Menu

Il 15 ottobre nella stampa italiana

Chi sembra avere problemi seri – politici, più ancora che economici – è “il manifesto”. Che riesce incredibilmente ad affiancare un pezzo onesto (Rocco Di Michele) che racconta la preparazione e in termini molto sintetici la piattaforma, con un vergognoso articoletto che sembra dettato direttamente dalla sala stampa della questura (Carlo Lania). Se questo giornale chiuderà, sarà anche e soprattutto per questa incapacità di scegliere da che parte stare. Particolarmente grave, in una situazione come questa che brucia oggettivamente i “territori di mezzo”.

Mentre la protesta americana attrae l’attenzione de Il Sole 24 Ore, che invece non si occupa affatto di quella europea e italiana. Potenza del fascino Usa?

 

*****

Rocco Di Michele ROMA

Uniti e plurali, «no al debito»

In alcune località esauriti i pullman. In viaggio una massa di persone che smentisce con i fatti i «seminatori di paura». Cresce la partecipazione in vista della manifestazione nazionale di sabato
ROMA

Con chiunque si parli – del Coordinamento 15 ottobre – si riceve la stessa risposta: «abbiamo la sensazione di una cosa molto grande, che sta crescendo di giorno in giorno». Tutti si tengono cauti sui numeri, perché a fare previsioni troppo grandi si rischia l’azzardo, a dare numeri piccoli si storna l’interesse. Ma gli occhi sorridono mentre si chiacchiera.
«Parliamo soltanto della parte organizzata, quella che confluisce nel Coordinamento: era da tempo che non si vedeva una simile volontà di partecipazione popolare». Da alcune località segnalano che le ditte hanno esaurito i pullman da affittare. Poi ci sono gli aneddoti, come «una nonna di Brindisi sta organizzando le macchine per venire, vuole portare i suoi nipoti, perché il mondo è loro e devono capire». O il disabile che chiama per sapere come fare a raggiungere S. Giovanni (punto d’arrivo previsto per il corteo). O in gruppo di paesani che invitano «tutti Roma, vecchi e bambini», mettendo a disposizione le auto. Sul sito sono arrivate centinaia di adesioni di «strutture», non solo di individui.
Diverse le ragioni di questa crescita. La «lettera della Bce» ha chiarito anche ai refrattari che i vincoli europei saranno tali da non lasciare margine di manovra a qualsiasi governo segua Berlusconi, anche il più benintenzionato. Per altri, le iniziative di questi giorni – i presìdi davanti alle sedi della Banca d’Italia a Roma, Bologna, Napoli, Ancona, ecc – «hanno fatto chiarezza sia sull’atteggiamento della polizia che su quello di molti partecipanti». Determinazione, ironia, critiche radicali, ma nessuna scivolata in «problemi di ordine pubblico». I «seminatori di paura» non hanno spaventato nessuno, «per assenza di prove». Non era scontato, con un governo sull’orlo del baratro, che «potrebbe trovare utile buttarla in violenza».
Anche la distensione dei rapporti tra i promotori – forze sindacali, associazioni e/o gruppi politici spesso in concorrenza reciproca da una vita – ha dato il segno di una consapevolezza più matura. Composizione e percorso del corteo, come anche le parole d’ordine che devono caratterizzarlo, sono stati oggetto di lunghe e ripetute riunioni. Alla fine è stato deciso che il corteo sarà aperto da due striscioni, sorretti «non da esponenti noti delle varie organizzazioni, ma da protagonisti di vertenze in atto sui posti di lavoro, nelle scuole o nel territorio».
Gli slogan che prima in qualche misura contrapponevano l’ampio schieramento saranno entrambi «in testa». Davanti quello che unifica le mobilitazioni che contemporaneamente avverranno in tutta Europa («Peoples of Europe, Rise Up!») e subito dopo «Cambiare l’Europa per cambiare l’Italia». Da piazza Esedra a S. Giovanni, passando per il Colosseo. Al termine, niente comizio «centrale», ma una serie di interventi brevi e «esemplari» (No Tav, migranti, call center, lotta per la casa, cassintegrati Fiat, ecc). Poi una serie di «step corner» tematici. E, soprattutto, un mare di tende che verranno piantate in tutta la zona, perché «qui non si torna a casa».
Gli studenti (Atenei in rivolta, Rednet, Unicommon, Link, Uds) partiranno dalla Sapienza, per ricongiungersi al corteo principale a piazza dei 500. Deciso anche l’ordine con cui si inseriranno il gran numero di realtà (impossibile fare a nostra volta l’elenco completo e ce ne scusiamo: Arci, Fiom, S. Precario, Uniti per l’alternativa, Artisti Teatro Valle, Roma bene comune, Unione sindacale di base, Cobas, Rete 28 Aprile, Legambiente, Rete viola, Cub, Attac, Comitati per l’acqua pubblica, No Tav, e poi le forze politiche: Sel, Pdci, Rifondazione, Sinistra critica, Rete dei comunisti, ecc). Perché l’«indipendenza» che da più parti viene evocata come caratteristica necessaria di questo movimento è «dalla politica di palazzo». O, in soldoni, «dal Pd».
Un vero caleidoscopio, che viene «oggettivamente riunificato» – si sarebbe detto un tempo – dalla necessità di opporsi a politiche economiche che distruggono diritti, reddito, posti di lavoro, futuro. Il «non paghiamo il debito» risuona a fianco di «eat the rich!» (importato dagli studenti napoletani); il «no all’Europa delle banche» è sostenuto dalla certezza di essere «il 99%» della popolazione del pianeta. Non solo dell’Italia. Persino Berlusconi – già quasi dimenticato (anche se tutti guardano con ovvia attenzione al voto di fiducia di stasera) – appare qui un problema minore, «local».
La contestazione davanti alle sedi della Banca d’Italia è diventata la cifra di un movimento che vede nel «meccanismo» – non nelle singole persone messe a guidarlo – il problema da risolvere. Prima che l’avanzare della crisi ci travolga tutti, senza ancora aver individuato quel «nuovo modello di sviluppo» che potrebbe tirarcene fuori.

*****
il pezzo del questurino Lania, così poco informato sui fatti da non sapere neppure che nessuno – mercoledì – ha tentato di “occupare la Banca d’Italia”, mentre c’è stato invece un grosso presidio simbolicamente intenzionato a “riconsegnare al mittente” (ovvero al governatore, Mario Draghi) la “lettera della Bce” che aveva firmato insieme a Jean-Claude Trichet.

Carlo Lania ROMA
ORDINE PUBBLICO
A preoccupare sono i gruppi sciolti del movimento

ROMA
In queste ore la parola che più preoccupa chi domani avrà il compito di gestire l’ordine pubblico a Roma è «frammentazione». Termine che non si riferisce ovviamente alle decine e decine di migliaia di indignati attesi nella capitale da tutta Italia, ma a quei gruppi che, insofferenti a ogni steccato organizzativo, hanno già fatto sapere di volersi muovere per conto proprio. Per sua natura il movimento non si esaurisce infatti nel coordinamento 15 ottobre, che ha chiesto l’autorizzazione a manifestare, ma ingloba in sé realtà sociali spesso parecchio diverse tra loro.
Oggi a mezzogiorno si terrà un tavolo tecnico per mettere a punto gli ultimi ritocchi alla macchina della sicurezza. Saranno presenti, oltre al questore Francesco Tagliente, i vertici di polizia, carabinieri, guardia di finanza e vigili urbani. E’ previsto un impiego massiccio delle forze dell’ordine (sono mobilitati più di mille uomini) schierate prima di tutto a difesa dei palazzi istituzionali, ma anche di possibili obiettivi collocati lungo il percorso che da piazza della Repubblica porterà il corteo fino a San Giovanni. E ieri per tutto il giorno sono stati effettuati sopralluoghi proprio per individuare tutti quei posti che potrebbero essere presi di mira dai dimostranti. Uffici pubblici e banche primi fra tutti, ma non solo. L’intenzione è di attuare un controllo capillare del territorio in modo da poter intervenire celermente nel caso servisse. Anche perché in Questura è ancora forte il ricordo di quanto accaduto il 14 dicembre e nessuno vuole ripetere quell’esperienza. «Speriamo soprattutto che nessuno dei manifestanti voglia ripeterla. – spiega un funzionario impegnato nell’allestire l’apparato di sicurezza – Comunque noi siamo pronti. Sappiamo ad esempio che a un certo punto un corteo non autorizzato si muoverà verso il Colosseo, vedremo come si comporteranno». Chiaramente i manifestanti troveranno il Colosseo blindato.
Almeno ufficialmente, però, al momento si preferisce far prevalere l’ottimismo. «Speriamo che vengano tantissime persone e che possano manifestare il loro dissenso, ma che facciano anche delle proposte se vogliono essere considerate un soggetto politico», ha detto ieri il prefetto di Roma, Giuseppe Pecoraro. La linea scelta, per ora, resta quella adottata mercoledì sera in via Nazionale quando i «draghi ribelli» hanno tentato di occupare la Banca d’Italia e la polizia ha evitato accuratamente di far salire la tensione più di tanto. Al punto che a tarda notte alcuni indignati che si erano stesi in mezzo alla strada sono stati trascinati via dagli agenti senza violenza mentre gli altri si appostavano sulle scalinata del palazzo delle Esposizioni. Ma è’ chiaro che si tratta di due situazioni, quella di mercoledì e quella di domani, completamente diverse e non paragonabili tra loro.

*****
da Repubblica

Smartphone, draghi e assemblee. “La nostra exit strategy dalla crisi”

A Roma secondo giorno di proteste davanti alla sede di Bankitalia. Un serpentone colorato raggiunge il ministero dell’Economia: “Non possiamo farci dettare la linea economica dalla Bce”. Prove generali per la mobilitazione del 15 ottobre

di CARMINE SAVIANO

Accampati. In tenda nel cuore di Roma. I Draghi Ribelli replicano: e per la seconda giornata consecutiva portano la loro protesta in Via Nazionale. A pochi metri dalla sede centrale della Banca d’Italia e dai palazzi della politica va in scena un happening fatto di musica e dibattiti. E di rivendicazioni e accuse senza sconti. “Le nostre idee sono maggioranza nel Paese”. Ma per la politica economica “il governo sceglie di seguire le indicazioni scritte in una letterina privata da Draghi e Trichet”. Non ci stanno. E rilanciano: si tratta solo della prova generale per la manifestazione del 15 ottobre. Quando “centinaia di migliaia di persone porteranno in strada le ragioni per elaborare una nuova exit strategy dalla crisi”. Una via d’uscita alternativa e condivisa.

La sveglia per i Draghi Ribelli suona presto. Poco dopo le sette di questa mattina, quando ricevono colazione, giornali e sigarette dopo una notte passata sulle scale del Palazzo delle Esposizioni. Giusto il tempo per il caffè e poi ognuno ai posti di combattimento. Cioè ai computer. Un clic e via a predisporre la nuova giornata di mobilitazione. Gli appuntamenti e il programma vengono stilati in maniera collettiva su Facebook e Twitter. Partono gli inviti e dopo poche ore iniziano ad arrivare le prime persone. “Ci stiamo riuscendo: staccare i ragazzi dai pc per portarli nelle strade”. Perché la situazione “è grave, lo avvertiamo tutti”. Poi, a mezzogiorno, la prima assemblea, dove le attività della giornata vengono messe nere su bianco.

Poco cibo a pranzo. Tutti concentrati su smartphone e affini. La strategia è semplice: coinvolgere quante più persone possibili. Dagli studenti ai professionisti, dagli operai ai lavoratori dello spettacolo. Poco dopo le quattro, parte l’assemblea pubblica. Una riflessione a più voci. Obiettivi, aspettative, richieste. Per più di un’ora il microfono passa di mano in mano. Decine di interventi. Gli studenti: “Non è vero che non c’è alternativa. Vogliamo pensare alle ricadute della crisi sulle nostre vite. E cambiare i rapporti di forza nel Paese”. Poi una difesa d’ufficio. Dall’accusa di essere un movimento improvvisato e ispirato dalle ragioni degli indignati di mezzo mondo. “Non è vero. Qui parliamo delle nostre vite, dei nostri conflitti, delle nostre lotte. Il movimento in Italia ha una storia profonda, le cui ultime tappe sono Genova 2001 e le mobilitazioni studentesche dell’anno scorso”. La differenza è in una coscienza diversa: “Dobbiamo coinvolgere sempre più persone. Non ci accontentiamo più di sentirci dire che facciamo bene a protestare”.

Intervengono in molti. I migranti: “Ci dimenticano, non si rendono conto delle nostre potenzialità”. Gli operatori dello spettacolo che occupano il Teatro Valle: “Dobbiamo ripensare la politica. Chiedere ai partiti di fare un passo indietro. E assumerci in prima persona la responsabilità del nostro futuro”. Gli operai: “Siamo qui per i nostri figli. Non vogliamo che il loro futuro sia come il vostro presente: cupo, quasi senza via d’uscita”. Le speranze e i conflitti del Paese. Legati, messi insieme. Affrontati con un unica prospettiva: per risolverli non serve più “la dittatura del mercato”, non serve più “una politica che si fa solo portavoce dei potentati economici”, non servono “cittadini chiusi in casa”. Tutto passa per l’elaborazione di un nuovo senso di comunità. Perché se c’è un effetto tangibile del berlusconismo è la deformazione della “coscienza del proprio stare insieme”.

Alle 18 via Nazionale è blindata. Camionette della polizia chiudono tutti gli accessi. Il Gioco del Drago parte comunque: in fila indiana sui marciapiedi. Una marcia pacifica che ha un solo obiettivo: il ministero dell’Economia. Per portare un messaggio a Giulio Tremonti: “Caro ministro, caro inventore della finanza creativa: non vogliamo farci dettare la linea economica dalla Bce. Vogliamo il default selettivo, la patrimoniale, la tassazione delle rendite”. E poi investimenti in cultura, sviluppo, riforme strutturali. Il corteo si sposta in viale XX settembre. Poi, festante, poco dopo le 20, torna verso il Palazzo delle Esposizioni. Le strade vengono riaperte. E passanti e turisti si fermano, chiedono le ragioni della protesta. Ricevono volantini, materiali informativi e l’invito a partecipare alla manifestazione di sabato. Alcuni manifestanti occupano la basilica di Santa Maria Maggiore. Poi la cena. E il concerto. Avanti per tutta la notte. Perché il 15 ottobre si avvicina e domani si riparte con le proteste. Appuntamento alle 10 e 30. Per “pensare al modo di far sentire la nostra voce” nel giorno dell’ennesimo voto di fiducia richiesto dal governo di Silvio Berlusconi.

*****

il Corriere della Sera prova a rifare la vecchia operazione “giovanilista”, sforzandosi di contrapporre le generazioni, nel palese tentativo di dividere anche il movimento tra “interessi comprensibili” e “privilegi inaccettabili” (tipo avere uno stipendio o una pensione). Una domanda ci viene però spontanea: “il 62% della retribuzione” è considerato “adeguato” in altri paesi europei, racconta Ferrera, ma il 62% di quanto? Dei 2.000 euro medi di uno stipendio tedesco (con prezzi dei generi aliemntari e dell’abitare molto più bassi che in Italia) o degli 800 euro di un precario di lungo corso italiano? Gli risparmiamo la fatica del conteggio: nel primo caso fanno 1.240 euro, nel secondo 496. Sono egualmente “adeguati”?

 

 

La protesta degli «indignati» riporta nuovamente all’attenzione il tema spinoso della condizione giovanile. Mancanza di opportunità, disoccupazione, precarietà, bassi redditi e poco welfare: i problemi sono noti da tempo, la crisi li sta aggravando ma le risposte della politica tardano ad arrivare.

Un confronto con i giovani indignati (e non solo loro) deve proporre un’agenda e individuare le risorse. Fra le tante sfide sul tappeto conviene partire da quella del welfare: qui c’è infatti una novità che merita attenta riflessione. Sappiamo che una delle maggiori preoccupazioni dei nostri giovani e il rischio di avere pensioni da fame. Ebbene, la novità è che forse queste preoccupazioni sono esagerate: stiamo guardando nella direzione sbagliata. Uno studio di Stefano Patriarca (già illustrato sul Corriere del 9 ottobre da Enrico Marro) indica che le pensioni dei figli non saranno tanto più basse di quelle dei loro padri. Nel 2046 un lavoratore con quarant’anni di contributi avrà diritto a una prestazione netta pari a circa il 78% della retribuzione. Nell’ipotesi più nera (40 anni di lavoro parasubordinato) la percentuale sarebbe, è vero, più bassa: circa il 62%.

Ma qual è il livello «adeguato» di una pensione? Altri Paesi Ue considerano il 62% una percentuale più che adeguata: Germania, Regno Unito e Svezia pagheranno anzi in futuro pensioni molto più modeste. A cambiare il quadro che ci eravamo fatti sinora è principalmente l’allungamento dell’età lavorativa. A metà di questo secolo si andrà in pensione intorno ai 70 anni e si vivrà fino a 95. Con un’aliquota al 33% (ben più alta della media Ue), il metodo contributivo garantirà prestazioni di buon livello.

Questi dati consigliano di spostare la nostra attenzione dalle pensioni agli altri aspetti della questione giovanile. Il mercato del lavoro, innanzitutto. Qui è urgentissimo cambiare finalmente le regole contrattuali per facilitare la transizione scuola-lavoro e per la stabilizzazione dei precari. Altrettanto importante è investire nella scuola. Fra il 2007 e il 2010 la disoccupazione è cresciuta moltissimo (più di otto punti percentuali) fra i giovani con bassi livelli di istruzione. Buona scuola, che porta a una buona occupazione, che porta a una buona pensione: questo è il circolo virtuoso che dobbiamo attivare.

Serve anche più welfare: sostegni per chi esce dalla casa dei genitori, assegni per i figli e servizi per la prima infanzia, ammortizzatori sociali calibrati sui lavori dei giovani. Dobbiamo uscire dal «pensionismo» e chiedere prestazioni migliori per le fasi della vita che precedono il ritiro dal lavoro: su questo versante siamo molto lontani dagli standard europei. Ma le risorse?

Gli indignati rivolgono i propri strali contro banche e finanza e c’è molta rabbia nei confronti della politica, della sua indisponibilità a farsi più sobria. Tagliare i costi della politica (personale, stipendi, rendite, uffici) è doveroso. Per finanziare adeguatamente le riforme occorre però agire su due altri fronti. Il recupero dell’evasione, innanzitutto: rapido, severo, senza sconti o condoni. Non solo per «fare cassa» ma anche per fornire ai cittadini un metro condiviso ed affidabile sul dare e l’avere nei loro rapporti con lo Stato. E per sradicare quell’alibi che scatta automaticamente di fronte ad ogni tentativo di razionalizzazione distributiva: «E ingiusto togliere a quelli come me perché ci sono tantissimi evasori».

Il secondo fronte è la previdenza. Nello studio di Patriarca c’è un altro dato che fa riflettere: nel 2010 l’Inps ha liquidato venti-cinquemila nuove pensioni d’importo superiore a 2.500 euro al mese; trentacinque-mila sopra i 1.750 euro al mese. Età media dei beneficiari? 55,5 anni e 57,8 anni, rispettivamente. Tutto regolare, intendiamo- ci: le norme vigenti non prevedono equivalenza (neppure approssimativa) fra ciò che si prende e ciò che si è dato. Ma possiamo permetterci di continuare così per altri dieci anni, fino a quando entrerà in vigore la riforma Dini? L’applicazione a tutti del metodo contributivo è oggi la via più equa ed efficace per riorientare verso i giovani il nostro scalcagnato modello sociale.

 

*****

Il manifesto degli indignados di Wall Street

di Christian Rocca


«Questo testo appartiene al popolo americano». Con qualche enfasi, i ragazzi di Occupy Wall Street sono a un passo dal presentare la prima bozza del loro programma economico, un misto di ricette socialiste europee (welfare dalla culla alla tomba, scuola e università gratuite per tutti), di slogan populisti contro banche, grandi aziende e super ricchi (cancellazione dei debiti, riduzione delle tasse per il 99% degli americani, super aliquote per l’1% dei privilegiati e per i capital gain), di scontate posizioni pacifiste (no alle guerre, abolizione del Pentagono) e di improbabili raccomandazioni di ogni genere e tipo (compresa la sottrazione dei figli ai genitori incapaci di garantire un’educazione adeguata a una non meglio precisata «moralità universale»).

La bozza del Nuovo Statuto Economico del Popolo Americano, «espressione della volontà popolare», «creata da e per il 99%» con un documento di Google lungo 72 pagine letto dal Sole 24 Ore, sarà presentata oggi a New York. Il documento finale sarà ratificato dagli occupanti di Wall Street il 20 novembre, dopo una serie di passaggi che prevedono la continuazione del dibattito, la presentazione di una seconda bozza il 28 ottobre e la stesura del testo finale due giorni prima di un voto popolare che non si sa ancora se sarà telematico oppure nel corso di un’Assemblea generale del movimento in Zuccotti Park.

Il Nobel per l’Economia Paul Krugman ha spiegato che la protesta contro il mondo finanziario, accusato di essere una forza economicamente e politicamente distruttiva della società, è assolutamente giusta. La stessa cosa ha detto il grande ayatollah del regime teocratico iraniano Alì Khamenei. Una critica sensata al movimento, ha scritto Krugman sul New York Times, è l’assenza di una proposta specifica. Non che spetti ai ragazzi di Occupy Wall Street formulare richieste dettagliate, ha scritto il Nobel, ma sarebbe il caso che il movimento si mettesse d’accordo sulle linee guida principali di un cambiamento possibile. La storica rivista liberal New Republic invita invece la sinistra a non cadere nella trappola e a non sostenere la lotta degli occupanti, perché la principale differenza tra liberal e radical è che i liberal sono capitalisti che credono in un mercato regolato e si battono per raddrizzare le ingiustizie economiche. I liberal non vogliono sovvertire il capitalismo, i radical sì.

La piattaforma dei ragazzi di Zuccotti Park può vantare una partecipazione collettiva e dinamica secondo il principio del crowd sourcing, lo stesso stile di Wikipedia. Le regole per l’elaborazione del documento, bene in vista all’inizio del testo, sembrano dare torto agli intellettuali di New Republic, perché dicono che «le proposte non devono interferire con l’efficiente funzionamento dell’economia di mercato, dello spostamento dei capitali, degli incentivi agli inventori, agli imprenditori, ai consumatori, ma a condizione che siano garantiti i servizi sociali minimi e vere opportunità per il popolo americano».

Il movimento Occupy Wall Street, in teoria, non è contrario al mercato e al capitalismo. Ma solo in teoria. Non sempre, anzi quasi mai, le proposte contenute nello Statuto Economico sono compatibili con un sistema capitalista, da qui il disagio di New Republic e gli urrà di Khamenei.
Il programma degli occupanti nasce dalla Dichiarazione di Occupazione di New York del 29 settembre 2011.

La stesura dello Statuto Economico parte da quelle dichiarazioni «non emendabili» contro l’1% di super ricchi. All’elaborazione del testo hanno partecipato circa cento persone, coordinate da Ralph Meima, direttore di un master in sostenibilità al Marlboro College in Vermont. I cento redattori continuano ad arricchire il documento in modo esplicitamente non coerente e spesso contraddittorio, come riconoscono gli stessi coordinatori dell’iniziativa.

I punti del programma sono 19, più sedici raccomandazioni addizionali. Gli occupanti chiedono di fermare i bailout, cioè gli aiuti economici alle istituzioni finanziarie, di introdurre una Tobin Tax su tutte le transazioni finanziarie (ma non sugli assegni e sui bonifici, tengono a precisare), di aprire tutte le frontiere, di investire un trilione di dollari in infrastrutture, di chiudere l’era dell’economia centrata su combustibili fossili e nucleare per puntare esclusivamente su energia geotermica, idroelettrica, eolica. Tra le proposte ci sono anche tariffe, dazi e maggiori tasse per evitare che le aziende americane vadano all’estero a sfruttare il costo del lavoro più basso. È ancora aperto il dibattito sui cibi geneticamente modificati, un altro «strumento velenoso creato dall’1% per tenere sotto controllo il 99% degli americani». Gli occupanti non hanno deciso se proporre di rendere gli Ogm illegali oppure se limitarsi a imporre un’etichetta che segnali la natura modificata del prodotto. Le leggi sulla droga, si legge sul testo, devono essere misteriosamente simili a quelle del Portogallo. L’acqua non può essere privatizzata. Il servizio pubblico giornalistico va incentivato con soldi federali. Le istituzioni finanziarie internazionali, Fmi e Banca Mondiale, vanno democratizzate con il sistema “un Paese, un voto”.

C’è un no deciso al porto d’armi, alle pubblicità farmaceutiche, agli spot diretti ai bambini e ai contributi elettorali da parte di associazioni (solo i cittadini possono farlo, al massimo con mille dollari). La riforma sanitaria di Obama è da abrogare e sostituire con un sistema pubblico come quello europeo. Sì, invece, a incentivi alle imprese cooperative, all’aumento dei fondi per la scuola pubblica, a un’istruzione finanziata con almeno la metà dei duemila miliardi di dollari spesi ogni settimana per le guerre. I ragazzi di Zuccotti Park sanno bene, e lo scrivono, che tagliare il bilancio del Pentagono indebolirebbe il Paese, costringerebbe al collasso il complesso militare industriale e affosserebbe l’economia. «Ma almeno saremo ben istruiti», si legge nel testo. Tutta l’istruzione deve essere gratuita. Qualche redattore del testo suggerisce di garantire a ogni studente istruito in America il superamento degli studi e un lavoro congruo.

Tra gli allegati al testo c’è anche una tabella con gli «stipendi equi» categoria per categoria, cui aggiungere pieni benefit pensionistici, sanitari e d’istruzione per tutta la famiglia: banchieri 20mila dollari, avvocati 27mila, costruttori 25mila, dottori 28mila, infermiere 27.500, insegnanti, bibliotecari, ingegneri ferroviari, piloti di barche 35mila, poliziotti 36mila, operai 20mila, docenti universitari e ricercatori 36mila, operatori della Difesa 25mila, parlamentari 30mila, Presidente degli Stati Uniti 40mila, soldati non previsto.



- © Riproduzione possibile DIETRO ESPLICITO CONSENSO della REDAZIONE di CONTROPIANO

Ultima modifica: stampa

1 Commento


  • Luigi Giuseppe Bruno DIsa

    Voglio credere in questo nuovo Movimento. Che sia veramente nuovo, però – e non mi pare -vista la partecipazione di alcuni politici di carriera. Inserisco il mio post su FB : E…siamo alla lotta di classe! Il capitale, ossia il debito pubblico, è nelle mani delle banche, delle Assicurazioni e delle Finanziarie. La politica scellerata dell’ultimo ventennio ha impoverito le famiglie a tutto vantaggio di quei soggetti, che si soni alimentati anche con i ricorrenti contributi dello Stato, cioè dei cittadini., come se non bastassero gli interessi pagati dalle famiglie medesime , costrette ad indebitarsi per fronteggiare i costi imposti da consumismo subdolo.
    La via di uscita!!!??? Alcuni sostengono di non pagare il debito pubblico. Io suggerirei una mediazione: congelamento del debito per n_? anni, per finanziare lo sviluppo. Si sono arricchiti a spese del Lavoro, con il concorso di politici collusi, ora diano il contributo per la ripresa del Paese, dei Paesi indebitati. E’ anche loro interesse altrimenti non avranno più limoni da spremere.

Lascia un commento

Il tuo indirizzo email non sarà pubblicato. I campi obbligatori sono contrassegnati *