 7 anni, e contemporaneamente un tasso di occupazione al 59,2%, al suo massimo storico.

Insomma la componente occupazionale sembra sganciarsi dalla crescita economica e proporre un paradosso: economia ferma e occupazione che aumenta.

Tuttavia, come rilevato da diversi economisti, occorre non farsi trarre in inganno e gridare al miracolo; nell’area euro il tasso di occupazione è al 73% e la disoccupazione al 7,5% La disoccupazione giovanile è al 7,5%. Peggio di noi si attestano solo Grecia e Spagna.

Le regioni del nostro meridione primeggiano poi nel continente per le alte percentuali di neet (“Neither in Employment nor in Education or Training”, espressione che indica persone non impegnate nello studio, né nel lavoro né nella formazione) .

Entrando nel merito, tra le cause di riduzione del tasso disoccupazione vi è il boom del c.d. “part time involontario”, ossia di quei lavoratori costretti ad accettare un impiego a orario (e dunque stipendio) ridotto. Negli ultimi dieci anni i lavoratori costretti ad accettare un impiego a orario ridotto sono più che raddoppiati (+107,8%), passando da 1,3 milioni del 2008 a 2,8 milioni dello scorso anno.

La gente deve arrangiarsi e in situazioni critiche accetta la precarietà e/o contrattini piò o meno stabili, anche se comportano poche ore di lavoro e scarne buste paga.

Come poi rileva Valentina Conte nella pagine de La Repubblica: “la Cassa integrazione straordinaria (un ammortizzatore sociale erogato dall’INPS, avente la funzione di sostituire e/o integrare la retribuzione dei lavoratori sospesi o a orario ridotto di aziende in situazione di difficoltà produttiva, n.d.a ) è raddoppiata a giugno sull’anno prima, al sud è esplosa del 436%. Nei primi sei mesi siamo già a +42% sul 2018. E chi riceve la c.i.g.s. sta casa, ma formalmente è ancora dipendente. L’Istat dunque lo calcola come occupato. Come pure chi dichiara di aver lavorato almeno un’ora nell’ultima settimana”.

Giorgio Pogliotti, invece dal Sole 24 Ore, invita a guardare i dati in controluce  facendo emerge un quadro più in chiaroscuro, rispetto a quello che può trapelare da una veloce lettura dei dati Istat. “I 29mila disoccupati in meno registrati tra maggio e giugno sono in gran parte attribuibili alla fascia d’età tra 15 e 24 anni (-28mila), seguita da quella tra 25-34 anni (-15mila) e dai 50 anni (mille in meno). Ma dove sono finiti questi disoccupati in meno? Nella fascia 15-24 anni hanno ingrossato le fila degli inattivi esclusi dal mercato del lavoro (+28mila) e solo parzialmente sono stati riassorbiti tra gli occupati (+10mila). È andata peggio alla fascia d’età degli over 50, tra i quali si contano 35mila inattivi in più e 18mila occupati in meno. Mentre alla fascia centrale tra 35 e 49 anni è andata meglio con 5mila occupati in più e 23mila inattivi in meno”.

Insomma la lettura clinica dei dati non si presta a facili dichiarazioni ottimistiche.

L’Italia, come gli stessi rapporti Istat confermano, è un paese in declino demografico: si fanno pochi figli e il saldo tra emigrazione e immigrazione è negativo. Tale evidenza viene in soccorso alla domanda che molti si staranno ponendo: “Come è possibile che nonostante l’ economia sia sulla soglia della stagnazione in percentuale i tassi di occupazione aumentino?”.

Statisticamente parlando, il tasso di occupazione è dato dal rapporto tra gli occupati e la popolazione della classe di età 15-64 anni. Riducendosi il denominatore del rapporto, chiaramente il tasso di occupazione aumenta anche se il numero assoluto degli occupati non cresce.

In secondo luogo, come prima evidenziato, le ore lavorate si sono ampiamente ridotte rispetto alle persone che hanno trovato impiego. Cresce appunto il part-time involontario in luogo del full time, anche con durate brevissime e sono tante le persone con poche ore lavorate in un anno. Si riducono le ore lavorate, si riduce la qualità del lavoro; aggiungiamo poi che finora il principale sostegno alla crescita occupazionale sono stati gli sgravi contributivi concesse alle imprese.

Insomma anche il quadro occupazionale, se sottoposto ad un’analisi più approfondita, presenta caratteristiche inquietanti che, sommate alle stime non certo rosee di crescita del Pil, invitano a non essere ottimisti.

Occorrerà capire come si muoverà il governo – se durerà ancora – sul fronte della politica economica, anche se gli spazi di manovra per via della gabbia europea sono davvero esigui.

Per ora il reddito di cittadinanza ha assunto solo la funzione (peraltro rivista al ribasso rispetto alle stime iniziali) di ammortizzatore sociale, in quanto non sono ancora entrati a regime i processi di incrocio tra offerta e domanda di lavoro coordinati da navigator e centri dell’impiego.

Sul fronte economico, peraltro oggetto di dibattito sempre marginale rispetto al cavallo mediatico della Lega, quello dell’immigrazione, sembra essere stata messa all’angolo la proposta della flax tax, mentre si cerca di rilanciare un vecchio cavallo di battaglia della Lega, quello delle gabbie salariali; un sistema di calcolo salariale quanto mai obsoleto in un mercato del lavoro europeo senza barriere e che difficilmente, per ovvie ragioni, potrà essere approvato dai comprimari dei 5 Stelle che al sud (i cui lavoratori salariati sarebbero i più danneggiati se il provvedimento passasse), hanno la loro più ampia base elettorale.

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